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Autore: Nihal_Dubhe    28/09/2013    2 recensioni
[Mitologia greca]La bellezza non desta sempre e solo attrazione, a volte l'asatto opposto.
La fuga è l'unica soluzione possibile, un obbligo irrevocabile.
Le storie d'amore non hanno sempre un lieto fine e a volte nemmeno un inizio.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo un tempo che mi sembrò interminabile, finalmente, una preda fece la sua comparsa: un giovane cervo, solo. Come i ragazzi che, con le guance appena scurite da un primo accenno di barba, entrano a far parte della vita adulta, procedette, fiero e baldanzoso sempre più vicino al mio nascondiglio.

Mi immobilizzai ancora di più, nonostante i crampi alle gambe per essere stata così a lungo accovacciata. Non potevo mandare tutto a monte sul più bello.

Il vento mi proteggeva, spirando nella mia direzione, nascondendo al suo fiuto il mio odore. Rassicurato dall’apparente assenza di pericolo, chinò la testa, allungando il collo forte e flessuoso, per brucare placidamente l’erba tenera sotto i suoi zoccoli. Ecco giunto il momento propizio, quello per cui quella stessa mattina, all’alba, avevo inneggiato alla dea e sacrificato una bianca capretta. Allungai la mano verso il mio fedele arco, incoccai la prima freccia e portai la mano destra a sfiorare le labbra, sentendo la tensione della corda lavorare contro i miei muscoli. Aguzzai la vista, stringendo le palpebre per metterlo meglio a fuoco. Trattenni per qualche attimo il fiato. E poi…

Un suono, un sibilo seguito da uno schiocco, come di un altro arco, spaventò il cervo, che fuggì, balzando elegantemente sulle sue agili zampe. La distrazione mi fece mollare il dardo che mandai a conficcarsi nel tronco di un albero. Chi osava disturbare un’attività tanto degna e sacra, chi disturbava una delle compagne di Artemide? Il Parnaso era un monte sacro, in pochi avevano l’ardire di avventurarvici: vergini cacciatrici, poeti ispirati, Muse e divinità popolavano questi boschi. Poteva essere solo uno sventato, un folle. Mi volsi nella direzione da cui era provenuto il rumore molesto, furibonda.

Appoggiato ad un tronco, tenendosi il petto, stava un giovane. Era la perfezione dei canoni di bellezza maschile. Membra ben proporzionate, con gambe lunghe e atletiche, spalle larghe senza risultare imponenti coperte dalla veste purpurea, stretta dalla cinta in corrispondenza dei fianchi. Ma era il viso che, pur distorto da una smorfia di dolore, catturava immediatamente l’attenzione: aveva i lineamenti di una statua, forse più belli, perché mossi da un’aura dorata che sembrava provenire dalla sua pelle. Per un attimo mi parve di vedere circondata dalle sue mani, strette sul cuore, una freccia d’oro. Puntò i suoi occhi, contornati da riccioli di capelli, su di me e mi sentii come un agnellino di fronte ad un lupo. Per diversi secondi il cuore mi batté all’impazzata, quasi volesse uscirmi dal petto. Ero intrappolata dalle sue iridi dorate.

Poi venne il colpo, così forte da sentire il petto come se si accartocciasse, come colpito da un ariete, facendomi piegare su me stessa . Sentii una fredda stilettata al centro del petto, come se fosse penetrato un lungo pugnale nelle mie carni. Mi salì dell’amaro in bocca, ma nulla di fisico mi aveva toccata.

Sollevai di nuovo lo sguardo verso il ragazzo e l’espressione dolce con cui mi guardava acuì il dolore al petto, facendo crescere dentro di me rabbia e repulsione. Il suo bel viso era più rivoltante di una carcassa divorata dai parassiti. Lo vidi sollevare verso di me la sua mano immonda e, come spinta da una forza esterna, scappai nella direzione opposta.

-Fermati, non scappare! Non ti sono nemico,  lo sentii urlare a gran voce, inutilmente, cercando con il suo tono carezzevole di ammansirmi. Non sapeva che così si rendeva ancor meno tollerabile: le tenere parole che mi rivolgeva erano come pizzichi di un tafano fastidioso. Più chiamava, meno desideravo voltarmi. La sua voce melodiosa mi pareva stridula e sgraziata come le unghie sul vetro. Avrei preferito buttarmi tra le fiamme di un incendio, essere straziata da quattro cavalli in corsa, diventare il pasto di una belva,  piuttosto che farmi raggiungere.

Correvo, lanciata a perdifiato tra i tronchi e i rami, con i capelli scarmigliati che mi volavano davanti agli occhi. La tunica corta mi si sollevava sui fianchi mentre slanciavo le gambe in avanti in quella corsa sfrenata.

Quando lo sentivo più vicino, quasi a ghermirmi, facevo più forza sulle gambe, battevo i piedi contro il suolo ad un ritmo più veloce.

-Non sai chi sono io… Lo sentii dire. Non mi importava chi fosse, quel che davvero volevo era che smettesse una volta per tutte di inseguirmi. Sapevo già abbastanza: volevo solo mettere quanta più distanza tra me e lui, era un bisogno dettato da qualcosa al di là della ragione, il sentimento di disgusto dentro di me era talmente forte da riempirmi totalmente e sopraffare qualsiasi altra cosa.

I rami mi graffiavano le gambe, la dura corteccia mi scorticava la pelle, i sassi sul terreno erano un tortura per i miei poveri piedi, ma nonostante ciò, non appena sentivo il mio inseguitore farsi più vicino di  anche un solo passo, balzavo in avanti sospinta da una nuova forza, che andava però via via affievolendosi.

Le lacrime cominciavano a rigarmi le gote, a inondare il mio viso e ad accecare la mia vista.

Cominciai a maledire il giovane, che inspiegabilmente mi seguiva, me, che seguitavo a scappare, quel giorno infausto, il sole, la luce.

Volevo solo sparire, smettere di correre, fermarmi.

Il pensiero andò a mio padre che numerose volte mi aveva chiesto di prendere marito, di dargli dei nipoti. Come potevo anche solo pensare di dargli retta, soddisfare il suo desiderio, se la sola di vista di quest’uomo provocava in me quest’istinto di fuga, una necessità fisica di allontanarmi il più possibile.

Allungai il passo ancora una volta, formulando una preghiera a fior di labbra. La frustrazione per la mia incapacità di distanziare a sufficienza l’odiato inseguitore, faceva scorrere ancora più copiose le mie lacrime. Singhiozzavo rumorosamente, l’aria che entrava nei polmoni era una fitta dolorosa e non placava il fuoco che avevo nel petto.

Le mie falcate si facevano più corte, sentivo un senso di gravità bloccarmi al suolo che cresceva sempre più.

Sentii un brivido percorrere interamente il mio corpo, dalla punta dei piedi alla radice dei capelli. Mi ritrovai ferma al centro di una radura. Provai a spostarmi, ma non ci riuscii. Dei sottili filamenti si erano ancorati dal suolo a partire dalle dita dei miei piedi. Le mie estremità cominciavano a scurirsi e a diventare insensibili. Terrorizzata, guardai nella direzione del giovane. Stava arrivando, mi avrebbe presa.

Guardando a terra mi accorsi di non avere più le gambe dal ginocchio in giù: sulle mie membra brune cresceva uno strato di corteccia che saliva gradualmente, circondandomi.

Portai le mani al viso, disperata. Dalle mie unghie nascevano ramoscelli verdi, su cui spuntavano le prime foglioline. La mia chioma, la mia bella chioma, il mio vanto si era trasformata in fronde verdi.

Chiusi gli occhi, attendendo la fine.

Poco prima che tutto diventasse nulla, sentii delle braccia cingermi i fianchi, in gran parte coperti dalla scorza legnosa. E percepii un bacio sulla corteccia, dove una volta stava il mio viso.

 

 

 

N.d.A.

Ciao a tutti!
Spero che questa ff vi piaccia, sono sempre stata legata alla mitologia greca e finalmente ho trovato un’idea per renderla un pochino più personale.

Fatemi sapere cosa ne pensate J

SaraDubhe

  
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