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Autore: _Faraway_    28/09/2013    0 recensioni
'Intanto nessuno può capire, non si possono capire cose del genere .. Forse posso farlo solo io .. sono imperfetti, come me.'
'Questo non puoi dirlo. Tutti cerchiamo la perfezione, ma raramente la troviamo. O se l'abbiamo trovata, non la riconosciamo. Magari prima o poi scriverai qualcosa che ti soddisfa davvero. Qualcosa che secondo gli altri, sarà la perfezione. Puoi crearlo. Qualcosa di perfetto.'
Genere: Generale, Romantico, Song-fic | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Eccomi qua. A percorrere come una scappata di casa Via Faenza. Gli shorts sotto il culo per il caldo, e non perché avessi un bel culo, la canottiera scollata, non perché avessi delle grandi tette, con le cuffie alle orecchie ascoltando la poca musica del cellulare che neanche mi piaceva molto, solo per non ascoltare il mondo all’esterno. Ero l’anti-mentalità di oggi fatta persona, praticamente. Fra poco sarebbe iniziata la scuola, e mi seccava tornare, un sacco. Il greco poi mi aveva dato un sacco di problemi e mi chiedevo ancora perché avessi scelto il liceo classico. Avrei fatto meglio ad andare a un bel professionale, diventare parrucchiera e passare il tempo a fumare sulla soglia del negozio per lasciare poi le signore più rompiscatole alle colleghe. Peccato che non sono per nulla così, e probabilmente sarei stata io la collega sfigata a cui toccavano tutte le vecchiette rompicoglioni. Mi ritrovai in Piazza san Marco senza neanche accorgermene. Dopotutto Firenze è così, è piccola, tutte le strade portano ad un punto di riferimento. C’erano ragazzi ovunque, sulle panchine, sugli angoli d’erba, seduti a parlare, fumare, giocare a carte. Mi sedetti su una panchina, zitta, invisibile, come al solito. Da lontano sarei potuta sembrare una ragazzina in attesa di qualcuno, con le cuffie alle orecchie per ingannare il tempo. Meglio così, almeno a primo impatto la gente non avrebbe capito che ero lì per nessun motivo. Bassina, con i capelli corti, diversi buchi alle orecchie. Vestita in modo semplice, con gli shorts ottenuti da un paio di jeans ormai troppo stretti. Mi passai una mano tra i capelli, incerta sul da farsi. Potevo camminare finché le gambe non mi avrebbero supplicato di tornare a casa, o rimanere lì, come un palo. Sinceramente non sapevo cosa fosse meglio, tornare a casa sarebbe voluto dire prendere in mano i libri per evitare di essere destinata alla bocciatura quell’anno fin dal primo mese, ma almeno sarei stata sola per un po’. Mamma e Andrew erano fuori con i tre, e non avrei avuto rogne per un po’. Decisi di tornare. Non mi ero completamente accorta che un ragazzo si era seduto accanto a me.
< Ti piace Macklemore? > chiese quando misi al collo le cuffie. Mi resi conto che la riproduzione casuale aveva messo Thrift Shop di Macklemore e Ryan Lewis.
< No. Non l’ho neanche messa io .. > risposi secca, giocherellando con il cavo che si snodava sulla mia pancia.
< Ah > disse il ragazzo. Lo osservai di sbieco, era abbastanza carino, con i capelli cortissimi, gli occhi grigi, la pelle abbronzata e delle braccia leggermente muscolose che spuntavano dalle mezze maniche della camicia.
< E cosa ti piace ascoltare? > insistette. Era palese che volesse attaccare bottone ormai, i suoi amici, seduti più in là, ci guardavano ridendo. La cosa mi infastidì.
< Nulla, non ho alcun genere in particolare > risposi ancora più secca di prima < Scusa, ma è tardi, devo andare > e mi alzai di botto. Lui sembrò subito allarmato.
< Ho detto qualcosa che non dovevo dire?! > la tipica domanda per essere rassicurati, per sentirsi dire ‘No, è colpa mia.’ E andò così anche quella volta.
< No, tranquillo, sono io che sono in ritardo, non c’entri tu > e alzai i tacchi.
 Subito il gruppo di ragazzi si alzò ridendo e prendendo in giro l’amico che si diresse verso di loro mandando qualche ‘fanculo’ ogni tanto. Mi dispiaceva per lui, ma si sarebbe subito disinteressato a me, non sono capace di stringere rapporti con la gente, in generale. Infatti sostanzialmente sono una persona sola, la tipica ‘diversa’ incompresa, che va al contrario rispetto al resto del mondo. Avevo solo un vera amica, che era la mia migliore amica, Giulia. La conoscevo dalle elementari, quando mia madre cercava di vestirmi griffata e io già allora mi ribellavo. Ho sempre avuto un carattere duro e freddo, che mostravo anche nella mia ‘tenera’ età. Ma Giulia, imperterrita, la dolce bambina Giulia, decise che doveva conoscermi e andare oltre il mio carattere scorbutico. Divenne subito la mia migliore amica, sapeva capirmi al volo, solo guardandomi negli occhi leggeva i miei pensieri e le mie preoccupazioni. E feci con lei elementari, medie e liceo. A parte lei, non avevo nessuno. Ma andava bene così, sola stavo bene, perché cercare di cambiare le cose? Percorsi tantissima strada prima di arrivare sul Lungarno. Infatti era là che c’era casa mia, all’ultimo piano di uno di quei enormi, antichissimi palazzi del 500. O almeno, quella che consideravo del compagno di mia madre. I miei genitori si erano separati quando avevo due anni perché mio padre si drogava, e morì pochi mesi dopo la separazione per lo stesso motivo. Allora mia madre esattamente cinque anni dopo sposò Andrew, un inglese che viveva a Firenze da ormai diversi anni, di cui mia madre era segretaria e portavoce. Andrew dopo alcuni mesi dall’incontro con mia madre, lasciò la moglie e infine si sposarono. Andrew era ricco sfondato, era infatti colui che si occupava del famoso negozio Ferragamo, il negozio in cui una fottuta giacca costa la bellezza di 6000 euro. E così Andrew aveva una casa enorme sul Lungarno, un posto di cui non si può manco immaginare il prezzo e il valore riguardo le abitazioni, dove ci trasferimmo subito. Andrew era sopportabile, aveva un sarcasmo fastidioso, e un odio intenso verso chi non avesse un minimo interesse per la moda e la politica. Ovvio che si è sposato con mia madre, che di moda ormai se ne intendeva, come dicevano le ormai sue carte di credito che avevano visto tutti i negozi più costosi della città. Avevano fatto ben tre figli dopo essersi messi insieme: quando avevo otto anni, nacque Ellison, l’anno dopo Chantal e quando avevo dieci anni, Luis Albert  Jr., come il padre inglese di lui. Tutti nomi terribilmente inglesi e orribili, ma dopotutto non mi aspettavo di meglio da due tipi così. Fra tutti questi biondissimi Foxman, il cognome di Andrew e dei suoi figli, c’ero io, che portavo il cognome di mio padre, Mazzanti. Ero la diversa di casa, a cui i ‘nobili’ fratelli rompevano i coglioni e che doveva tollerare le occhiatacce di mia madre e Andrew perché non vestivo firmata e preferivo il mercatino di San Lorenzo a Gucci. Li odiavo, odiavo il loro modo di pensare, il loro essere raffinati che per me era solo un capriccio, perché non sono i soldi a mostrare ciò che veramente sei. L’avevo visto con mia madre, una persona, che scalando su pioli fatti di amicizie e convenienza, era arrivata ad Andrew, che magari amava davvero, ma si capisce subito che il fine era uno e uno solo all’inizio. Non potevo davvero odiare mia madre, rimaneva sempre colei che mi aveva concepito e portata avanti da sola per sette anni, ma aveva fatto i suoi errori e mostrato troppe volte chi era davvero, e non riuscivo a perdonarla per molte cose. Aprì il portone e salii a casa. La casa era tutta moquette e affreschi, come le case nobiliari che potevi trovare sul Lungarno. Avere una casa così vuol dire avere soldi, ed è una cosa di cui andare fieri .. ma a me faceva schifo. Quella casa trasudava ostentazione, la odiavo. Percorsi il lungo e buio corridoio e salii le scale. Giù c’era un salone, una cucina e due bagni, mentre su c’erano le camere da letto, la cosiddetta sala giochi, un altro bagno e un soppalco. Io dormivo nel soppalco. Un soppalco di legno, completamente di legno. Con sole due finestre. Una che dava sul Lungarno e un lucernario. Se uscivi la testa da quest’ultimo, potevi dominare tutta Firenze. E guardando Palazzo vecchio e la Cupola, riuscivi solo a sentirti meschino, davanti a quei giganti. Buttai la borsa a terra e mi tuffai sul letto, ancora con le cuffie alle orecchie, senza ascoltare davvero la musica. Studiai le travi di legno, e i disegni del legno che si intersecavano creando figure eteree. Il letto vibrò e realizzai tardi che fosse un messaggio. Non ne ricevevo, di solito. Era Giulia. Come in tutti i libri, i film e le storie più disparate, Giulia era abbastanza popolare, ed io la sua amica strana. Quando gli chiedevo come potessi essere la sua migliore amica, mi diceva
 < Non sei come gli altri. Sei diversa! >. Ma non mi ha mai spiegato in cosa. Il messaggio diceva:
Domani festona da me per l’inizio della scuola! Ovviamente tu verrai, e ci sarà un sacco di gente! Ci sarà da divertirsi, devi esserci assolutamente! E magari incontri qualche ragazzo carino! :3 Ah, nel banco insieme domani, e sempre!
Cazzo, non ci voleva. Non mi andava per niente di andare a quella festa, ma non potevo certo dirgli di no! Aspettai un po’ prima di rispondere. Alla fine scrissi:
Ok, però vengo ad aiutarti ad organizzare. Per il banco: certo, sempre insieme!
La motivazione per cui volevo andare prima da lei era un’altra: mi seccava arrivare alla festa e trovare un sacco di gente ronzare intorno a Giulia, senza nulla da fare e nessuno con cui parlare. Allora sarei andata prima, anche per studiare meglio la situazione. Sentì la porta sbattere e voci, voci, voci di ragazzini. Mia madre e il suo compagno erano tornati, con tutta la ciurma. Sentì mia madre salire le scale.
< State buoni bambini! Chissà se quell’altra è tornata .. > quell’altra ovviamente, ero io.
< Fvancesca! > gridò Andrew con quel fastidioso accento inglese. Non risposi. Allora una testa bionda comparve dalle scale che portavano al mio soppalco. Era Luis.
< E’ qui mamma, è qui! > salì sul mio letto ed iniziò a saltare come un matto.
< Fvancesca, Fvancesca, Fvancesca, Fvanciiiiiiii! > continuava a ripetere, con la stessa r moscia del suo papà. Salì allora anche mia madre, proprio mentre spingevo giù dal mio letto Luis che si divincolava aggrappandosi alla coperta.
< Eccoti. > disse mia madre con aria neutra.
< Ciao mamma > risposi io, smettendo all’istante di spingere Luis, che ricominciò a saltare, stavolta ripetendo < Mamma, mamma, mamma, mamma > senza sosta.
< Volevo dirti .. > iniziò mia madre.
< Mamma mamma mamma! >
< .. che il prossimo weekend io e Andrew per chiudere il periodo estivo andiamo a Milano, approfittando di alcune questioni d’affari .. >
< Mamma mamma mamma! >
< .. e che lasceremo i tuoi fratelli da Elisabetta, ma tu starai qua, no? >
< Mamma mamma mamma .. >
< STAI ZITTO! > tuonai io all’improvviso. Luis saltò in aria e si ritrovò a terra di culo, troppo sconvolto per lamentarsi. Guardai mia madre con eloquenza, sfidandola a rimproverarmi.
< Certo, non ho bisogno di andare da nessuna parte > affermai. Lei mi guardò alzando un sopracciglio, mentre arricciava i mossi capelli biondo oro con un dito.
< Come vuoi .. > rispose < ma nessuno deve entrare mentre noi non ci siamo, al massimo Giulia, ma non per molto tempo! >
< Certo certo .. > dissi distrattamente, alzandomi e posando le cuffie.
< E sistema questa stanza, è un casino! > e dette le ultime parole famose, scese. Luis la seguì, ancora con il culo dolorante, senza risparmiarmi una linguaccia. Mi guardai intorno. Mia madre non aveva tutti i torti: i vestiti erano buttati su una sedia invece di essere nell’armadio, i libri che avevo sfogliato distrattamente cercando di ripassare sparsi sul tavolo, il PC a terra, e c’era qualche lattina qua e là. Decisi di sistemare.
Ci misi un’ora piena, e mia madre mi chiamò per la cena proprio quando mi ero accasciata sulla sedia, contenta però del risultato. Mi sedetti a tavola e la scena si presentò così:  Ellison mangiava senza staccare dita o occhi dal cellulare, Chantal parlava ininterrottamente mentre Andrew la ascoltava distrattamente, annuendo qualche volta, mentre ascoltava il TG, e mia madre cercava di convincere Luis  a mangiare la carne prima del gelato. Andrew guardò i miei shorts sfilacciati.
< Vedo che ti sei dedicata al fai-da-te. Ma quei pantaloncini sono tvoppo covti, cava. > feci finta di non sentirlo e mangiai in silenzio. Mia madre cucinava in estate, ma d’inverno avevamo la cuoca. Non che le cose non fossero buone, ma si sentiva la differenza. Salì subito in camera dopo cena e mi misi al computer. Scrivevo. Non sapevo neanch’io cosa, ma scrivevo. Erano come dei testi di canzoni, che mi salivano ogni tanto, quando camminavo e pensavo, sotto la doccia, o quando ero particolarmente giù. E li scrivevo. Prendevo la società per il culo nei miei testi, entravo in un mondo mio che solo io conoscevo, ma che on riconoscevo: era fatto di suoni, di ritmi, di musica che non avevo ancora mai sentito. Mi sembrava una cosa stupida, ma se sapevo farlo, perché no? Scrissi fino a tardi, dimenticandomi di farmi lo zaino, dimenticandomi che il giorno dopo avrei avuto scuola. Spensi il PC verso le due, e rimasi a guardare fuori dal lucernario. Si intravedeva qualche stella, nonostante le luci artificiali del Lungarno. Mi chiedevo dove fossi finita, e se lontano, forse quanto era lontana una di quelle stelle, ci fosse un posto, o anche solo qualcosa, magari qualcuno, che potesse darmi una spinta, per cambiare la mia vita, o magari renderla migliore. Anche solo capire e riconoscere me stessa. E mi addormentai così, con questi pensieri, come se il giorno dopo fosse un altro giorno d’ozio nel caldo, senza immaginare chi avrei conosciuto in quella scuola infernale.
 
Ok ragazzi belli, questa è la prima storia che pubblico qui C: recensite, scrivete cosa ne pensate, io al più presto pubblicherò il vero 1°capitolo!
Write, Read and Stay EFP!
  
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