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Autore: Jackie_    29/09/2013    2 recensioni
Questa storia è ambientata nel 2029, Jack -diventato padre a 25 anni- ha deciso di tornare a Baltimora dopo sedici anni di assenza per sistemare i conti col passato. Che cosa ne è stato degli All Time Low? Come se la caverà April Barakat nella nuova città? E riuscirà Jack a far pace con i propri rimpianti?
Genere: Generale, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo Quattro

April's pov

Questa festa è davvero grandiosa! Ad Olympia avevamo una concezione diversa della parola "festa". Insomma, di sicuro nessuno aveva mai riempito una casa di adolescenti incustoditi! C'è chi si dà alla pazza gioia ballando sul divano, chi approfitta della disponibilità di qualche ragazza ubriaca, chi sfida la forza di gravità lanciandosi dai tavoli e chi, come me, ha il mal di pancia dal troppo ridere. Lucas sta facendo un'esagerata imitazione di Josh e non c'è uno del nostro gruppetto che non stia ridendo. Josh compreso. "Ehi, io sono Josh-il-figo! Faccio il bullo con la sigaretta sempre in bocca e mi piace picchiare i ragazzini con gli occhiali!" dice incupendo la voce e atteggiandosi da ragazzo strafottente. È ridicolo. "Ancora con questa storia?" -cerca di difendersi Josh- "Non l'ho picchiato, l'ho solo spinto e lui è caduto! E poi aveva davvero rotto i coglioni, vero Virginia?" cerca il sostegno della ragazza, ma sono tutti sforzi vani perché nemmeno lei riesce a smettere di ridere. Inizio a credere che siamo tutti un po' troppo brilli.
Mi chiedo cosa direbbe mio padre se mi vedesse in questo momento. Sono certa che non si aspetterebbe mai di vedere la sua cara figlioletta parzialmente ubriaca in una casa piena di ragazzi e nessun adulto a vegliare su di lei. Cerco di immaginarmi lui alla mia età...chissà se anche papà e i suoi amici erano soliti fare feste del genere! Mentre strane immagini di mio padre sedicenne prendono vita nella mia mente, una figura oltre la spalla di Lucas cattura la mia attenzione. È il padrone di casa, Peter, che sta salendo le scale. Immediatamente noto qualcosa di strano in lui, sembra l'unica persona che non si sta divertendo e questo lo fa brillare, almeno ai miei occhi, come se avesse una scritta lampeggiante in fronte che recita "tristezza". Si perché quella è la sensazione che mi trasmette, sembra davvero abbattuto. E io voglio sapere perché. Non è la curiosità che mi spinge, non mi interessa affatto sapere qualche succoso pettegolezzo per poter sparlare di lui nel pomeriggio, no, semplicemente sento il dovere di stargli vicino.
Con una scusa lascio i miei amici a ridere di qualche vecchia figuraccia di Virginia e mi faccio largo tra quella massa sudata di ragazzetti arrapati e gasati perché tra le mani tengono un qualche strano cocktail alcolico. Raggiungo con non poca fatica le scale e mi affretto a salirle perché ormai Peter è uscito dal mio campo visivo e non ho idea di dove sia finito. Al primo piano non c'è, e nemmeno al secondo. Solo quando arrivo al terzo, con la testa che comincia a girare, noto un chiaro raggio di luce provenire dall'alto. La porta della mansarda è aperta e illumina la ripida scaletta al di sotto di essa. Peter dev'essere lassù. Così non ci penso due volte e mi arrampico su quella scala decisamente precaria tra scricchiolii vari, rischiando di inciampare un paio di volte.
Quando finalmente arrivo in cima e sposto la porta per poter entrare rimango estasiata. Questa stanza è magnifica. Peter, poco più avanti, si accorge della mia presenza e si volta trovandomi a bocca aperta.
"È bello qui, vero?" sorride sospirando. E io riesco solo ad annuire.
 Nonostante non ci siano luci accese la stanza è completamente illuminata e questo è possibile perché una buona parte del tetto è in vetro. Sopra di noi il cielo sembra più stellato che mai e adesso non so se le gambe mi cedono per via dell'alcol o dell'emozione. Sembra strano da dire, ma questa stanza è la cosa più bella che io abbia mai visto. Ci sono un paio di divani blu dall'aria comodissima e una sedia a dondolo che dono al tutto un'atmosfera...calda. Sì, in questa stanza mi sento come stretta in un abbraccio, come se qui dentro non possa mai succedere nulla di brutto.
Senza staccare gli occhi dal cielo muovo qualche passo in avanti e sento Peter ridere piano. Devo avere un'espressione davvero estasiata perché lui mi lascia tutto il tempo per assorbire la magia del posto senza proferire parola.
Quando finalmente riporto lo sguardo su di lui le cose cambiano. La magia si spezza, la bellezza di quel posto si incrina, la melodia perfetta che percepivo stona. È il suo sguardo che rovina tutto. Sono i suoi occhi tremendamente lucidi e liquidi che mi fanno preoccupare. Peter distoglie subito lo sguardo e si lascia cadere su uno dei divani, perfettamente al centro della stanza, sotto il tetto di cristallo. Tira su col naso e poi si decide a parlare.
"Come mai sei venuta fin quassù?" Non sembra infastidito dalla mia presenza, solo curioso.
"In realtà volevo parlarti" ammetto sentendomi un po' in imbarazzo. Di solito non sono così diretta, deve essere l'influenza di questo tetto che mi spinge ad essere trasparente. "Ah sì? Come mai, è successo qualcosa?"
"Questo lo chiedo io a te. Non sembri proprio in vena di festeggiamenti."
Peter mi fa cenno di sedermi accanto a lui ed io, in silenzio, obbedisco. In un gesto che mi appare molto naturale, Peter si allunga sul divano e appoggia la testa sulle mie gambe coperte dal vestitino bianco che ho scelto per la serata. I suoi occhi si perdono ad osservare il cielo in un’espressione quasi nostalgica, si morde il labbro inferiore con insistenza e mi sembra quasi di sentire i suoi pensieri, il suo desiderio di sparire tra quelle stelle così lontane. Vorrei solo sapere perché. Ma non parlo, aspetto che sia a lui a decidere se confessarmi o meno ciò che lo tormenta.
“April, tu sei felice?” La sua voce è roca, bassa, dalle dolci sfumature dolenti di chi è abituato a soffrire in silenzio.
Ho bisogno di parecchi istanti prima di trovare la risposta giusta da dargli. Il mio cervello è come rallentato. I miei pensieri sono focalizzati su di lui, è come se lo stessi guardando davvero per la prima volta. Ha le guance arrossate, forse ha bevuto anche lui qualche mix improbabile di alcolici che spopolano al piano di sotto. Ha delle ciglia lunghissime e deliziose, delle folte ma adorabili sopracciglia e solo ora noto delle piccole lentiggini sul suo naso.
“A volte si. Quando sto con voi, per esempio. O quando trovo mio papà ad aspettarmi sul portico con del gelato e mi racconta un sacco di cose divertenti che dubito gli siano successe veramente.” –mi sfugge un sorriso- “Ma non è sempre facile. Ci sono alcuni giorni in cui vorrei…non so, vivere la vita di qualcun altro.”
Non sono sicura che il mio discorso abbia un senso, credo anche di aver strascicato le ultime parole, non sono abituata ad avere la mente annebbiata in questo modo, ma Peter porta lo sguardo su di me ed annuisce piano.
“Anche a me capita, sai? Desiderare di vivere la vita di qualcun altro intendo. Anche solo per qualche giorno.” Ammette con un sorriso strano.
Sospirando si mette seduto e si abbraccia le ginocchia non curandosi di poter rovinare questo pregiato divano con le scarpe. In questa posizione mi sembra molto vulnerabile. Come se potesse rompersi in mille pezzi da un momento all’altro. Così istintivamente mi faccio più vicina.
“Adoravo questo posto…” –sussurra nascondendo il viso tra le braccia- “Era…il mio rifugio.”
Non capisco perché parli al passato, ma non lo interrompo. Voglio rimanere ad ascoltare ciò che lo tormenta.
“Ricordi che ti ho detto che festeggiamo la partenza di mio padre perché lui è semplicemente insopportabile? Bè, un tempo non era per questo.”
Lo sento tirare ancora su col naso e mi chiedo se stia piangendo. Ho una gran voglia di stringerlo forte tra le braccia e consolarlo, eppure rimango immobile.
“Mio padre era fantastico. Era il migliore. Io…lo adoravo. Passavamo un sacco di tempo assieme e ci divertivamo con le cose più semplici. Per questo quando partiva, e lo faceva spesso, io mi sentivo morire. Lo volevo accanto a me ogni giorno, non riuscivo a sopportare l’idea di non vederlo per mesi. Per questo dopo la sua partenza venivamo quassù, la mamma ed io. Lei si sedeva su quella sedia a dondolo laggiù, mi stringeva forte e mi diceva che dovevamo festeggiare. Lo so, può sembrare contorto, ma noi festeggiavamo per non sentirci soli. Festeggiavamo per non sentire la mancanza di papà. E funzionava. Dopotutto lei riusciva sempre a trovare il modo per farmi stare meglio. Ma poi le cose sono cambiate.” –per la prima volta da quando ha iniziato a parlare alza il viso e solleva gli occhi al cielo- "Da quando lei è morta.”
Una sola, lenta lacrima gli scorre lungo la guancia e io non posso fare altro che stringerlo finalmente in un abbraccio.
 
 
Jack’s PoV
 
Riesco ancora a sentire il rumore dei miei denti che tagliano senza pietà il mio labbro sotto la pressione del pugno di Rian. Fa un male allucinante e il sapore del sangue è nauseante, tuttavia mi sforzo di sorridere e lasciar entrare quello che un tempo era uno dei miei migliori amici.
Prima di chiudere la porta incrocio il suo sguardo e annuisco.
“Me lo meritavo.” Ammetto sparendo in cucina per recuperare del ghiaccio.
Quando torno indietro lo trovo stravaccato sul divano, sembra completamente a suo agio. Come fa ad essere così rilassato? Io sono terribilmente innervosito dalla sua presenza, il cuore ha preso a battere irregolarmente e ho la sensazione che possa arrivarmi un altro pugno da un momento all’altro.
“Ho saputo che sei a Baltimora da parecchio ormai, quando avevi intenzione di venire a salutarmi?”
“In realtà aspettavo che venissi tu a darmi il benvenuto con un cesto pieno di muffins.”
Rian sogghigna quasi divertito e io mi rilasso un po’. Dentro di me avevo sempre sperato che almeno lui venisse a parlarmi, ma adesso che è davvero lì di fronte a me vorrei solo scappare. Dopotutto io ho deciso di odiarli, no? Tutti quanti, allo stesso modo. Ma con lui è diverso. So che in fondo Rian è l’unico ad essere stato dalla mia parte per un lungo periodo, abbandonandomi solo alla fine. Solo.
“Allora, come stai? Voglio vedere una sua foto.” Dice aprendo le braccia con fare teatrale e capisco subito a chi si riferisce.
Senza nemmeno una parola allungo una mano al mio telefono e gli mostro lo sfondo. April sta sorridendo felice, con il vento a scompigliarle i capelli mentre dondola sull’altalena. Adoro questa foto.
“Poverina, ha preso davvero tanto da te!”
Se non avessi entrambe le mani impegnate (una preme il ghiaccio sul labbro; l’altra regge il telefono) giuro che gli restituirei il pugno. Valuto la possibilità di rifilargli una testata sul naso, ma lui continua a commentare.
“Dannazione, però guarda il suo sorriso. Mi sembra di vedere Clara.”
Lo so. Altroché se lo so. Ritiro il telefono senza proferire parola. Voglio capire cosa voglia Rian da me.
“Commento azzardato, eh?” –domanda lui sempre con quello stupido sorriso stampato in faccia- “D’accordo, cambiamo argomento. Come stai?”
In realtà vorrei non rispondergli. Vorrei lasciarmi andare a questo tremendo flashback che sta cercando di catturarmi e portarmi via dalla realtà. Ma allo stesso tempo non voglio che lui mi veda con gli occhi persi a tanto, tanto tempo fa. Non voglio che lui mi veda vulnerabile e capisca che ancora, dopo sedici anni, non sono ancora guarito completamente.
“Sto molto bene. Sono felice di come stia vivendo la mia vita.”
“Davvero? Francamente ero convinto non te la passassi troppo bene.”
“È per questo che sei qui? Eri preoccupato per me? Che carino, non dovevi.”
La mia risposta sembra finalmente causare una reazione in lui. Alza un sopracciglio e so esattamente cosa significa: è innervosito. Ho visto quell’espressione così tante volte che non è possibile fraintenderla.
“Okay, va bene. Saltiamo i convenevoli e andiamo dritti al punto. Perché sei tornato?”
“Volevo che mia figlia vedesse la città in cui sono cresciuto, che stesse un po’ con la sua famiglia.”
“Stronzate!” –esclama alzando il tono della voce- “Smettila di comportarti da codardo! Sappiamo entrambi che sei qui perché stai cercando un modo per sistemare le cose. Io ho ricevuto il messaggio, il primo passo l’hai fatto tu tornando a Baltimora; ecco la mia risposta: sono qui.”
Non capisco cosa voglia dire. Il mio trasferimento non voleva essere un messaggio per nessuno, la mia scelta non ha nulla a che fare con gli All Time Low. Io non voglio avere nulla a che fare con loro. Lo avevo promesso quella stessa notte, quando tutto era cambiato, quando il mio mondo era crollato.
“Credo tu abbia frainteso.” –rispondo con voce sprezzante- “La mia vita non gira attorno a voi, attorno a te. Non ricordavo questo tuo lato egocentrico.”
Rian scuote piano la testa, completamente e assurdamente deluso. Si alza dal divano e raggiunge la porta. Prima di sparire dietro di essa si lascia sfuggire un sussurro che io colgo appena: “Almeno ci ho provato.”
Il rumore della porta che si chiude alle spalle di Rian abbatte ogni mia resistenza mentale di tenere quel maledetto flashback lontano e la voce di Clara risuona forte e chiara nelle mie orecchie.
 
“Come fai a sapere che mi ami? Cioè, come fai ad essere sicuro?” mi avevi chiesto stringendomi forte la mano.
“Credo sia perché quando ti guardo vedo il mio futuro. A te non succede? Voglio dire, io riesco perfettamente a vederci. Siamo lì, sul portico della nostra bellissima casa e aspettiamo con del gelato in mano che i nostri stupendi figli tornino da scuola per raccontar loro qualcosa di divertente che ci è successo durante la giornata.”
Tu hai riso aggrappandoti al mio braccio e i tuoi capelli mi avevano solleticato il viso. Lo adoravo.
“È questo che vorrai fare? Aspettare i tuoi figli sul portico col gelato? È molto dolce.”
“I nostri figli, Clara.” –ti avevo corretto lasciandoti un bacio sulla fronte- “E sì, lo farò eccome! Ti amo davvero, Clara, sei l’unica donna che voglio al mio fianco. Ora e per sempre.”
Tu avevi appoggiato una mano sulla mia guancia e guardandomi negli occhi avevi recitato la mia bugia preferita.
“Ti amo anche io. Ora e per sempre.”
E dopo avermi baciato mi avevi spinto via augurandomi buona fortuna per il concerto. Ti avevo guardata un’ultima volta prima di salire sul palco per suonare con gli All Time Low. Ti avevo guardata e ci avevo creduto. Se solo avessi saputo che non avrei suonato mai più mi sarei concentrato sull’emozione di suonare davanti a migliaia di persone, invece ogni mio pensiero era rivolto a te.
 
Improvvisamente questa casa mi sembra troppo grande per ospitare un cuore solitario come il mio.
“Ora e per sempre.” -sussurro vagamente passandomi una mano tra i capelli- “Ora e per sempre…”





Author's corner
Pensavate di esservi liberate di me, eh? E invece no!
Okay, a parte gli scherzi, SCUSATEEEE! Davvero, non avrei mai voluto farvi aspettare così tanto, ma ho avuto un sacco di problemi che non sto a dirvi e...SCUSATE DAVVERO! Per la fretta di postare non ho nemmeno riletto, quindi se ci sono degli errori perdonatemi.
Spero la storia vi piaccia. Scusate ancora,
Jackie.

 
  
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