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Autore: TheHeartIsALonelyHunter    29/09/2013    1 recensioni
Questa storia è su Cosette.
E già qui credo di aver perso tutti i possibili lettori.
Ma non è sulla Cosette che conosciamo tutti.
E' sulla Cosette bambina che sfacchina dai Thenardier e che guarda le bambole dalle vetrine, aspettando la sua mamma.
Spero di avervi incuriositi...
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Dal testo:
Quando se ne era andata, sua madre le aveva fatto due promesse. Le aveva promesso, con un gran sorriso sul volto, che un giorno sarebbe tornata a prendersela e, ora con una smorfia di tristezza impressa sul viso, aveva sussurrato:
“Sono sicura che passerai molte giornate felici in questo posto, principessa”.
Nessuna delle due previsioni si erano avverate: Fantine non era più venuta a prenderla, e, per il resto della sua permanenza lì, i Thenardier l’avrebbero chiamata, sprezzanti e con disprezzo, “principessa”.
Questa storia partecipa al "Contest Pas a Pas" indetto da Fanny Rimes sul forum di EFP]
Genere: Drammatico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Cosette, Fantine, Jean Valjean
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Prompt usato: per la prima volta
 
3-In my life
 
 
Per Cosette quello fu probabilmente il più difficile periodo che passò alla locanda.
Certo, tante altre volte aveva avuto motivo di essere triste e abbattuta, e tanti momenti terribili costellavano la sua permanenza lì (primi tra tutti, i ricordi dei giorni della malattia erano ancora ben impressi nella sua mente), ma probabilmente i più difficili furono quei giorni preludio del suo terzo anno nella locanda.
Madame e Mounsier le urlavano dietro per qualsiasi cosa, e la obbligavano a correre da un capo all’altro della locanda con le scuse più inusuali e stupide, forse con l’intento di farle “recuperare” le settimane perse trascorse con Mario.
Non che le importasse poi così tanto di cosa Mounsier e Madame le ordinassero, era abituata, ma dopo tanti giorni in cui il lavoro era diminuito sensibilmente il suo corpicino, già fragile, era diventato ancora più debole, tanto che, col suo viso scavato, gli occhi sporgenti e il sorriso ormai rivolto all’ingiù, la piccola Cosette pareva proprio malaticcia ai clienti della locanda.
Una volta un uomo (evidentemente meno sbronzo degli altri) aveva chiesto a Mounsier, con velata curiosità:
“Quanti anni ha quella bambina?”
Thenardier non aveva risposto, e se n’era andato lasciando il cliente a bocca asciutta da solo nell’atrio.
Il pensiero dell’anziano Mario, il suo carissimo e amato Mario, non l’aveva più lasciata da quel fatidico giorno in cui la Morte se l’era portato via con la sua mano oscura.
Non era passato giorno in cui Cosette non avesse, almeno per alcuni istanti, dato un’occhiata di sfuggita al tavolo vicino alla vetrata, prima luogo di ritrovo culturale, ora tempio dissacrato da ubriachi e volgari omaccioni rubicondi.
Naturalmente Madame non si era fatto scrupolo, sin dal giorno successivo alla morte dell’uomo, a far occupare il tavolo ad altri clienti, senza pensare affatto (come suo solito) a quanto la bambina era legata a quel particolare tavolo, o forse pensandoci e assegnandolo appositamente per farle dispiacere ad altri uomini.
Del gentiluomo era vietato dire anche il nome, come fosse stata una parolaccia, un’ imprecazione orrenda.
E in fondo nessuno rimembrava più del Lord che lì aveva passato così tanto tempo: nessun cliente era mai rimasto tanto a lungo da vedere l’uomo arrivare e “partire” dalla locanda. Gli unici che sembravano (giustamente) ricordarlo erano i coniugi Thenardier (che non esitavano a pronunciare il suo nome per lanciare sonore e volgari bestemmie), la piccola Eponine, che della sua morte era rimasta molto shoccata e, naturalmente, la nostra Cosette.
A lei i due locandieri intimavano più che alla figlia di non nominare mai e poi mai il vecchio, e le impedirono anche di  svolgere qualsivoglia attività che lo riguardasse, direttamente o indirettamente: Mounsier non gli aveva permesso di partecipare al suo funerale (che comunque Eponine aveva definito “noiosissimo”) e tantomeno gli aveva permesso di parlare di ciò che lui gli aveva insegnato, con Ponine prima di tutto (avevano paura che potesse “contaminarla” con la sua dissacrante conoscenza) e con i clienti, ovviamente.
“Di quel vecchiaccio non voglio più sentire parlare, Cochette!” gli aveva intimato quando si era azzardata a fare il suo nome di fronte a lui il locandiere.
Lei aveva fatto una smorfia e aveva borbottato, guardandolo assassina:
“Mi chiamo Cosette”.
Per quella sua “impertinenza” era stata costretta a rimanere chiusa tutto il giorno nello sgabuzzino, ma in fondo a lei non importava più nulla: quel luogo di tenebre non la spaventava più.
Aveva imparato a convivere col buio che da più di due anni la circondava.
I giorni passavano sempre più lenti alla locanda, e quando Cosette andava a dormire, la sera, rannicchiata in un cantuccio dello sgabuzzino, non le sembrava vero di essere arrivata viva a un altro orrenda giorno.
Poi si ritrovava a pensare che ci sarebbe stata un’altra alba in seguito a quella, e poi un’altra, un’altra, e un’altra. E allora desiderava ardentemente solo che il mondo si fermasse, lasciandola sola col suo dolore e i suoi pensieri.
Unico sostegno in quel periodo orrendo fu la presenza di Eponine, ora più rassicurante e amichevole.
Dopo quello scambio di sorrisi avvenuto pochi giorni prima, la bambina si era avvicinata molto di più alla piccola Cosette: probabilmente conscia, per la prima volta, di quanto la vita per la bambina fosse difficile, la figlia dei locandieri stava tentando, con qualche tentativo scarso e imbranato, di instaurare un, se non saldo, almeno buon rapporto con Cosette.
Spesso l0a osservava spazzare il pavimento con un sorriso, e ogni tanto impugnava anche una spazzola con l’intenzione di aiutarla (lei sussurrava sempre “No, no!” ancora timorosa di quella strana amicizia), la aspettava in cucina alla fine della giornata per provare a parlarle, le si avvicinava mentre lavorava e la incoraggiava con parole ferme e sicure.
Certo, di quei rapporti seppure minimi, tra le due bambine i locandieri non erano affatto sicuri, preoccupati che la loro figlioletta potesse diventare una semplice “ragazzina di strada” come Cosette anche solo avvicinandosi a lei.
A tale proposito, Azelma stessa aveva parlato alla sorella minore, cercando di convincerla ad allontanarsi dalla piccola vagabonda, ma Eponine non aveva demorso, sicura di poter, un giorno, chiamarla “amica mia”.
Per la prima volta, si era ritrovata ad avvicinarsi, con delicatezza e piccoli passi, alla bambina che aveva visto sempre come “la cameriera”.
Pareva essersi accorta che anche Cosette fosse un essere umano come lei, con dei desideri e dei sentimenti, e con, soprattutto, tanto dolore nell’anima, ed aveva provato a sanare le ferite che aveva, con delicatezza e abilità, come una vera dottoressa, ma sempre tenendosi più lontana possibile, forse memore dei suoi dispetti e delle sue cattiverie verso la bambina.
Tentava spesso un approccio gentile, schietto con lei, ma Cosette la rifiutava spesso, con i suoi silenzi e il suo dolore schivo: dopo la morte di Mario, la bambina pareva essersi costruita una barriera intorno che non accennava a cadere (che forse non voleva cadere) sotto i colpi inferti da Eponine.
Certo, la bambina rimaneva molto delusa dal comportamento di Cosette, ma non demordeva, sicura che presto avrebbe deciso di diventarle amica. Capiva benissimo il suo dolore, e capiva benissimo quanto doveva essere stato duro cosa avesse passato.
Non si perdonava di averla trattata male alla stregua dei suoi genitori, ma sperava seriamente di poter rimediare mostrandole anche un poco d’affetto, l’affetto che le era mancata più o meno da sempre.
 
Alla fine di febbraio, il freddo era ancora pungente, e Cosette cominciò a manifestare seri problemi ai piedi, che spesso si congelavano sotto lo sferzante vento e il suolo ghiacciato, e che perdevano quasi sempre la sensibilità.
La sera, quando si rinchiudeva nello sgabuzzino, Cosette faceva fatica a credere che fossero ancora lì, attaccati alle sue gambe: li sentiva freddi e congelati, come due blocchi di cemento, come assenti, come parti separate dal suo corpo.
Le ferite che riportava sulle piante erano assolutamente orrende, i graffi che si era fatta durante i tre anni passati alla locanda si riarginavano in lunghissimo tempo.
Capitava dunque che una caduta su una roccia, una piccola escoriazione, anche minima, divenisse una ferita difficilmente rimarginabile che alle volte si infettava anche gravemente.
I Thenardier, naturalmente, non avevano voluto pagare nuovamente il medico di famiglia, dopo la sua lunga malattia: avevano tenuto quei problemi della bambina nel silenzio, come un segreto di famiglia imbarazzante, come un’informazione preziosa, col fare discreto di una donna che cerca di evitare i pettegolezzi.
Cosette era dunque costretta a subire in silenzio, il volto rivolto in basso e le guance rigate di lacrime.
Ponine aveva cercato in mille modi di convincere la madre a chiamare il medico per “la povera Cosette”, ma la bambina e la Thenardier non avevano voluto sentire ragioni.
Quei mesi di sofferenza silenziosa, Cosette li avrebbe pagati per sempre nel suo futuro: i suoi piedi non sarebbero mai più stati gli stessi negli anni che seguirono.
Ricoperti di cicatrici e graffi, gonfi di vecchi ematomi e di vecchie ferite mai totalmente rimarginate, i suoi piedi erano diventati così orrendi alla vista che i Thenardier le avrebbero appioppato, oltre al soprannome “principessa”, l’epiteto dispregiativo di “Piedi di Porco”.
 
Fortunatamente marzo arrivò a prendere la bambina col suo abbraccio rassicurante e protettivo con lo stesso amore di una madre: l’aria si riscaldò decisamente dalla prima metà del mese, tra la gioia di Cosette e di Eponine.
I Thenardier invece storcevano la bocca, al pensiero dei clienti che non sarebbero venuti, attirati dalla bella aria primaverile e da qualche bordello particolarmente attirante.
Il lavoro era relativamente poco, e Cosette riuscì a ritagliarsi qualche ora al giorno per restare da sola nella locanda.
Solitamente rimaneva semplicemente seduta sul pavimento, vicino al tavolo accanto alla vetrata, gli occhi rivolti verso la sedia con gli occhi spalancati, come se la presenza di Mario fosse ancora lì, a raccontarle col suo tono di voce ipnotico della bella Italia e delle battaglie furiose.
Era come un rito per lei, ormai, fermarsi lì anche solo per qualche minuto al giorno, anche solo per qualche istante, solo per poter avere l’illusione che lui non fosse morto, che lui fosse ancora lì con lei, e che presto l’avrebbe portata via da lì.
La sua scomparsa era stata una perdita così improvvisa e ingiusta che ancora non l’aveva compresa a fondo. Ma poi, come poteva capire una bambina di sei anni misteri che i più illustri scienziati non erano neanche riusciti ad affrontare?
Quando non era nel locale, la bambina si rifugiava nel suo sgabuzzino sola con le scope, nel buio che ormai le era così familiare e amico.
I suoi rapporti con altre persone che non fossero i Thenardier erano praticamente inesistenti: i clienti si fermavano troppo poco per poter stringere amicizia (come se lei avesse avuto voglia di stringere amicizia con degli ubriaconi…) e Eponine le appariva ancora un pianeta troppo distante. Ricordava ancora il dicembre che lei aveva passato tremante e che la bambina aveva trascorso avvolta in una pelliccia d’ermellino.
Con un pezzo di spago che aveva trovato in un angolo della locanda, Cosette si costruì una bomboletta che le portò via sei ore di lavoro e che la bambina non avrebbe più abbandonato per tutta la vita.
La bomboletta, che lei ribattezzò Fantine, fu l’unico ricordo che della taverna lei decise di mantenere: tutto il resto finì in un angolo remoto della sua mente e in un cassetto lontano.
Eponine tentò ancora per lungo tempo di avvicinarsi alla bambina, di stabilire un qualche contatto, di iniziare un rapporto che non fosse solo di muta indifferenza, ma Cosette la respinse sempre, per lungo tempo, con lunghi silenzi e muri di protezione.
Voleva solo restare sola, la bambina.
Strano che proprio la solitudine la spaventasse più di qualsiasi altra cosa al mondo.
 
Con l’arrivo di aprile, l’aria si scaldò decisamente, ma non così lo spirito di Cosette: la bambina era ancora sotto shock dopo la morte di Mario, anche se il dolore stava lentamente scivolando via dalla sua pelle.
Ciò che più la stordiva di quel triste avvenimento era la rapidità di quell’addio, quanto inaspettato fosse stato quell’evento, quanto improvvisa era stata la morte dell’uomo.
Ricordava ancora bene il giorno prima, le ore passate incantata sul pavimento sudicio, ad ascoltare dell’incontro di Garibaldi e Vittorio Emanuele II a Teano e della riunione dell’Italia, a immaginare quel glorioso evento e a ricamarlo di strani ghirigori nella sua fervida mente.
Per la prima volta Cosette aveva avuto la possibilità di sognare veramente, e di sognare in grande, non solo a limitarsi a quello che lo stipendio di sua madre poteva permettere o al soffocante ambiente della locanda. Aveva avuto la possibilità di immaginare cavalli imbizzarriti e caduti nella polvere, schieramenti contrapposti e agguerriti, vie tappezzate di pietre e musei ricolme di immortali opere d’arte, un paese lontano e misterioso, riunito sotto un'unica bandiera e sotto un unico inno.
Per Cosette l’incontro con Mario era stato importantissimo, quasi quanto lo era stato l’arrivo alla locanda dei Thenardier (il primo però era stato un lieto evento, il secondo la rovina della sua vita), perché per la prima, PRIMISSIMA VOLTA qualcuno si era preso cura di lei, come neanche sua madre se ne era mai presa cura.
Certamente, oramai il dolore si era attutito, seppellito dal tempo e dalla sua leggera forza, ma non poteva sparire, oh no, non era possibile dimenticare.
Cosette non dimenticava.
Cosette non dimenticava mai.
 
Una sera di maggio la locanda si riempì straordinariamente.
I tavoli al piano di sopra erano già tutti occupati, e anche quelli al piano di sotto scarseggiavano sempre di più.
I Thenardier si sfregavano le mani, soddisfatti come non mai, come se già sentissero i soldi passargli tra le dita. Erano così sicuri che quella serata gli avrebbe fruttato tanti di quei soldi che avevano addirittura assoldato Eponine e Azelma come cameriere.
Le due bambine si affannavano da un angolo all’altro della locanda, passando da un uomo ubriaco all’altro, incitati dagli stessi genitori con imprecazioni e urli sempre più alti.
Anche per Cosette però la serata si prospettava lunghissima: i Thenarder le avevano ordinato per la prima volta di preparare la birra, e più di una volta la bambina era certa di aver visto una mosca galleggiare sulla superficie del liquido, e più di una volta aveva avuto la paura di dare di stomaco.
Almeno lei era avvantaggiata rispetto alle due bambine: Madame e Mounsier l’avevano abituata a insulti e ordini, e riusciva a correre molto più veloce di Ponine o Azelma.
Ogni sera era comunque e sempre una sofferenza: gli uomini volevano sempre più birra, le donne ci provavano sfrontatamente sventolando le tette, e dopo poche ore tutta la locanda puzzava di uomo.
I corpi ammassati in un angolo, sistemati come una pila di cadaveri, emanavano un fetore orrendo. Gli uomini in quel groviglio sembravano non accorgersi di essere appoggiati a qualche coscia femminile o a qualche spalla maschile: erano così brilli che anche fossero stati in una latrina non si sarebbero lamentati.
Delle puttane che se ne stavano in agguato davanti alla porta non si poteva neanche parlare: tutto il profumo che si erano spruzzate provocava quasi un giramento di testa a Cosette, che era costretta a evitare l’ingesso per non essere investita da tutti quegli odori.
Fino alle undici della sera la bambina aveva dovuto correre da un angolo all’altro della locanda, rispondendo agli ordini più svariati e agli uomini più ubriachi.
Al tavolo di Mario si erano appartati una prostituta sui venti anni e un cinquantenne straordinariamente pasciuto e straordinariamente brillo che la palpava da circa un’ora.
Più di una volta a Cosette erano salite le lacrime agli occhi avvicinandosi a quello specifico tavolo.
Eponine l’aveva incrociata un paio di volte mentre servivano tra i tavoli, e le aveva rivolto alcuni sorrisi incoraggianti, conscia di quanto difficile fosse per lei vedere il luogo in cui la sua fantasia era volata sulle ali del vento in un certo senso deturpato da tali “barbari”.
Cosette aveva risposto anche lei con sorrisi forzati, tirati e leggermente imbarazzati: non era ancora completamente abituata all’idea che qualcuno le fosse amico, dopo tanto, tanto tempo passato a fare la sottomessa, ma forse qualcosa poteva nascere, in fondo…
Forse, per la prima volta, poteva avere un’amica.
Una VERA amica, un’amica che l’avrebbe capita e sostenuta qualunque cosa fosse accaduta.
Un’amica sempre disposta a dargli una mano, sempre disposta a starle accanto, a non lasciarla cadere nei momenti di difficoltà.
Certo, c’era stato Mario.
Ma Mario era stato come un padre per lui.
Ponine invece…
Poteva essere un’amica, sì…
La sua prima amica.


Note d'autrice:
Sì, so che fa orrendamente schifo, ma in un modo o nell'altro dovevo pure aggiornare no?
Bè, il prossimo capitolo sarà dedicato a Fantine e alla Fantine\Jean, mentre nell'ultimo si tornerà su Cosette e sul momento in cui jean la viene a prendere.
Parlerò anche dell'amicizia che si formerà tra Cosette e Eponine, ma credo di non potere fare molto come mi ero ripromessa.
Scusatemi il capitolo assolutamente orrendo, davvero.

 
  
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