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Autore: Love_in_idleness    30/03/2008    1 recensioni
Due storie diverse intrecciate tra loro per una strana, irresistibile Legge delle Ambivalenze.
Genere: Romantico, Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Sabato diciassette Marzo

Bonjour! E' passato un anno (e siamo qua) dall'inizio della pubblicazione di Ambivalenze. Non avrei mai previsto di essere così lenta, quindi vi chiedo di nuovo scusa. Comunque il capitolo è per Susy, perché, anche se lei non lo sa, mi ha tirata davvero su, su, su di morale.

 

 

Capitolo 16.

 

Sabato diciassette Marzo,

 

Una retrospezione dalla parte di Nikita – un concerto; alcuni versi di Yeats e una Bisanzio molto, molto più vicina di quanto ci si aspetti

 

I.

Non ricordavo di essere entrato all’Eterea per più di un anno, forse per due. E non ricordavo nemmeno il motivo per cui me ne ero tenuto così lontano. Mi venne in mente quella notte dal sapore strano e dal cielo spalancato, quando rientrai tra le sue mura antiche quasi come se stessi oltrepassando la soglia di un incubo e di una visione, contemporaneamente. Mi ricordai, invece, com’era fatto, e che mi piaceva molto all’epoca in cui ero più libero e più ribelle, ed amavo la musica ossessionante fino ai primi albori del giorno. Era un locale molto strano e sicuramente inaccessibile al di fuori di un ristretto gruppo di persone. Quando lo frequentavo, era sempre popolato da strani individui convinti di essere vampiri – erano necessari alcuni requisiti per entrare: essere bellissimi, essere scintillanti, essere affascinanti. Si ascoltava solo metal, qualsiasi genere di metal. Non c’era ressa, non c’era bolgia, ma una massa di gente accaldata che scuoteva la testa sotto il palco ed un pubblico elegante accomodato sui divanetti. Non c’era uno sprazzo di colore, ma profumi sempre meravigliosi emanati dalle fragranti candele che bruciavano nelle nicchie della parete e dai fiori.

L’Eterea era conosciuto quasi come una leggenda in tutta la Città. Apriva solo il sabato a mezzanotte, e chiudeva appena prima dell’alba. Era una casa vittoriana ancora immacolata come un gioiello nel cuore pulsante della modernità del centro, circondata da un vasto giardino curatissimo sbarrato da un elaborato cancello in ferro battuto, fuori dal quale bisognava parcheggiare. Si entrava rigorosamente a piedi in qualsiasi condizione, si salivano le scale della terrazza morta d’inverno e fiorita d’estate di petali chiari sui quali si rifrangeva l’alone lunare nelle notte terse. Il profumo era etereo. Percorrendo quella sorta di giardino incantato si arrivava davanti ad un portone sul quale era intarsiato un albero stilizzato d’argento, dal cui tronco si dipartivano sette rami, carichi di frutti. Colpito dal riflesso della notte, l’albero luccicava del pallore del metallo prezioso, avvolgendo il visitatore in un’aura ancora più spettrale.

Anche l’interno era particolarissimo – a differenza del giardino calmo, sereno, soffuso, le stanze erano state ristrutturate in uno stile decadente, ricco, opulento, ostentante magnificenza – – drappi neri, cremisi, d’oro, di broccato, damascati, tappeti etnici, divanetti in velluto scarlatto e nero, tavolini bassi di legno laccato nero ad intarsi oro e rosso. Un particolare che mi si affacciò allora in mente fu la grande quantità di fiori che ricadevano in cascate da mille vasi posti su colonnette, nello spazio tra una grande finestra e l’altra, in piena luce notturna – rose, camelie, grandi mazzi di tulipani sgargianti, di orchidee, di narcisi, di gardenie, di begonie, di magnolie, di giacinti. Sul tavolo che occupai quella notte, una candela nera dalla forma rotonda e dal lumicino fioco ardeva tra una corona di gigli candidi. Alle pareti ancora rivestite di carta da parati erano conservati ritratti di dame dagli abiti sfarzosi e dal volto triste, candelabri finemente sbalzati, scudi araldici, arazzi , statue nivee.

Oltrepassando l’ingresso ci si trovava in una sala scarsamente illuminata. Un lampadario di cristallo acceso in un riverbero fatuo rimaneva sospeso al centro del soffitto conchiuso da due scalee che si aprivano come forbici e si ricongiungevano nella piattaforma che dava accesso alle stanze superiori.

Il locale aveva interamente conservato la parvenza di villa – tetra, oscura, maledetta -, e su questa leggenda ricuciva i suoi introiti e scovava la sua particolare clientela notturna. Soltanto le stanze dell’ala est erano riservate alla cucina e al bar vero e proprio, mentre tutto il lato destro era stato dedicato al palco per i concerti. Il piano superiore era occupato da tavolini, saloni, salotti, piccole sale più intime.

Come ogni dettaglio al suo interno, il palco dell’Eterea aveva qualcosa di teatrale, un gusto spiccatamente ardito e decadente, ma intriso della sua bellezza piena di fascino. Era poco sopraelevato rispetto al pubblico, ancora costruito in legno, ed era sormontato da un tendaggio rosso a balze, sfrangiato in oro alle estremità, che si apriva come i sipari dei teatri antichi. La cornice delle pareti era realizzata in grotteschi, forse erano originali, ed il pavimento era ancora in pietra viva. Delle tre stanze adiacenti, anche le pareti ed il soffitto erano ricavate in pietra.

Quella notte aprii la pesante porta d’ingresso, e dalla luce fantasmagorica, evanescente, eterea del giardino onirico, fui sbalzato all’improvviso nell’oscurità più densa dell’interno, pulsante come un nucleo segreto delle sue mille sensazioni da scoprire. Respirando quei profumi delicati e fragranti, immerso nelle impressioni della musica fortissima, cercai mio fratello.

 

II.

Le persone che transitano in queste stanze mi hanno sempre dato l’impressione di essere trasformate in marionette, in immagini, in specchi di qualche luce superiore. Nella loro bellezza sfaccettata, colpita dalle candele e dai riflessi della notte che penetrano dalle finestre, acquistano per loro stessi un fascino morboso, sensuale, ammaliante, ed accanto a queste parvenze conservano qualcosa di più spirituale e puro, la loro bellezza ricercata. In questo modo danzano davanti ai miei occhi, le loro gonne di pizzi e valenciennes, i loro velluti e le loro sete, le camicie ricamate e i colletti finemente lavorati, i bottoni di madreperla, i pantaloni di pelle, i gioielli sfavillanti, le braccia bianche, le bocche dipinte di rosso, i capelli lunghi e fluttuanti, gli occhi dallo sguardo penetrante, colmi di una punta di luce che sottende un mondo pazzo e misterioso. Così si muovono, oscillando lievemente in movenze leggere. Così scorrono davanti al mio sguardo incatenato, facendomi pensare che, forse, anch’io appartengo a questa stessa dimensione, anch’io mi sposto nel medesimo modo, anch’io posseggo certi riflessi tra i capelli, negli occhi, nell’incarnato diafano, anch’io sono silenzioso e aristocratico, bello e oscuro. Forse anch’io faccio parte di questa schiera di fantasmi che sfila come un una danza macabra senza scheletri spogli, senza lutti e senza tristezze, solo, drappeggiata dello stesso scherno e della stessa fatalità. In un certo senso credo sia vero anche questo. I loro volti mi danno un’impressione strana di ambivalenza, di contrasto e di ambiguità. Lelio una volta mi disse che manifestavano in questa loro essenza, che manifestavamo, una duplicità contraddittoria – l’essere bellissimi in un modo che sembra più elevato e più spirituale, dolce, etereo, come angeli, ed essere bellissimi nel senso più carnale, diabolico e asfissiante del termine, come vampiri. Eravamo per lui affini a certi quadri medievali pieni di inquietudine, di angoscia e di tristezza combinati all’ascesi, alla ricerca, in molti versi alla mondanità, tavole ed affreschi che riflettevano nelle loro forme contorte, nelle loro allegorie complesse, tutta l’incertezza e l’ansia di un’epoca della storia assediata da grandi tragedie. Eravamo le figure di Boch, di Brugel, di Carnach. Questo lo intuivo guardando me stesso nei riflessi delle molteplici specchiere , domandando alla mia controimmagine come avesse mai potuto trovarmi una persona venuta da fuori, senza conoscere né la mia personalità, né la seduzione decadente dell’Eterea che andava rispettata per la sua peculiarità e per la magia silenziosa che la circondava come una barriera infrangibile.

Dietro di me si disegnò contro lo specchio il riflesso di Die. Il suo volto si avvicinava. Mi toccò sulla spalla, incerto, e io mi voltai. Non potevo parlare a causa del volume altissimo della musica, e allora gli sorrisi, seguendolo quando lui mi fece cenno di accompagnarlo. Mi stava portando nel giardino.

Mi accorsi che Die, quella notte, aveva qualcosa di diverso dal solito. Sul suo viso era come sospesa una certa contentezza e distensione, una sorta di sollievo che non mi sapevo spiegare , ma che ipotizzavo dipendesse dal fatto di trovarsi in quel luogo per lungo tempo dimenticato. Pensai che gli stesse succedendo quello che succedeva a me nel riscoprire lentamente le situazioni di cui mi ero innamorato, e che mi appassionavano, a partire dalla carta da parati color zafferano fino agli strani profumi inebrianti o lo sfarzo dell’interno.

Un’atmosfera intoccabile ed indicibile ci avvolgeva come una corolla, e non si sarebbe dischiusa fino al mattino.

Die non parlò nemmeno quando uscimmo. Ritirò la tessera per rientrare e camminò fino a raggiungere una panchina di pietra in qualche angolo remoto del giardino, sotto le fronde odorose della magnolia fiorita. La notte era calda, già afosa per la stagione. Anche se amavo il freddo, la quiete e l’immobilità perfetta dell’aria adamantina e l’aroma di fiori mi tranquillizzarono e mi misero a mio agio. Così fu per lui, immagino. Si sedette scompostamente di fianco a me, e, guardandomi, mi sorrise con una leggerezza che non gli leggevo sul volto da troppo, troppo tempo. Mi sembrava un sorriso meraviglioso, pensai: - Die è felice, davvero felice, in questo istante -, e allora ebbi lo sfrenato desiderio di poter raccogliere quel sorriso e custodirlo per sempre, mostrandolo ai suoi occhi ogni volta che si fosse dimenticato di questa felicità.

“Non volevo che venissi.”

“Lo volevi. Altrimenti non me l’avresti detto, no?”

“Forse lo voleva una parte di me che non ha ancora trovato il coraggio di ammetterlo.” Die chinò il capo. Con le dita affusolate giocava coi petali rosa della magnolia. Sembrava tutto sormontato da una patina di lucentezza e di sonno.

“Die, io sono molto contento per te. E un po’ anche per me. A volte si dimenticano le cose importanti. Ultimamente mi sono concentrato solo sullo studio e sul lavoro, e ho perso di vista quello che veramente piace a me. È bello, ogni tanto, recuperare le proprie affezioni. Per te, poi, è meraviglioso. Tu stai sacrificando la parte più eccezionale di te stesso. Forse hai ragione. Però vengono notti come queste, nelle quali ti puoi perdere e annegare, scordandoti per un istante tutto ciò che ti sei convinto di essere. Puoi spogliarti e rientrare nelle tue facoltà, nella tua vera dimensione. Sono felice per la maniera in cui riesci a sorridere qui, tra questa gente. Non è lo stesso modo di sorridere che hai fuori. Te ne sei accorto?”

Die mi strinse la mano con una certa delicatezza.

“Sotto un certo punto di vista ha ragione Hansi.”

“Nikita – io – è una cosa che voglio dire solo a te. Per provare. Perché non ho convinto nemmeno me stesso. Sai, ieri sera pensavo: tu sei l’unico col quale posso veramente provare tutto. Sei l’unico che ogni giorno della mia vita è venuto a farmi forza. Quando la mamma si è portata via Lelio è stato un po’ come essere spaccati. Tu ed io non abbiamo differenze di sesso, e solo nove mesi di età. Pensiamo allo stesso modo. Posso fidarmi di te?”

“Certo, stupido.”

“Io – credo di essermi – innamorato.”

Risi. Non perché mi divertisse ciò che mi aveva detto, ma per la singolarità della sua espressione. Innamorato era qualcosa che Die non aveva mai detto. Nemmeno quando era un ragazzino, nemmeno quando lui ed Hansi condividevano quella relazione di cui ero tanto diffidente, ma che in realtà non significava nulla. Ora, invece, aveva qualcosa di diverso tra le dita. Aveva un amore, ed un amore difficile.

Per un momento pensai a me stesso. Capitemi bene, non ero veramente dispiaciuto, solo, un po’ geloso di questo improvviso cambiamento delle sue attenzioni. Si era prevenuto nella sua introduzione, ma capivo, me ne accorgevo da giorni, da settimane, che aveva anche qualcun altro con cui condividere il suo tempo. Non riuscii a dispiacermi per la mia situazione. In fondo avevo notato il suo sorriso, la sua felicità, e dopo ventidue anni di amore spassionato per una persona la cosa più bella è sapere che questa persona è comunque felice.

“E’ Hansi che mi ha trascinato qui. Io non avrei mai immaginato che bastasse così poco – io e lui non ci comportavamo così anni fa.”

“Eravate più piccoli.”

“Appunto! Ci volevamo più bene, Nikita. Ora litighiamo sempre, e ci facciamo così male… non lo so. Non capisco nemmeno io.”

“Qual è il problema, Die? Ti sta mettendo con le spalle al muro? Lo sai che lentamente sposta l’ago della bilancia dalla sua parte. Ed io, vedi, se fossi in te, lo lascerei pendere di lì.”

“Dalla parte di Hansi.”

"Sì.”

Strinse la mia mano più forte. “Ieri mi ha sbattuto fuori di casa.”

“Ah.”

“Io sono tornato all’ora di cena, ed era come se non fosse successo nulla. Abbiamo certe crisi – cinque anni fa vivevamo in pace. Facevamo sesso ogni tanto. Stavamo bene. Ora è come se sapessimo che perderci sarebbe un addio definitivo. Un po’ ci odiamo per questa condizione. Un po’ abbiamo entrambi paura di un nuovo cambiamento, in qualsiasi direzione esso avvenga.”

“E Hansi?”

“Hansi è bello. Meraviglioso. Mi dice: ‘Ti prego, suona con me, sabato prossimo all’Eterea’ e io gli rispondo: ‘Non metto più piede in quel locale da due anni. Non voglio rimanere intrappolato nei suoi labirinti’. Lui me lo chiede ancora e io dico: ‘Sì’. Perché?”

“Non capisci le cose semplici!”

“Niki, e poi cosa faccio?”

Lo guardai con occhi un po’ materni ed amorevoli. “Non succederà nulla di sbagliato. A quel punto capirete da soli cosa fare. Tu non sarai più categorico sulle tue posizioni e lui non lo sarà più sulle sue, come in ogni rapporto.”

“Io non lo so. Hansi è così – orgoglioso, e fisso nelle sue idee. Mi spaventa.”

“Non ti preoccupare.”

Die mi scrutò per un secondo. “Parliamo sempre di me, ultimamente. Ma tu?”

“Io e Claudia ci siamo lasciati. Ma domani sera esco con quella ragazza dello stage, come si chiama… Lucrezia, Luciana, Lu –“

“Ludovica.”

“Quella lì.”

“Nikita,”

“Sì?”

“Dovresti cominciare a pensare seriamente all’amore, sai?”

“Certo Die. E poi se anch’io mi riduco come te, chi li raccoglie i nostri cocci?”

Die sospirò. “Vorrei avere anch’io un Mircea per essere sempre in pace con me stesso, col mondo e con tutti.”

“Dovresti essere Lelio.”

“Se Ottavia fosse qui snocciolerebbe una bella citazione. Ora è il momento giusto.”

“Credo di averla io la citazione, questa volta.”

“Cioé?”

 

III.

 

And therefore I have sailed the seas and come

To the holy city of Byzantium.

 

Bisanzio è molto più vicina di quanto ci immaginavamo.

Guardavo il palco, e sul palco guardavo suonare Die, finalmente, dopo un tempo lunghissimo lontano dalle scene. Quella notte eravamo stati soli, lui ed io. Mio fratello mi aveva confidato un segreto che doveva rimanere nella mia testa e risuonare con lo stesso silenzio di un sarcofago, per non spezzare qualcosa di importante, per non incenerire una situazione così precaria. Eppure mi sembrava di scorgere qualcosa in più, rispetto al vuoto e alla scelta. Cercando di spingermi oltre la corte di velluto del proscenio, immaginavo di trovare una città fatta d’oro e di mosaici, di cupole magnificenti, di sfarzi, di bellezza, di decadente eternità.

La nave che solca i mari si sta dirigendo verso la sacra città di Bisanzio, carica del suo splendore religioso e della sua potenza militare. Un tempo doveva essere stata tutto questo, e doveva essere stata lucente, meravigliosa, un vero capolavoro dell’uomo. Ora ne restano soltanto le immagini, le icone, i simulacri di una grandezza passata, scorta, ma pur sempre viva nel ricordo tremolante della poesia. È un destino così tragico e così auspicabile, perché transita direttamente in quel territorio sconosciuto – l’immortalità.

Come si rapportava Bisanzio a quella sera, la sacra Bisanzio? Pure la nostra notte era in un certo senso sacra. Intuivo che era l’inizio di un viaggio verso una meta fondamentale nel destino di mio fratello. Il suo percorso era vincolato ad approdare in una città dorata, o a terminare tra gli abissi. Questo non lo sapevo. Ma guardavo la sua figura muoversi sul palco, le sua mani correre sulla tastiera, il suo volto concentrato accarezzato da timidi raggi di luce, e mi era perfettamente chiaro che quello era il suo posto. La sua dimensione. La sua meta, l’essenza che ricercava tendendo una vita verso il sogno, e che sempre gli sfuggiva. Doveva rimanere lì, cristallizzato e preservato per sempre nel suo stato di perfezione. Invece tutto sarebbe sfumato con lo scemare del buio e con lo spuntare dei primi, timidi raggi di sole.

Speravo che Die capisse questo, che si ricordasse della sua passione, che si riconoscesse nella sagoma ombrosa ritagliata sul palco delle meraviglie, davanti alla platea acclamante, nel cuore di una notte fatta apposta per sussurrargli all’orecchio la strada migliore da percorrere.

“Tieniti stretta quest’illusione anche domani mattina, quando ti sveglierai e ti accorgerai di aver respirato l’aria di un paese fantastico.”

Sospirando, mi allontanai. Mostrai la carta all’ingresso e mi restituirono il soprabito. Fui sollevato quando rimisi piede nel giardino muto e socchiuso al confine del giorno, pronto ad esplodere nella purezza incantevole della Primavera. Da una parte mi sentivo felice. Dall’altra parte, un po’ per me stesso, un po’ per Die, ero inspiegabilmente dominato da una sensazione oscura, una sottile, incomprensibile e malinconica tristezza.

 

 

___

All - is - rite - coz we're - BREAKING THE CHAINZ!!! Oggi va così. Mi sono ripromessa di fare pubblicità ai Crashdiet, quindi faccio pubblicità ai Crashdiet. Chi sono, direte voi. Sono un gruppo sleaze metal svedese E che roba è, direte voi. Se non avete mai sentito parlare di Motley Crue, non vi siete persi nulla. In caso contrario, ascoltateli, e per tutte le fangirl come me, guardatevi le loro foto. Bene, compiuta la buona azione della giornata. Il fatto è che se diventano famosi magari vengono in Italy per un concerto headliner e io li posso vedere! Yeah!

 

Dunque, passiamo alle cose serie, visto che aspetto ospiti e poi non ho tempo. L'Eterea, non esiste. Vagamente ispirata a un posticino in Milano, ma non esiste. Esce direttamente dal mio periodo più dark, e oggi mi sembra una cosa così lontana, che rivedendo il capitolo mi è venuto da sorridere. E Nikita è un personaggio che purtroppo non ho analizzato molko, ma che mi piace davvero. Davvero-davvero. E' bello e di un'intelligenza pungente, come Otta. E' anche un cretino, fondamentalmente, uno che ama divertirsi quasi fino all'autolesionismo. Un pirla, come diremmo noi. E' simpatico!

 

Ringraziamenti:

 

Locke: Hai letto tutto in poche ore, seriamente? o_o. E io ci ho messo un anno ad arrivare a questo punto, che vergogna. Sono sempre contenta di avere nuovi commentatori, e nuovi lettori, per cui grazie mille. Grazie per le tue belle parole, per i complimenti (bla bla bla, lo so, non dovrei crogiolarmi così, ma è vero, sono come un gatto a cui grattano la pancina, come un cipollino innamorato...). Die e Hansi sono intensi, lo sono per forza. Loro sono pura passione, sono estrema conseguenza dell'orgoglio eccetera. Sono nati con questo fine. Ma sono sicura che risolveranno i loro problemi. E grazie soprattutto per quello che hai detto sul mio stile, perché è il complimento più bello che mi si possa fare. Merci!

 

Manny-chan: Come al solito, cara, grazie per la recensione. Sei una persona buffa è___é. Adoro le persone come te. Anch'io sono buffa e faccio cose incredibili, insomma. Ti ho davvero commossa? Ho scritto quel capitolo cercando proprio, anche a livello formale, una semplificazione e una nota fiabesca, una prospettiva infantile, che poi è la più semplice, la più immediata, e per certi versi la più giusta. E' questo il Piccolo Principe, per me. Un libro che è una lezione di vita e di convivenza, di amicizia. Brr, mi mette i brividi...

 

Alla prossima ^_^

Baci

 

Martolina

   
 
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