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Autore: _Sinclair_    01/10/2013    1 recensioni
L'epistemofobia, ossia la paura di conoscere. Ma conoscere cosa? Gli eventi, i luoghi, le persone... sé stessi, forse? E come può convivere con tale timore un uomo che ha fatto della scoperta del mondo e di ciò che lo abita la propria vita? Semplicemente, non può. Racconto partecipante al contest "Fobie", organizzato da Maya_Moon sul forum EFP
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota dell'Autore: Poiché questo racconto è stato scritto in occasione di un contest sulle fobie, forse è il caso di fare una piccola premessa. La fobia che ho prescelto, in base alle regole del contest, era l'epistemofobia: in altre parole, la paura di conoscere. Ma conoscere cosa? O chi? Buona lettura!

Senza troppi giri di parole, era stufo. Aveva cominciato a lavorare da poco più di dieci minuti e già se ne stava pentendo.
Troppa luce, troppo poca luce. Alzava i bianchi e i neri diventavano grigi. Lavorava sui neri e i bianchi svanivano. Più contrasto? Buona idea, ma le sfumature facevano ciao ciao e andavano a farsi benedire.
Forse il problema era nella composizione...
Ed ecco il classico dubbio esistenziale: ma non era meglio evitare il bianco e nero e giocare con i colori? E allora lì capiva che era finito veramente nei guai, che quella foto la doveva buttare.
Ecco, un semplice gesto col mouse e via, altri dieci minuti di vita sprecati.
Clic.
Sì, le balle che era tutta esperienza, che tutte le immagini ti servivano comunque, che fare pulizia tra i propri scatti aiutava a migliorare la tecnica. Le balle, appunto.
Era solo tempo perso che se ne andava, e a quarant’anni suonati a Joel l’idea di sprecare questa risorsa non proprio infinita cominciava a seccare davvero. Diavolo, i suoi clienti lo pagavano fior di dollari per un’ora di lavoro e lui se ne rimaneva lì a buttare minuti su minuti. E perchè poi? Per sentirsi un grande artista?
Sì, certo. Il solo pensiero gli fece venire la gola secca. Buttò giù un sorso di caffè, forte e dolce, e anche se quell’ondata di liquido bollente quasi gli bruciò la lingua ottundendogli il senso del gusto, si trovò a desiderare di averlo allungato con qualcosa di più forte. Qualcosa preso dalle bottiglie che erano ancora lì, sul tavolo del salotto, ricordi della sera precedente.
Joel chiuse gli occhi, sottraendosi per un istante alla luce artificiale del monitor. Reclinò la testa all’indietro, appoggiò la nuca sul bordo dello schienale e assaporò il tepore dei primi raggi di sole dell’alba. Se ne rimase così, in quella strana posizione, rilassato, ad ascoltare la musica del cuoio della poltrona che si muoveva sotto il suo peso, a farsi invadere le narici dall’aroma bruciato e zuccheroso del suo caffè.
E non è che non vide nulla. Ancora, le immagini. Danzavano nella sua mente. L’ultimo scatto, quello che aveva appena distrutto, ma anche quelli precedenti. Forme, sagome, linee. Insiemi di punti, nati da momenti della sua vita. Dalle sue scelte. Perché se lui aveva preso quelle immagini e non altre era perchè così aveva voluto, perché la vita che si era costruito lo aveva portato in quei luoghi in quegli istanti.
Un secondo, un passo, uno scatto. Clic. Un’altra immagine, una via deserta in una città sconosciuta, oppure una mamma che insegue il proprio bambino per strada, un paesaggio che lascia chiunque a bocca aperta, una modella che ti toglie il fiato. E poi, è naturale, vivere quei momenti. Passeggiare per quella via deserta, scambiare quattro chiacchiere con la mamma distratta, esplorare quel paesaggio. Portarsi a letto quella modella.
Scoprire, appunto. Andare oltre l’immagine, come gli avevano insegnato i suoi maestri, quelli con cui aveva parlato e anche quelli di cui aveva solo letto. Andare oltre l’immagine, viaggiarci dentro, sapere di più, usare la fotografia come mezzo di indagine. Oltre l’immagine, sempre oltre...
Joel riaprì gli occhi. Rialzò la testa, passandosi la lingua sulle labbra di nuovo secche. Ora il brusco sapore del caffè aveva lasciato spazio ad un sentore più pesante, acido. No, il tabacco non c’entrava. Aveva smesso da due anni, ormai. Arricciò il naso e provò conun altro sorso di caffè.
Era pessimo.
Riportando lo sguardo sul monitor, fu addirittura colto da un leggero senso di nausea. Doveva elaborare (o eliminare) ancora altri cinque scatti. Che poi, doveva. Sì, ok, era meglio non rimanere con del materiale arretrato. Ma in fondo, che gliene importava? Aveva forse delle scadenze? No, era sua roba personale, un progetto tutto suo. Nemmeno un progetto poi... materiale, ecco. Scatti a caso, figure e persone. In fondo era questo che faceva sempre, sia per vivere che per divertirsi, no? Clic e ancora clic.
Le sue dita iniziarono a tamburellare sul mouse, senza muoverlo di un millimetro.
«E tanti saluti alla cavalleria...», disse lei.
Le dita di Joel si fermarono. Con un movimento di reni, girò la poltroncina e se la ritrovò davanti. Appoggiata alla porta, i lunghi capelli castani sulle spalle, il viso aperto e disteso di chi non si vergogna delle sue rughette sottili di prima mattina, le lunghe gambe color del latte. Nuda, naturalmente.
L’uomo la guardò per due secondi buoni prima di formulare la risposta. Di donne nude ne aveva viste, sia per lavoro che per altri motivi, soprattutto negli ultimi anni. Ma doveva ancora abituarsi all’idea di vedere così Sarah. Sarah! Al diavolo...
«Se ti riferisci al caffè, ce n’è mezza caraffa pronta. Devi solo scaldarla.».
Sarah piegò le sottili labbra rosate all’insù. Il massimo che poteva fare di vagamente simile ad un sorriso a quell’ora, per l’appunto prima del caffè. «Certo che mi riferisco a quello. Ti conosco da troppo tempo per aspettarmi un mazzo di rose o una scatola di cioccolatini. Dimmi solo dove posso trovare le tazze...»
Si era già mossa verso la cucina, prima ancora di finire di parlare.
«Aspetta, Sarah!», le urlò lui, correndole dietro per il corridoio. «Ti do io tutto quanto!» Faceva sempre così, da quando l’aveva conosciuta raramente Joel l’aveva sentita terminare una frase prima di spostarsi da un’altra parte.
«Perché, non ti fidi di me? C’è forse qualcosa che non devo scoprire nella tua bella cucina?» rispose lei, ridacchiando.
Pochi passi ed era già entrata. Joel le fu subito appresso, riuscendo ad aprire lo sportello dell’armadietto mentre lei aveva già messo le mani sulla macchina per il caffè, riaccendendola. Prese una tazza bianca con dei fiorellini rossi, quella che più si avvicinava al concetto di pulito. Non si diede pena di prendere lo zucchero, Sarah prendeva il caffè sempre amaro e senza latte.
«No, è che ti conosco, bella mia. Sei l’unica persona al mondo ad essere più imbranata di me e prima di arrivare alle tazze mi farai cadere metà dei piatti.»
«Ecco, appunto. Non ti fidi di me, lo vedi?.»
La donna si issò a sedere sul tavolo della cucina, le braccia conserte al petto. Iniziò a far dondolare le sue gambe affusolate e Joel sapeva bene che quel movimento non era affatto casuale. I muscoli dei suoi fianchi si contrassero al solo ricordo di come quelle stesse gambe vi si erano avvinghiate contro solo qualche ora prima. Nella stanza iniziò a diffondersi l’odore un po’ asprigno del caffè riscaldato.
Joel sospirò. Mentre attendeva che il caffè fosse pronto, la guardò ancora. E lei guardò lui. E ci mancò veramente pochissimo che scoppiassero a ridere. Ma che accidenti gli era preso la sera prima, tanto da arrivare a fare... beh, quello che avevano fatto?
«Ma sì che mi fido, avanti. Non ti ricordi di quanto mi sono fidato di te ieri sera?»
«Veramente ricordo solo molto cibo, molto vino, molte chiacchiere... ancora altro vino, o alcol o roba strana...»
«E non ti ricordi nient’altro del dopo? Voglio dire, potrei anche offendermi...»
«Offenditi pure, ma prima del caffè ho difficoltà a ricordarmi anche come mi chiamo. E parlando di caffè, a me piace caldo, non bruciato.»
Il braccio di Sarah era disteso in avanti, il dito puntato sulla macchina del caffè che fumava fin troppo. Joel si voltò, la spense e versò il liquido scuro nella tazza, riempiendola a metà. Poi la consegnò a Sarah, ma nel farlo le si fece vicino. Qualcosa scattò dentro di lui e mentre la donna già iniziava a bere il primo sorso, la sua mano fu presa da un improvviso ricordo della sera precedente. Si posò sul fianco di lei. Iniziò ad accarezzarla.
Lo schiaffetto che arrivò fu gentile, ma deciso.
«Aspetta, Joel. Soffro il solletico e rischio di versarmi tutto addosso.»
L’uomo staccò la mano... per ritrovarsela di nuovo attaccata al fianco della donna, questa volta trattenuta da lei. Sarah lo guardò da dietro il fumo del caffè, inarcando un sopracciglio.
«Chi ti ha detto di andartene, ragazzino? Stai qui buono e fermo, va bene?»
«Ti aspetti forse che passi la vita ad abbracciarti, Sarah?»
Un altro sorso di caffè. Quella donna aveva sempre avuto la bocca foderata d’amianto, oltre ad una fretta indiavolata in qualsiasi suo gesto. «La vita no. Quest’oggi sì. Stamattina almeno. Sono libera tutto il giorno, sai?»
«Sarah Courtier che mi dedica tutta una domenica. Mi sento onorato...»
«Adesso non montarti la testa. Di questi tempi ho poco lavoro da fare in agenzia, e quindi mi ritrovo con più tempo libero. Passarlo assieme al mio fotografo migliore mi sembra una buona idea.»
Joel si fece un po’ più vicino. I lembi della sua vestaglia sfioravano i piedi della donna, che continuando a dondolare iniziarono a dare dei leggeri calcetti agli stinchi di lui. La mano rimase ferma sul fianco di lei, ma premette giusto un pelo di più. Sarah si fermò a metà di un sorso, poi terminò il suo caffè. Due minuti netti.
«Sì, è una buona idea. Pure io non ho molto da fare.»
«Il che è male,» replicò lei. Un movimento laterale del bacino e gli sgusciò via dalle mani, scendendo dal tavolino. Anche lei aveva passato da poco la quarantina ma i gesti erano rimasti quelli di una ventenne.
Gli si mise alle spalle e quando Joel si girò d’istinto, fu Sarah ad avanzare, spingendolo a toccare il bordo del tavolo. La luce della finestra, proveniente dalla sua destra, metteva ancor più in evidenza le ciocche ondulate di Sarah, all’interno delle quali si poteva scorgere il brillio argenteo dei primi capelli bianchi.
«Perché è male?» replicò Joel, ritrovando il fiato. Averla così vicina stava iniziando a fare uno strano effetto sul suo respiro. Un piacevole effetto.
«Perché un fotografo dovrebbe sempre avere da fare. Catturare il momento che fugge, no? In effetti me lo sono sempre chiesta... non ti spaventa l’idea che là fuori, in questo istante ci siano delle foto da scattare e che invece ti stai perdendo? Io ci uscirei pazza a vivere così.»
«Io non lavoro così. Io non vivo così.»
Sarah alzò gli occhi al cielo e fece due passi indietro. Le braccia di lei si chiusero a coprire il suo seno. Non che riuscissero a nascondere molto.
«Io non vivo così... Ma sentilo... Eh, lo so bene come vivi tu.»
«Ossia?»
«Non te ne importa niente del tempo a te. Sì, le scadenze le rispetti pure, ma lavori solo come, quando e quanto dici tu. E da quel che so vivi allo stesso modo.»
Joel alzò le spalle, per nulla intimorito dal cambio del tono della voce di lei. C’era abituato a quegli sbalzi. «E’ un problema questo? Voglio dire, è un problema per te?»
«Per me? Ma figurarsi.» Sarah fece un altro passettino indietro. Era arrivata accanto al lavabo e iniziò a giocherellare con le dita sul manico di un coltello da pane, rimasto lì dalla cena della sera prima. Non stava più guardando Joel, ma il bagliore della lama. «D’altronde, ci hai messo solo quindici anni a scoparmi.»
Joel reclinò la testa all’indietro. Doveva pulire quei lampadari ogni tanto, la quantità di polvere era quasi imbarazzante. «Sono diciassette. E guarda che non ho fatto sesso con te per la prima volta solo ieri notte perchè ero troppo timido o perché stavo aspettando il momento giusto...»
«E allora perchè? Forza. Devo pensare che lo hai fatto perché sei disperatamente a corto di donne? Il che comporterebbe che io sono solo un ripiego, che sono una vecchia ridotta alla disperazione. Guarda che stavolta sono io che mi offendo, e sul serio.»
Joel osservò con attenzione il dito indice di Sarah, che adesso era puntato con fare minaccioso verso di lui. Avanzò, le prese la mano nella sua e la strinse. Sentì le dita intrecciarsi, una per una. Era come se la sua pelle avesse assunto una nuova sensibilità, focalizzata interamente sulla pelle di Sarah. Era questo che succedeva a chi faceva l’amore? Strano, perché con le sue donne precedenti a Joel non era mai capitato niente del genere.
«Ci ho messo diciassette anni proprio perché so come funziona la tua testa. So quanto ti piaccia saltare da una conclusione all’altra. So quanto tu adori espormi tutti i tuoi bei ragionamenti su di me per poi utilizzarli per rimettere insieme la mia vita. Questa è la tua idea di amicizia. Per me è più simile ad una gigantesca rottura di scatole, però...»
Il braccio di lei si mosse. Attirando Joel verso il suo petto. Con la mano libera sciolse il nodo della vestaglia di lui, aprendola. I suoi occhi, chiarissimi, si fecero sottili. Era sempre più energica dopo il caffè, anche questo Joel lo sapeva bene. Come sapeva che non avrebbe mantenuto il controllo a lungo se le cose fossero continuate ad andare avanti.
«Però per diciassette anni l’hai sopportata questa rottura. E ieri sera te la sei anche portata a letto.»
«Il che ti fa capire che pianifico molto meno di quanto tu creda. Semplicemente mi andava di farlo. Alle volte piace anche a me vivere e basta, sai?»
Le mani si strinsero di più. Joel iniziò a sentire un odore diverso da quello del caffè. Meno aspro. Penetrante.
«Oh questo lo so, bello mio,» replicò Sarah. Joel soppresse a stento una risatina. Sentirla sussurrare così piano era strano per lui, abituato alla voce sempre squillante della donna «Mi basta vedere come hai trattato quella poveretta di Jillian».
Ecco, fine delle risatine. Le mani si sciolsero. Due passi indietro e con la mano destra Joel iniziò a lisciarsi la vestaglia. Sarah chiuse gli occhi e si morse la lingua.
«OK, scusa.»
«E di che?»
«Per Jillian.»
«Sono io che dovrei chiedere scusa a lei, come mi dici spesso. Da due anni a questa parte.»
Sarah deglutì. Per un istante il suo sguardo parve perdersi a contare le briciole di pane rimaste sul tagliere abbandonato. Poi si puntò nuovamente sul viso di Joel, in cui i lineamenti ancora scombinati da quello che era successo la sera prima emergevano da sotto la sua corta barba, ingrigita qua e là.
«Beh, lo sai che c’è, ragazzino? Sono due anni che ho ragione. Da vendere. Le hai fatto davvero un brutto scherzo.»
Joel sostenne lo sguardo di Sarah. Chissà perchè in quel momento gli comparvero davanti vecchie immagini, pensieri sfumati. Due lettere, soprattutto. JJ. Le iniziali con cui lui e Jillian terminavano tutti i loro messaggi, i loro sms, i bigliettini che si lasciavano per tutta casa.
«Vorrei che tu non lo facessi, Sarah.»
La donna si sporse di poco in avanti. «Cosa?»
«Diverse cose, in effetti,» rispose Joel. Prese la tazza e la mise dentro il lavabo, scavalcando lei. «Vorrei che tu non ritirassi fuori Jillian ogni singola volta che io e te ci troviamo a parlare di qualcosa. Che tu non mi tormentassi più la vita mentre rimani della tua assurda convinzione che mi stai facendo un favore. E anche che tu non mi chiamassi più ragazzino. Tre anni di differenza nell’età non sono così tanti, sai?»
Sarah abbassò gli occhi. Joel notò un improvviso disagio nei suoi gesti, ora che erano di nuovo così vicini. «Tre anni possono bastare, Joel. O anche no. Quello che importa davvero è ciò che legava voi e due. Tu e Jill eravate perfetti, quasi odiosi. Ci sono state delle volte...» La donna si fermò. Ora i suoi occhi erano di nuovo levati in alto, ma si allontanavano con forza dal viso di Joel. «Ci sono state delle volte che vi ho visto così felici da provare rabbia. Invidia. Insomma, dai, hai capito...»
Joel fece un passo indietro. Non amava vedere un’amica in difficoltà, men che meno infierire su di lei. Però la sua voce si fece cupa, più nera e profonda dei suoi occhi. «E’ stata lei ad andarsene...»
A quelle parole, le mani di Sarah si strinsero di colpo e il velo di tristezza che pareva essere calato su di lei si squarciò. Ora gli era di nuovo davanti, vicina, quasi addosso. Il suo corpo premeva su quello dell’uomo, ma non vi era nulla di sessuale o lascivo nel suo slancio. La tensione era troppa, una tensione cattiva e violenta, tanto che Joel sbarrò lo sguardo, colto alla sprovvista dall’inedita versione in cui ora gli compariva la sua vecchia amica.
«Piantala con queste stronzate,» disse lei, a voce non alta ma tagliente come il coltello del pane che le brillava alle spalle. «Per quello che le hai fatto, è già tanto se non ti ha strozzato nel sonno. Io lo avrei fatto.»
«E quale crimine orrendo avrei mai commesso? L’ho tradita, forse? E tu sai quante opportunità avrei avuto. Le ho fatto mancare qualcosa? Cazzo, Sarah, tu più di ogni altro li conosci i sacrifici che ho sopportato per lei! I lavori, i viaggi, le opportunità a cui ho rinunciato perché c’era Jill!»
Sarah iniziò ad annuire, all’apparenza più rasserenata. All’apparenza. «Bravo, come no. Sei stato proprio un bravo fidanzatino. Peccato che per sette anni non le hai dato ciò di cui aveva davvero bisogno.»
«E che cosa? Una casa più grande? Un matrimonio, magari anche un bambino?»
«Il tuo interesse.»
Joel stava per continuare nel suo elenco. La lunga lista di prove d’amore, sforzi e tentativi che aveva messo in campo per far andare bene la lunga relazione con Jillian. Jillian e i suoi capelli rossi naturali di cui andava tanto fiera, Jillian e il suo perfetto ordine mentale, Jillian e le lentiggini che le coprivano le guance sotto gli occhiali sottili, Jillian e il suo tranquillo lavoro di segretaria chiusa in una routine che sembrava perfetta per farla cadere preda del fascino un po’ sgangherato di uno come Joel. Jillian che amava i lunghi viaggi ma che andava in panico se si era dimenticata a casa la sua camicetta preferita, Jillian che trascorreva tutto il tempo in aereo con il braccio avvinghiato alla spalla di Joel perché non gli aveva mai confessato la sua paura di volare, Jillian che avrebbe adorato avere un cane. Jillian che non c’era più.
Nel ripassarla mentalmente, Joel fu quasi spaventato da quella lunga lista di ricordi e rimpianti. Restò in silenzio, la bocca semiaperta. Guardò poi Sarah, con aria strana, come se la vedesse per la prima volta. E si scostò da quella sconosciuta, smarrito.
Strinse le labbra. Riprese il controllo. Lasciò che la rabbia gli riscaldasse le gambe lasciate scoperte dalla corta vestaglia. Non disse nulla, oltrepassò Sarah e prima che se ne rendesse conto fu già fuori dalla cucina. Ancora senza pensarci si ritrovò in salotto, vicino al divano disfatto con un paio di bicchieri rovesciati sul pavimento, una bottiglia semivuota sul tavolo e vari pezzi di vestiario sparsi qua e là.
Ad uno sguardo più attento, Joel riconobbe i suoi pantaloni intrecciati alle calze nere con cui Sarah si era presentata la sera prima alla sua porta. Poco distante, la gonna plissettata non troppo corta (ma neanche troppo lunga...) e una camicetta senza manica color vinaccia nascondevano un bel paio di sandali a tacco alto, mentre poco distante la giacca azzurrina di Joel giaceva scomposta sullo schienale di una poltrona, mentre di lì a presso la sua camicia era riversa a terra, con una manica ancora impigliata nei cuscini del divano. Forse aveva perso un paio di bottoni quando Sarah li aveva strappati. A pensarci bene, probabilmente quella serata non aveva preso una piega tanto imprevista... anzi, tutto sembrava essere andato esattamente secondo i piani che entrambi si erano fatti prima ancora del suo inizio...
Come che fossero andate le cose, Joel superò quel singolare cimitero di indumenti e fu davanti alla sua postazione nella quale campeggiava l’immagine dello scatto successivo.
Un bambino in un parco guardava il suo palloncino perdersi nel cielo. Doveva essergli sfuggito di mano, e il piccolo sembrava più sorpreso che triste. Forse la tristezza per quella perdita sarebbe arrivata di lì a pochi istanti, ma in quel preciso momento il bambino si limitava a seguire il volo del suo amico colorato verso luoghi in cui lui non avrebbe mai potuto seguirlo. Nel suo viso non c’era dolore, solo stupore. E magari anche un pizzico di invidia per il palloncino finalmente libero.
«Ti ho fatto male?» disse la voce della sconosciuta alle spalle di Joel. E di nuovo tornò per lui Sarah, Sarah l’imbranata, sia con le cose che con le persone. Lei che prima faceva danni e poi si riavvicinava piccola piccola, in punta di piedi. Come se bastasse questo per riparare al malanno.
«Più che altro non ti ho capito. Che intendi con “interesse”?»
Joel non si era voltato, il suo sguardo era rimasto rapito dalla figura del bambino sullo schermo. Si era limitato a pronunciare quella parola, interesse, con un tono di singolare distacco, come se avesse pronunciato il nome di una specie di esotica mai sentita prima.
«OK, mettiamola così. Tu che lavoro fai?»
A questo Joel si girò. Ora la sua curiosità era al massimo. «E me lo chiedi? Il fotografo. Uno dei tuoi fotografi a contratto, per la precisione.»
«Quindi nella tua vita tu scatti fotografie. Tante fotografie. Per soldi e perché ti piace. Conoscendoti, soprattutto perché ti piace. Giusto?»
«Giusto.»
«E allora perché non vedo una solo foto di Jillian in questa come nelle altre stanze?»
Joel si prese un secondo. Roteò la lingua tra i denti. Si scoprì a fare un bel respiro. «Io non vedo Jill da almeno un paio d’anni...» replicò, un po’ incerto.
«Non fare il furbino. Vengo in questa casa da quando l’hai comprata, ossia da molto prima che voi due vi lasciaste. E non ci ho mai trovato una foto di Jillian o di altre donne. Nè ci sono altri tuoi scatti.»
Joel non potè fare a meno di dare una lunga occhiata ai muri e ai mobili della stanza. Sì, c’erano quadri e in camera da letto anche un paio di stampe antiche. Ma di sue foto nessuna. Di suo niente. Era una cosa a cui non aveva mai pensato e come tutti i pensieri inediti quella consapevolezza aveva la strana capacità di occupare di colpo il suo intero spazio mentale.
Il che era allo stesso tempo curioso e destabilizzante. Non c’era niente di strano in un fotografo, dilettante o professionista, che mettesse alle pareti di casa sua un qualche proprio lavoro.
Ciò che era anomalo, e foriero di chissà quali significati, era un fotografo che non appendesse nessuna sua foto in casa. Joel, tuttavia, non si sentiva particolarmente invogliato di trovare risposte a quella domanda. Meglio rimanere concentrati su Sarah e sulle sue illazioni stravaganti.
«Fammi capire, secondo te Jillian mi ha lasciato dopo sette anni perché non avevo foto sue in casa? Tutto era tranne che vanitosa. E poi le avrò fatto un milione di fotografie, in tutti i posti dove siamo andati insieme.»
Sarah abbassò di colpo le spalle e lo guardò di traverso. «E io sono tutto tranne che cretina. Il problema non è ciò che pensava Jillian, ma ciò che tu non pensavi di lei. Tu di lei non pensavi nulla. Non ti interessava, non ti importava. Ti faceva divertire, ti faceva stare bene, si dannava l’anima per te e questo ti compiaceva da matti... ma a parte tutta questa bella roba, nulla. Non la volevi conoscere davvero, non volevi vederla e rivederla ogni mattina. Tu la guardavi. Come guardavi le foto che facevi, cercando di renderle espressive, piacevoli, tecnicamente perfette. E lo erano. Come lo sono tutti i tuoi scatti, che fai a raffica per distaccartene meglio. Scatti che non vuoi riguardare giorno dopo giorno, per paura di scoprire qualcosa di nuovo, per paura di quello che queste scoperte possono fare al tuo bell’io immacolato. Per paura che le tue foto comincino a scoprire loro qualcosa su di te. Ed ecco che le tue immagini rimangono lì, belle e anche piene di contenuti. Ma prive di forza.»
«Stiamo passando sul piano professionale, qui...», la avvertì Joel, socchiudendo gli occhi e tenendosi pronto a difendere ciò a cui teneva di più nella sua vita: il suo lavoro.
«Certo che sì. E non mi stupisce che io senta il primo briciolo di rabbia in te solo quando ti ho colpito sulla professione, e non dopo tutte le pugnalate che ti ho dato sul piano personale.»
«Beh, vorrei vedere: in praticami stai dicendo che i miei scatti non valgono un granché, Sarah. Dopo quasi vent’anni di lavoro insieme. E sì, questo mi fa arrabbiare, per usare un eufemismo.»
La donne scosse la testa, evidentemente divertita, e quel gesto non fece che aumentare l’irritazione di Joel. Stava forse cercando di farsi cacciare dalla sua casa, nuda sul pianerottolo e con i vestiti in mano?
«Al contrario, i tuoi scatti si vendono come il pane. Mi hanno fatto raccimolare una piccola fortuna e sono davvero buoni. Ma questo perché ai clienti non gliene importa niente di quello che tu pensi di ciò che fotografi, o dell’atteggiamento che tu hai nei confronti dei tuoi soggetti. Loro vogliono una bella immagine, tu gliela dai e tutti sono felici e contenti. Tranne chi, incantato dal tuo lavoro, prova come un cretino ad avvicinarsi a te e ad amarti, rimanendone sempre fregato.»
«Oh cavoli, oggi sei bella carica,» replicò lui. Con movimento della mano chiuse il programma di fotoritocco. Si era di colpo stufato dello sguardo da ebete di quel ragazzino. «I cretini che provano ad avvicinarsi a me. Nientemeno. E perché sarebbero dei cretini? Perché io non li so amare? E da cosa lo desumi, dal fatto che non amo vantarmi delle mie foto, pensando di trovarci chissà quale segreto perduto? E da questo arrivi a dire che io non provo interesse per niente e per nessuno? Una catena di deduzioni logiche impeccabili, non c’è che dire!»
Sarah ascoltò la voce di Joel che si alzava di volume, che provava a colpirla quasi fisicamente. E sorrideva, mentre lui agitava le mani, per poi reinfilarle rabbioso nelle tasche della vestaglia.
Quindi, nell’improvvisa calma che seguì la sua requisitoria, lui la vide attonito prendere dal divano il primo capo di vestiario che le capitò sotto mano, la camicia di lui, e infilarsela alla bell’e meglio. La donna aveva una bella corporatura, era alta uno e settanta, e quell’indumento le stava solo di poco largo alle maniche.
Poi si avvicinò e mentre Joel continuava a fulminarla con gli occhi lei, sempre sorridente, fece una cosa che lo lasciò quasi senza fiato: accarezzò con tenerezza la sua guancia barbuta. Joel si rilassò, di colpo e senza un vero motivo. Bastò quel gesto, e la sua voce.
«Lo sai cosa mi disse Vince, quando mi annunciò che voleva divorziare da me? Mi disse che non gli avevo fatto niente di male, che ero stata una brava moglie, che le cose andavano anche bene tra noi nonostante io non avessi potuto dargli un figlio. Ma anche che era stufo di rincorrermi. Perché io non mi calmo mai, perché io sfuggo, perché io detesto coloro che si interessano a me al punto di chiedermi di fermarmi. Mi ci rivolto contro, inizio a ferirli come una belva impaurita. E lui aveva bisogno di una donna da conoscere, da scoprire giorno dopo giorno. E io mi arrabbiai con lui, tanto che per poco non lo presi a a schiaffi! Pensavo che avesse un’altra, ero sicura che avesse incontrato una ragazzina più giovane, che mi volesse punire per il bambino che non avevo potuto dargli e non avesse avuto il fegato di dirmelo. Dopo il divorzio ero certa che sarebbe comparsa chissà chi, magari una sciacquetta coi capelli biondi e con le tette rifatte... Niente di così prevedibile, invece. Si è dedicato al suo lavoro, è rimasto da solo per un anno, poi ha incontrato una collega quarantenne. Molto ordinata, un viso semplice. Da quel che so anche simpatica. Una un po’ come Jillian, insomma. Fine della storia. E del mio bel matrimonio.»
Mentre Sarah parlava, Joel fece di tutto per resistere. Lottò con ogni forza all’impulso di chiudere gli occhi, cercò di non lasciarsi incantare dal movimento della mano sottile di lei che passava sulla sua barba e dal tono calmo della sua voce che esponeva senza remore la sconfitta più grande della sua vita. Provò a non reclinare il capo e a non poggiarsi sul braccio dell’amica, che stava cominciando a cullarlo con una dolcezza che mai lui aveva provato. Fece di tutto. E non ci riuscì. Troppi i dubbi, troppe le incertezze, troppo quell’improvviso senso di stanchezza che si era impadronito di lui.
Allora, anche se lui stesso non lo voleva, cominciò a pensare. A pensare davvero.
Conoscere qualcuno, questo lui doveva fare secondo Sarah. Scoprire l’essenza di chi si ama, le sue debolezze e i suoi timori. E perché mai? A quale scopo? Cosa gliene sarebbe venuto in cambio, se non la consapevolezza di altri dolori, altra sofferenza, altri affanni. Non era forse meglio andare avanti, godere di quel che si trovava, senza pensare troppo? Provare a condurre un’esistenza dignitosa, soddisfacendo i capricci irrazionali del proprio ego, scegliendo da soli e lucidamente ciò per cui stupirsi?
Quale abisso invece si nascondeva dentro l’altro da sè? L’inaspettato, l’imprevisto, lo sconosciuto. E come avrebbe reagito l’ignoto di fronte ad un tale atto di violenza, la smania di sapere? Cosa avrebbe messo in movimento dentro il suo animo? Come non provare orrore e raccapriccio di fronte a tali incognite?
Ma allo stesso tempo troppo dolci erano quelle carezze, troppo fresca e gentile quella mano, capace di tirare fuori dalla bocca di Joel parole mai dette, domande mai fatte e sempre temute.
«Perché... perché mi dici questo, Sarah?» sentì la sua voce sussurrare, mentre la testa rimaneva fiacca e stordita. Preda di una paura così profonda da esservisi radicata dentro con la forza di un erba maligna.
«Perchè ieri notte, Joel, mentre facevamo l’amore, ho capito cosa mi stava succedendo. Forse per la prima volta nella mia vita, ma l’ho capito. Stavo prendendo da te ciò che volevo davvero e stavo dando a te ciò che tu volevi davvero. Io volevo un uomo che non mi legasse a sè per conoscermi e tu volevi una donna che non ti chiedesse di esplorare la sua anima mattina dopo mattina...»
Gli occhi di Joel si aprirono di nuovo - lo fecero da soli, senza che lui desse alcun comando cosciente - e lui vide una Sarah ancora diversa. Passata la faccia un po’ burbera della vecchia amica, svanita la furia di qualche istante prima, ora lui aveva di fronte a sè una donna più piccola, quasi tremante, di certo un po’ triste. Non l’aveva mai vista così bella, nonostante le ombre del trucco apparissero ora un po’ slavate sotto gli occhi e sugli zigomi di lei, e fu anche per questo che non potè fare a meno di iniziare a sua volta ad accarezzare quel viso, non più giovane ma carico di promesse inaspettate per il futuro come di altrettante promesse deluse nel passato.
«E allora? Che male c’è se ci regaliamo a vicenda ciò che desideriamo? Dove sta il problema, amica mia?»
Sarah fece un respiro, profondo e rilassato. Anche lei si appoggiò alla mano di lui che le sfiorava la guancia. «C’è che è sbagliato. Ci stiamo scambiando solo le nostre paure. Tu che vuoi solo emozionarti e non vuoi ragionare con la testa nè di fronte alle immagini che scatti nè di fronte alle persone con cui condividi la tua vita. Io che non mi sono mai fatta fotografare nemmeno una volta, perché l’idea di rimanere imprigionata in una vecchia foto, da rivedere qualche anno dopo, mi fa orrore.»
Nel sentirla parlare, Joel riprese quanto delle sue forze gli era sufficiente per scostarsi di qualche centimetro da quello strano abbraccio fatto di sole carezze, per quanto difficile potesse essere. Si passò la lingua sulle labbra, poi tornò a guardare Sarah. La pelle di Sarah. Le gambe di Sarah. I suoi profondissimi occhi grigi.
«Che fare, allora? Rimaniamo tutta la mattina qui a parlare? O magari torniamo a letto... è un modo di conoscersi anche quello, non credi?»
Sarah si lasciò sfuggire un sorrisetto, ma quell’espressione morì presto sul suo viso.
«Il pensiero di passare un altro paio d’ore come questa notte è allettante. Ma fare l’amore non è conoscersi. E’ una delle balle più grandi della storia, una sciocchezza che ci siamo inventate noi donne qualche secolo fa per fregarvi. Se voglio conoscere e farmi conoscere da un uomo ci parlo o ci passo del tempo insieme, non gli apro le gambe offrendogli l’unica cosa capace di spegnere del tutto il suo cervello.»
«Allora siamo fregati, mia cara. Mi spieghi come possiamo fare a...»
«A toglierci da questo pasticcio?» gli chiese lei, staccandosi improvvisamente da lui, spezzando lo strano incantesimo che li aveva catturati entrambi e tornando con quel semplice movimento la Sarah irrefrenabile di sempre. «Non possiamo. Tanto vale fare un bel respiro e tuffarcisi dentro, non credi? Quindi, ora io e te ci diamo una bella sistemata, magari mi fai un secondo caffè più decente di quella schifezza nerastra di prima, prendi una delle tue belle macchine fotografiche e ce ne usciamo, così mi puoi fare un po’ di foto. Che te ne pare?»
Forse avrebbe dovuto dare segno di un maggiore entusiasmo. Sì, forse avrebbe dovuto e non riuscirci lo lasciò con un vago senso di imbarazzo. Tuttavia, Joel non potè fare a meno di guardare la sua amica con un’espressione un po’ idiota sul viso. Quello era territorio totalmente nuovo per lui, si stava incamminando in una zona precedentemente resa inaccessibile dalla sua stessa paura di scoprirla e conoscerla, e tanto per cambiare Sarah si muoveva a passo di carica nella più totale oscurità. Per un istante si chiese se sarebbe mai riuscito a fermarla per un solo istante. Sì, forse solo con le sue foto avrebbe potuto, ma sarebbe stato difficile poi capirla, catturarla, coglierla nella sua essenza... Difficile, faticoso e pericoloso.
«Oh cavoli, piantala di rimuginare, Joel! Non ti sto chiedendo di sposarmi, non ti sto chiedendo di passare con me il resto dei tuoi giorni, ma di stare con me oggi e basta. Voglio fare due passi insieme a te e farmi scattare qualche foto per riderci sopra, e poi prenderci un panino e una birra da qualche parte, come due stupidi ragazzini! E non mi devi portare chissà dove... vanno benissimo Piccadilly, la Serpentina, la Torre in mezzo ai turisti giapponesi... o anche il giardino qui sotto casa! Basta solo che tu mi faccia delle foto. Mi voglio... guardare e per farlo ho bisogno dei tuoi occhi. Anche se forse è il caso che mi metta qualcosa di più adatto di questa camicia, non ti pare? Se esco con questa indosso mi guarderanno pure in troppi...»
Sarah sottolineò le sue ultime parole sollevando le braccia e lasciando ricadere le maniche lasche nell’aria, mentre i fianchi della camicia, sollevati dal suo seno, coprivano a malapena i fianchi e le cosce. E, sì, a quella camicia mancavano proprio un paio di bottoni...
A quello spettacolo, Joel rise. Forte. Come aveva fatto poche volte in vita sua. Senza darle il tempo di reagire, cinse la donna alla vita, con quella familiarità che i vecchi amici riescono a costruire solo in decenni di vicinanza, e se la portò in cucina per preparare un secondo caffè.
Sentiva che ne avrebbero avuto bisogno entrambi, perché quella sarebbe stata una giornata memorabile. Una giornata in cui molte cose che erano rimaste fino a quel momento all’oscuro sarebbero state finalmente scoperte.

 
 
   
 
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