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Autore: Francine    04/10/2013    3 recensioni
Frammenti di vita quotidiana, sparsi nello spazio e nel tempo, all'ombra del Grande Tempio di Athena.
(Personaggi serie classica e Lost Canvas)
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Caleidoscopio'
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#3 – L’ottomana di velluto rosso



Prompt: Divano

Titolo: L’ottomana di velluto rosso

Autore: Francine

Fandom: Saint Seiya – Serie Classica

Personaggi: Aquarius Camus, Scorpio Milo, Pope Sion

Genere: Commedia/Sovrannaturale

Rating: Verde

Avvertimenti: Da collocarsi da qualche parte nello spazio/tempo precedente alla Notte degli Inganni


Lunghezza: (conteggio parole e numero pagine) 2417/ 4

Eventuali note dell’autore (o alla fine se contengono spoiler): Le vicende della Bête du Gévaudan si sono svolte, in realtà, una ventina d’anni dopo gli eventi narrati in Lost Canvas. Voi fate finta che gli abbia dato uno strappo il Dottore...

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Un buon divano è spesso ciò che c'è di più efficace per imbastire una conversazione.
(Pierre Dac,
Arrières-pensées, 1998 )



«E IO ti dico che c’è!»
Alza gli occhi al cielo. È stanco. Ha tutte le ossa rotte. Un mal di testa che rulla costante come farebbero le bacchette sulla pelle tesa del tamburo. L’ultima cosa che vuol fare è mettersi a discutere e precipitare in una spirale di discorsi insensati. Sarà stanco anche lui. E quando è stanco, straparla. Quindi l’unica cosa da fare è assecondarlo. Nella speranza che la smetta e lo lasci in pace.
«D’accordo. Mi hai convinto.» È sicuro di aver chiuso la questione. Quando fa così, vuole solo avere ragione e a lui che cosa costa dargliela?
Costa il fatto che con il suo compagno non funzioni così. Anzi. Ma lui questo ancora non può saperlo. «Benone. Andiamo.»
Andiamo? E dove?, chiedono i suoi occhi blu, allargati dallo stupore più genuino di questo mondo. «Pardon
«Vieni con me», gli dice. Serrandogli il polso. La sua mano brucia. Sente il calore attraverso il metallo dell’armatura.
«No», ribatte. È inutile, già lo sa, ma ogni mosca tenta di alzarsi in volo dalla tela del ragno, anche quando ha le ali invischiate. «Dobbiamo andare a fare rapporto al Sacerdote.» Disciplina. Un bel richiamo all’ordine. Questo ci vuole. Spera che, da qualche parte in quella testa bacata, il guerriero abbia la meglio sul ragazzino esagitato, e segua il senso del dovere, invece che strampalate fantasie.
«E che problema c’è? L’Ottava Casa è sulla nostra strada.»
 


Milo aveva ragione. C’è qualcuno seduto sul divano ai piedi del letto. L’alba deve ancora tingere il cielo di rosa, ma si riesce ad intravedere bene quella figura. Magra. Alta. È un uomo. Non sembrerebbe essersi accorto di loro due, che lo spiano nascosti dietro lo stipite della porta della stanza da letto del cavaliere di Scorpio. Cavaliere che non riesce a trattenere l’eccitazione – e la fifa – mentre anche il suo compagno osserva quella scena che si ripete da qualche mese. Puntuale ogni mattina.
«Hai visto?», sussurra Milo, quasi grida sottovoce sopra la testa del compagno. Il suo fiato gli sposta i capelli. Camus sente caldo. Un caldo tremendo. Come se qualcuno avesse acceso le caldaie del mondo a piena potenza e se ne fosse andato a fare una passeggiata.
L’uomo seduto sull’ottomana rossa legge un libro. Le gambe accavallate, una giacca di velluto bordeaux ed una decorazione di pizzo sullo sparato della camicia, i suoi occhi rincorrono le parole scritte sulle pagine che tiene tra le mani eleganti, la sua espressione è tranquilla e paziente, come se attendesse qualcosa. O qualcuno. Un leggero sorriso gli inarca le labbra mentre una ciocca di capelli lunghissimi e liscissimi scivola sul velluto della giacca. Ora riescono a vedere bene l’uomo ed i suoi colori, mentre questi volta la pagina e alza lo sguardo. I suoi occhi sono verdi. Di un verde impossibile. E mentre Camus ha la sgradevole sensazione di vedersi riflesso in uno specchio del tempo, il primo raggio di sole entra dalla finestra, fende la cortina leggera delle tende ed attraversa l’uomo. Che scompare sorridendo.
 


Nessuno dei due dice una parola mentre salgono le scale che li condurranno alle stanze del Sommo Sion. Camus ha la fronte imperlata di sudore e la schiena bagnata. Quello che hanno visto ha ben poco di naturale. Sapeva delle storie che circolano per il Santuario, e non se n’è mai stupito; anzi, credeva fossero un’invenzione di Mask per spaventare i più piccoli con le fole dei fantasmi. Lui non ha mai dato peso alle voci di fantasia. Perché dovrebbe? Ogni luogo con una storia alle spalle ha un forziere di leggende e tradizioni da raccontare. Echi del passato, riflessi di persone che non ci sono più, che permangono come piccoli frammenti d’anima e restano impressi sulle pietre che compongono il Santuario dall’alba dei tempi. A volte basta poco perché qualcosa di soggettivo divenga un fatto reale ed accertato. Un riflesso, un soffio di vento, una forte umidità… ed ecco un luogo infestato dai fantasmi. Oppure un animale feroce ed affamato, come La Bête du Gévaudan che sembrava dovesse essere chissà quale mostro uscito dai recessi dell’inferno ed invece era solo un grosso lupo.  

Io c’ero...

Camus spalanca gli occhi, i piedi fermi su uno scalino. Cos'è quel pensiero? Lui c’era? Ma quando?, si chiede guardando il marmo candido. È certissimo di non essere mai passato per il Rossiglione. Mai. Nemmeno durante il viaggio con Rémy per raggiungere il Santuario. E poi, si tratta di fatti avvenuti almeno duecento, se non duecentocinquanta anni prima. Come faceva ad esserci, lui?

Io c’ero. L’ho visto. Con questi occhi. L’ho combattuto. E l’ho congelato in una bara di cristallo eterno.

Camus abbassa lo sguardo sulle proprie mani, mentre sente che gli occhi di Milo gli stanno così addosso da potergli quasi fare una radiografia. La sua pelle chiara è avvolta nell’oro dell’armatura e si stupisce di non trovare i segni del morso della bestia.

Le sue fauci. Enormi. Mastodontiche. Così forti da spezzare l’osso del collo di un uomo.

«Tutto ok?»
Milo lo chiama, ma lui non lo sente. Avverte un eco, un ronzio in sottofondo, come una frequenza radio disturbata. Ha le narici invase del forte odore di resina dei pini, del sangue ancora caldo, dell’afrore delle bestie selvagge. Della paura. Ed è la paura a farlo piegare sulle ginocchia in un conato di vomito che gli mozza il fiato. Stavolta Mask non c’entra niente. Stavolta ci sono davvero i fantasmi.
 
 

Il rapporto della missione al Sommo Sion è spiccio. Sbrigativo. Parla Milo, perché Camus non ce la fa. Un senso di nausea, montante e pervicace, gli ottunde la mente. Guarda stralunato il Sacerdote. Stanco. Come chi ha vegliato tutta la notte al capezzale di un ammalato, ma non vuole darlo a vedere. Non sa se sia il caso di parlarne con il Sommo Sion. Che gli direbbe? Sapete, Sacerdote? Questa mattina ho visto un fantasma che leggeva un libro nella camera da letto di Milo e sono sicuro di aver combattuto contro il Grosso Lupo Cattivo duecento anni fa? Lo prenderebbe per pazzo. S’è lasciato suggestionare, è chiaro. Tutta colpa di Milo e dei suoi discorsi strampalati. A dargli ascolto si finisce per diventare matti come un cavallo a cui mancano un paio di rotelle e una mezza manciata di venerdì…
«Va tutto bene, Aquarius? Sembra tu abbia visto un fantasma.»
Camus spalanca gli occhi.  Il Sommo Sion si avvicina, la veste immacolata che produce un fruscio morbido sul pavimento di marmo. Con la coda dell’occhio vede che Milo freme. Vuole raccontare tutto al Sacerdote. Liberarsi. Vuotare il sacco. E poi sia quel che sia. In un angolo della sua mente il giovane Acquario annota che no, Milo non è in grado di tenere un segreto. Nemmeno per sbaglio. Lui sente che il compagno vorrebbe riuscirci, lo vorrebbe con tutta l’anima, e il Cielo solo sa quanto potrebbe avere bisogno, un domani, di avere qualcuno a cui confidare i propri pensieri e dubbi e perplessità, come faceva Rémy con Yannick; ma Milo no, non è quel tipo di persona che resta muta come un tomba a custodire una confidenza privata.
«Io…», prova a rispondere. Perché il Sommo Sion è di fronte a lui, adesso, che aspetta e deve pur dargli una risposta, giusto? Sì, ma quale?, si chiede Camus, prima che intervenga Milo a toglierlo dall’impaccio.
«Sì, Sacerdote. Abbiamo visto un fantasma.»
 


Lo studio di Sion è una piccola stanza da cui entra la luce del mattino – e quella delle stelle – attraverso una grande vetrata ovale che si affaccia sulle Dodici Case. Lungo tutte le pareti sono allineate pesanti librerie di legno. Legno di castagno, pesante e massiccio, che sorregge con grazia pesanti incartamenti, e pergamene, e rotoli e libri e fogli tenuti insieme con un nastro di seta rosso scuro. Lo scrittoio, su cui svetta una penna d’oca color cobalto che dorme placida in un calamaio di vetro, retaggio di un tempo che fu, è ingombro di altre carte, mappe e rotoli accatastati attorno ad un mappamondo antico. È d’avorio, prezioso dono di un regnante europeo i cui domini non esistono più, e riporta i confini del mondo così come lo si conosceva all’epoca. Manca ancora l’Oceania e l’Oceano Pacifico è una gigantesca area dai confini non molto definiti. C’è un’ottomana anche qui. Di velluto rosso. La gemella di quella che troneggia ai piedi del letto di Milo.
Il giovane Scorpione ha sempre detto di aver trovato quel mobile nella stanza, quando è arrivato dalla sperduta Milos con l’Armatura fresca di vittoria. Non l’ha fatto mettere lui. L’ha fatto mettere il Sacerdote in persona. Duecento anni prima. Quell’uomo si chiamava Sage. 
Il Sommo Sion sorride, in un misto di tristezza e tenerezza. «Venite, ragazzi. Devo mostrarvi qualcosa», dice loro indicando l’ottomana con un cenno del mento.
Milo e Camus obbediscono. Hanno sonno, si vede che non hanno dormito – per la febbre l’uno e per i conati l’altro – eppure hanno ubbidito all’ordine del Sacerdote di presentarsi poco prima dell’alba nel suo studio. «Tanto le persone anziane come me si svegliano prestissimo», ha detto loro il giorno prima, con voce pacata. La verità è che Sion oramai non dorme più. Avrà tempo di farlo quando sarà nella tomba, ma fino a che Athena lo manterrà su questa Terra vuole godere della luce del sole e di ogni singolo alito di vita che gli sarà concesso. Perché dopo non ci sarà più nulla. Solo il buio. Ed è al buio che i due ragazzini sono arrivati. Ed ora, mentre il crepuscolo del mattino rischiara di poco lo studio del Sacerdote, tre persone sono in attesa di qualcosa.
Per un attimo non succede nulla. C’è solo il velluto rosso e un po’ antiquato dell’ottomana, il senso di nausea di Camus ed un calore fiammante che lascia la bocca di Milo riarsa. Eppure non avevo la febbre, ieri sera, pensa il giovane Scorpione. No, il termometro segnava trentasei gradi. La temperatura ideale, né troppo calda né troppo fredda. Ma allora perché si sente bruciare dentro?, si domanda mentre a Camus sfugge un gemito.
C’è un uomo sul divano. Alto. Massiccio, ma elegante al tempo stesso. Una cascata di capelli ricci gli incornicia una mascella volitiva ed un naso dritto e fiero. Ha l’aria imbronciata. Annoiata. Non trattiene uno sbadiglio, spalancando la bocca e grattandosi la testa arruffata. Indossa una camicia bianca ed un paio di pantaloni scuri, ha i capelli sudati e lo sguardo febbricitante. Lo stesso che ha Milo mentre guarda se stesso riflesso in uno specchio del tempo. Ha la bocca riarsa dalla sete e la testa leggera. Come se avesse passato la notte intera a sudare sotto pesanti coltri di lana, e non a rigirarsi tra le lenzuola madide.
Il tizio sul divano – il fantasma? – allarga lo scollo della camicia e sbuffa. Deve avere molto caldo, pensa lo Scorpione in un angolo della sua mente mentre si sente bruciare proprio al centro del petto. Poi lo sguardo del fantasma si carica di speranza e si allarga mentre fissa qualcosa – o qualcuno?, pensa con terrore Milo – alle loro spalle.
Ed è qualcuno che, con aria annoiata, passa attraverso Camus fluttuando sul pavimento. Milo osserva che i piedi del tizio, lo stesso che lui vede ogni mattina intento a leggere un libro sul divano, toccano il marmo screziato di rosso, ma non producono alcun suono. Camus non nota questi particolari. È attraversato dal freddo più profondo ed intenso che abbia mai provato in vita sua. Altro che gli eterni ghiacciai della Siberia! Altro che lo zero assoluto! Questo è qualcosa che va oltre l’arresto del moto degli atomi. Questo freddo oltrepassa la vita stessa. Questo freddo è…
La morte, pensa il giovane Acquario non riuscendo ad impedirsi di tremare. In nome di Athena, che sta succedendo qui?!
Il fantasma sull’ottomana scambia un paio di battute con il nuovo arrivato. Di nuovo quel conato di vomito, una boccata d’acido che risale lungo l’esofago di Camus. L’altro fantasma, quello dell’Ottava Casa, sembra ignorare il compagno. Si dirige allo scrittoio del Sacerdote, si siede e comincia a leggere dei documenti. Registri, questa volta. La sua mano afferra la piuma blu cobalto – il fantasma della piuma blu cobalto, o un suo residuo ectoplasmatico – ed inizia a farla danzare sulla carta pergamenata, mentre l’altro continua a parlare, imperterrito ed incurante del fatto che il suo compagno abbia da fare. Sembra chiedergli qualcosa. Sembra… Milo, pensa Camus e corre a cercare lo sguardo del compagno, che trova ad osservare, rapito, la piuma d’oca compiere dei circoli e delle piroette tra le mani affusolate del fantasma. Fantasma che alza lo sguardo con espressione seccata, si sfila un pince-nez e ribatte qualcosa al compagno seccatore. Il quale sorride, soddisfatto, mentre il primo raggio di sole penetra nella stanza.
I due svaniscono assieme, nella calda luce del mattino, non prima di essersi girati verso il loro pubblico. Sorridendo, l’intellettuale. Alzando una mano in segno di saluto, il seccatore. E poi più nulla, nessun residuo, niente più caldo atroce o freddo assoluto, solo l’aria gentile dell’alba che soffia sul viso dei due Gold Saint facendo loro sentire il freddo bacio delle lacrime.
Anche il Sommo Sion sta piangendo. Un sorriso mesto gli piega le labbra rugose mentre due rivoli d’argento percorrono la pelle avvizzita delle sue guance.
«Sacerdote…» Milo rompe quell'attimo sospeso tra passato e futuro, mentre dalla finestra giungono i rumori del Santuario che si risveglia: le campane risuonano nell’alba, gli uccelli cinguettano, le imposte si aprono ed il sole riempie in un baleno la stanza. «Sacerdote… chi erano quelli?», chiede lo Scorpione, mentre l’Acquario no, non riesce a spiccicare parola.
Eravate voi. I voi di un altro quando. I voi di tanto, troppo tempo fa.
Sion si impone di riprendersi. Si asciuga gli occhi stanchi con le dita deformate dall’artrite e scrolla via le lacrime, come stille preziose. Sanno di sale, ma sono anche dolcissime. Ha avuto modo di rivedere due suoi compagni, e se una parte di lui avrebbe voluto sparire con loro, nel sole e godere del meritato riposo – e ritrovare il suo maestro e gli altri fratelli d’arme – il Sacerdote dentro di lui ha avuto ragione di quello sciocco, egoistico sentimento. Ci sarà tempo per gli abbracci e le riunioni, per Sion dell’Ariete. Tanto tempo. Ma adesso sulle sue spalle incurvate dagli anni grava una responsabilità. Athena. E deve formare come si conviene questi giovani cavalieri d’oro che puzzano ancora di latte e se la fanno sotto alla vista di un fantasma.

 «Venite, ragazzi, », dice Sion dopo essersi accomodato sull’ottomana di velluto rosso. «Devo raccontarvi una storia…»
   
 
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