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Autore: Kiki87    04/10/2013    4 recensioni
Ognuna di loro era una principessa e sapeva che le avrebbero insegnato qualcosa, seppur ancora non fosse abbastanza grande da considerarsi una di loro. Ma un giorno, le ripeteva la stessa melodica e soffusa voce, anche lei lo sarebbe stata e, finalmente, avrebbe compreso tutto.
Da sempre amante delle favole, Brittany deve affrontare una nuova realtà ben diversa da quella conosciuta e rassicurante. Con le presenze rassicuranti della madre e di Lord Tubbington, incontrerà nuove persone e inizierà una nuova vita. Sarà duro il cammino per sentirsi come le sue principesse preferite? Troverà, infine, quel principe di cui sognava da bambina?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Brittany Pierce, Hunter Clarington, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Ce la farò,
sopravvivrò.
Quando il mondo crollerà,
quando cadrò a terra e toccherò il suolo.
Mi guarderò attorno,
non provare a fermarmi.
Non piangerò.
(Alice, dalla colonna sonora
Alice in Wonderland”-
Avril Lavigne)




Capitolo 2.

Non sapeva esattamente dove si trovava ma quella sensazione di timore le stringeva il cuore: ne sentiva i battiti rimbombare nei timpani e l'istinto di lasciarsi tutto alle spalle e fuggire.
Udì in lontananza un tuono squarciare il silenzio e la pioggia continuava ad abbattersi con inaudita violenza: sentiva freddo fin dentro le ossa e un tremore diffuso nel tentativo di stringersi le esili braccia al corpo. Osservò il lungo abito sporco: un'angoscia senza paragoni a vederne il tessuto, di un delicato azzurro, imbrattato dal fango.
Il castello sembrava ancora addormentato ma non riusciva a distogliere lo sguardo: aveva la consapevolezza innata che un paio di occhi, nell'oscurità, la stavano seguendo. Sapeva che avrebbe dovuto trarsi al sicuro, che se non fosse stata abbastanza rapida, sarebbe stata raggiunta.
Gli occhi sgranati per il terrore e le labbra schiuse nel tentativo di ritrovare respiro, sollevò il lembo della lunga gonna e corse, superò la fontana e corse nel dedalo delle siepi, fino a quando non imboccò il sentiero che la condusse nel vicolo cieco.
Tutte le luci sembrarono smorzarsi, era completamente fradicia e non vi era possibilità di scavalcare la parete di mattoni. Provò a tastarla con il respiro affannato.
Si voltò. Nessuno in vista, un silenzio assordante, infranto solo dal suo battito convulso e la certezza che qualcosa stava per accadere... e non avrebbe potuto impedirlo.

“Brittany, Brittany: svegliati presto!”, la voce di Marley sembrava lontana, come filtrata da una radio mal sintonizzata. Ma trasparivano il timore e l'ansia mentre la biondina continuava a dormire: le palpebre ben serrate ma aveva stretto convulsamente il cuscino, le sopracciglia aggrottate per il sogno che la stava angustiando.
“Ti prego!”, la ragazza la stava scuotendo energicamente. “Kitty sta arrivando!”, gemette prima che il suono della tromba risuonasse per la seconda volta in tutta l'Accademia a siglare un momento ben preciso della giornata.
Il controllo mattutino: tutte le reclute dovevano disporsi in riga, in attesa del Capitano della sezione che si sarebbe avveduto che tutto fosse perfettamente in ordine nella camerata, prima dell'inizio dell'addestramento.
E così fu anche quella mattina: Kitty e la sua sottoposta, una giovane dai capelli scuri, il viso tondo e i lineamenti asiatici, fecero il suo imperioso ingresso.
Marley si affrettò a prendere posizione, le mani strette lungo i fianchi, ma continuò ad occhieggiare l'amica con la coda dell'occhio, sperando in qualche risveglio miracoloso, prima che fosse troppo tardi.
Kitty lasciò vagare lo sguardo sulla stanza, soffermandosi sulle reclute: sembrò fare un calcolo mentale perché, ad un certo punto, parve accigliata. Gli occhi guizzarono verso il letto sul quale la Brittany era ancora stesa: non sembrava essersi mossa all'ennesimo squillo di tromba. Al contrario, aveva affondato il capo sotto il cuscino, ancora rannicchiata nel calore delle coperte.
Un'espressione incredula prima che, altrettanto repentinamente, un sorriso affiorasse sulle labbra carnose. Fece cenno alla sua sottoposta di controllare gli altri letti. Si fermò di fronte a Marley che, gli occhi sgranati nel vuoto, sembrava sudare per la tensione.
“La nostra Barbie ancora dorme?”, cinguettò ma la castana non osò risponderle. Così nessuna delle altre, soltanto Lauren gettò un'occhiata a Brittany e sollevò gli occhi al cielo.
“Svegliala”, berciò Kitty in direzione di Marley.
“Signorsì, Signora!”, rispose prontamente e si avvicinò al letto della ragazza e, come fatto prima dell'arrivo del Capitano, riprese a scuoterla con maggiore intensità. Brittany emise soltanto un mugugno lamentoso ma non diede cenno di svegliarsi.
“Tic-toc, tic-toc”, cantilenò, Kitty, appoggiata indolentemente alla sponda del letto a castello, prima di fissare Marley con espressione di palese disgusto. “Buttala giù dal letto”, le ordinò con la stesso tono annoiato.
“M-Ma”, la brunetta si morse il labbro, evidentemente mortificata: indubbiamente il conflitto tra il seguire l'ordine del suo Capitano e compiere un gesto di quell'entità.
Sollevò gli occhi al cielo, Kitty, che le passò accanto e la scansò. “Inutile come sempre: mi domando cosa ti trattenga dal tentare un plausibile suicidio. Sicuramente l'idea di farmi felice”, sibilò in sua direzione con gelida malevolenza. “Tornatene in riga: ci penso io”.
Si avvicinò al letto, pose le mani al di sotto del materasso e, un movimento energico e risoluto, lo rovesciò, facendo così cadere la ragazza addormentata sul pavimento. Prese la tinozza dell'acqua appoggiata sul comodino e gliene versò addosso il contenuto.
Brittany ansimò e si drizzò bruscamente, tremava e gli occhi erano sgranati in una mera espressione di spavento e di sorpresa: lo sguardo azzurro, nel silenzio sovrano della stanza, guizzò alla camerata, le sue compagne e si soffermò su Kitty che torreggiava su di lei, le mani sui fianchi.
“Perché sono bagnata? Credevo di star sognando”, domandò, la voce ancora rauca per il brusco risveglio e il tono evidentemente confuso da tutta quella situazione.
Kitty sorrise e si mise a coccoloni: la guardò con il viso inclinato di un lato e un sorrisetto allusivo e divertito. “Sai che ore sono, Barbie?”, le soffiò minacciosamente all'orecchio.
Scosse il capo, Brittany, evidentemente ancora cercando di comprendere cosa stesse accadendo.
“Sono le 5.10”, la informò Kitty, la voce ancora serafica e l'altra sgranò gli occhi interdetta, guardandola come se avesse appena pronunciato qualcosa di incredibile.
“Ma a quest'ora si dorme”, disse con tono ovvio che fece sorridere ulteriormente Kitty, lo sguardo che baluginava malignamente.
“No”, rispose in un sussurro dolciastro, lo sguardo ancora freddo. “A quest'ora dovresti già essere vestita, allineata alle tue compagne”, le indicò con un cenno del mento. “e pronta alla corsa prima della colazione”.
“Oh”, Brittany si morse il labbro e parve soltanto in quel momento comprendere cosa stesse accadendo. “Mi dispiace, io-”.
Kitty la interruppe, sollevando la mano. “No, devi rispondere 'Signorsì, Signora'. Avanti, dillo”.
“Signorsì-”.
“Più forte!”, la fulminò con lo sguardo. “Non riesco a sentirti!”, le aveva urlato contro l'orecchio e Brittany non ebbe tempo di chiedersi se, come Hunter, avesse qualche problema di udito perché si massaggiò il timpano, prima di ripetere la formula a voce più alta.
“Hai dieci minuti”, concluse Kitty, sollevandosi dal pavimento. “Vestiti ed esci fuori o verrò a prenderti io e ti assicuro che non sarà affatto gradevole”, fece un brusco cenno alla sua vice che si affrettò ad affiancarla ma, prima di imboccare l'uscita, si volse nuovamente verso di lei.
“E asciugati: se bagnerai il pavimento, te lo farò pulire con la lingua. E voi, fuori!”.
Osservò tutte le sue compagne – Marley le aveva mimato un “a dopo!” - camminare ordinatamente verso l'uscita e Brittany sospirò. Si scostò i capelli dal viso e si sollevò, dopo aver starnutito.
Decisamente non era stato un buon inizio mattinata: Hello Kitty poteva dire ciò che voleva ma a suo parere, e anche quello del tempo là fuori, era ancora notte. E tempo di dormire.

“Sei in ritardo rispetto al ritardo!”, le abbaiò contro il Capitano: aveva lasciato le altre reclute sotto la direzione di Tina Cohen Chang e si era avvicinata, con passi rapidi, a Brittany che era rimasta immobile, assumendo la posizione che le era stata insegnata.
“Mi dispiace: non riuscivo ad allacciare gli stivali e-”.
“Oh, povera Barbie, forse ancora non ti sei ambientata? Ma non preoccuparti”, si era portata una mano al petto, Kitty, imitando un'espressione di dispiacere, misto ad una dolce premura. “Ti aiuterò io in questo”, nuovamente sorrise ma era come se i lineamenti anziché ammorbidirsi e divenire più dolci, si affilassero. C'era una luce sinistra nel suo sguardo.
“S-Sei molto gentile”, sussurrò Brittany, evidentemente stupita da quel cambiamento di espressione e di tono ma Kitty assunse nuovamente il suo sguardo gelido e colmo di disprezzo.
“Venti giri di campo!”, il tono lapidario nell'impartire il suo ordine e Brittany boccheggiò.
“Venti?”, non seppe cosa fosse più sconcertante: il modo in cui nuovamente sembrava aver assunto la parte da cattiva o il fatto che credesse che venti giri di campo potessero aiutarla ad abituarsi a quel luogo.
“Trenta, allora”. Sorrise, il viso inclinato di un lato. “Hai altro da dire?”.
Scosse repentinamente il capo, Brittany: adesso che aveva capito il gioco, non si sarebbe più fatta trarre in inganno.
Non parve soddisfatta, Kitty, perché la circumnavigò: si fermò al suo fianco e si sporse al suo orecchio, in un atteggiamento evidentemente intimidatorio. “Adesso dovresti dire 'Signorsì, signora'. Mani lungo i fianchi e ripeti forte, avanti”.
Si era morsa il labbro, Brittany, ma aveva obbedito.
“Comincia”, parve annoiata la sua superiore ma, l'attimo dopo, le artigliò il polso.
“Aspetta”, la fece voltare e lo sguardo schifato corse ai braccialetti che erano sfuggiti dalla manica della divisa (aveva dovuto raggomitolarle, in quanto troppo lunghe). Colorati, con piastrine a forma di fiorellini e di cuoricini che Kitty osservò come si fosse trattato dell'animale più ripugnante esistente in natura.
“Ne vuoi uno?”, chiese Brittany, nervosamente. “Ne ho tanti”.
“Levali subito”, sibilò Kitty, lasciandole bruscamente il braccio e, con un sospiro e un'espressione offesa, Brittany li sfilò.
Kitty gliele prese prepotentemente e, sotto il suo sguardo incredulo e mortificato, li gettò a terra prima di fissarne i capelli che le ricadevano sulle spalle.
“Se ti rivedrò coi capelli sciolti, te li taglierò io stessa: legali subito!”.
Si era tolta il berretto, Brittany, e l'altra ragazza – spostatasi rapidamente alle sue spalle – li raccolse con tale forza da procurarle dolore, prima di modellarli in una stretta crocchia che fermò con uno dei suoi braccialetti.
“E' per stupide oche come te che l'esercito femminile è tanto pregiudicato”, le aveva soffiato rabbiosamente nell'orecchio e nuovamente le fu davanti con la stessa espressione implacabile e colma di puro e semplice sprezzo. “E ora corri: voglio vederti stramazzare a terra ed imparare cosa sia la fatica”.
Aveva annuito, Brittany, le labbra tremanti e il prurito al bordo degli occhi: era dai tempi della scuola, quando le bambine più grandi la punzecchiavano e facevano gruppo, lasciandola in disparte, che non si sentiva così sola e incompresa.
“Pierce, stai piangendo?”, le aveva chiesto, Kitty, l'espressione incredula ma Brittany si era affrettata a scuotere il capo per rimuovere quei ricordi meno lieti.
“N-No”, aveva sussurrato, la voce rotta.
“No, Signora!”, la pungolò Kitty che la spinse malamente in avanti. “CORRI! Cinquanta giri di campo: non mangerai fino a quando non avrai completato, sarò la tua ombra, MUOVITI!”.


Quando ebbe finito, trovò Marley ad attenderla in camerata: erano soltanto loro due e Brittany, la mano appoggiata al fianco dolorante almeno quanto la milza (o era il fegato?), camminò lentamente, il respiro ancora ansante. Aveva il volto arrossato, il berretto che scivolava dal capo e i capelli che ricadevano scomposti sulle spalle e che avrebbe dovuto nuovamente acconciare, prima di uscire dalla stanza.
“Bevi un po' d'acqua”.
Brittany si lasciò cadere sul proprio letto, facendo dei profondi respiri e sollevando il capo. Aveva allungato la mano verso il bicchiere, le tremavano leggermente le dita ma bevve tutto di un fiato mentre Marley la osservava evidentemente preoccupata.
“Kitty è tremenda: ha fatto così, anzi, fa così anche con me. Non che le altre siano più fortunate ma credo abbia un debole per noi”, cercò di improvvisare un sorriso divertito ma si sedette al suo fianco e le strinse la spalla. “I primi tempi sono difficili per tutti ma ti abituerai”.
Non riusciva a parlare, Brittany. Le sorrise a mo' di ringraziamento ed annuì ma quell'angoscia che aveva provato durante il sogno: quella sensazione di occlusione, nonché il terrore di ritrovarsi nuovamente in trappola, le toglievano quasi il respiro.
Aveva cercato di ripetersi per tutta la mattinata quelle parole rassicuranti, quella certezza che avrebbe soltanto dovuto avere pazienza perché tutto si sarebbe sistemato. Anche quando era caduta e, ogni singola volta, Kitty le aveva urlato contro, minacciandola di prolungare ulteriormente la sua punizione e di lasciarla per l'intera giornata senza cibo.
“Andiamo alla mensa”, la voce dolce e ovattata di Marley la strappò a quei pensieri. “ Poi avremo lezione insieme”, le aveva porto la mano in un gesto così semplice e spontaneo che Brittany aveva sentito un dolce calore sfiorarle il cuore. Si era allungata a cingerla e si era rimessa in piedi.
C'era di buono che la madre di Marley, che lavorava come cuoca nelle cucine dell'Accademia, sembrava averla presa in simpatia (sicuramente la figlia le aveva parlato del suo arrivo) perché le diede una porzione aggiuntiva della razione, nonché un dolcetto che le aveva suggerito di nascondere. Aveva un sorriso meraviglioso che, per un attimo, aveva annullato tutte le difficoltà e la tristezza di quella mattina, per far sentire nuovamente Brittany a casa. In un posto sicuro, nel quale non dovesse temere nulla, men che meno di non poter essere se stessa.

~

Quando giunse nell'aula di storia, il suo umore era migliorato, nonostante la materia fosse particolarmente noiosa ai suoi occhi. Ma si era drizzata in piedi, imitando gli altri studenti, quando l'insegnante era entrato nell'aula.
Anch'egli indossava la divisa e aveva diverse piastrine affisse sulla stessa (aveva imparato che non erano spille decorative ma corrispondevano a diversi gradi nell'esercito, anche se non riusciva bene a distinguerli), era un uomo molto alto (probabilmente quanto Finn), aveva un'espressione apparentemente severa sul viso ma non mancò di lasciar guizzare lo sguardo verde sui suoi studenti, facendo qualche sporadico sorriso a qualcuno di loro che già conosceva.
Aveva una voce profonda e vi era qualcosa nel suo apparire così composto e serio che l'aveva indotta ad osservarlo con maggiore attenzione mentre si presentava per i nuovi arrivati, come lei.
Mister Clarington, ripeté tra sé e sé: dove aveva già sentito quel cognome?
Sembrava un uomo intimidatorio, tanto che aveva risposto con voce flebile all'appello ma questi aveva sollevato lo sguardo dal suo registro e le aveva rivolto un breve ma sincero sorriso che ne aveva fatto baluginare gli occhi, nel darle il benvenuto. Aveva ringraziato con un breve accenno di rossore sulle guance e seppe che, istintivamente, quell'uomo le sarebbe stato simpatico, per quanto vederlo in piedi ed in divisa, potesse farle impressione. Non che Neal non le avesse suscitato una stessa suggestione ma il suo patrigno aveva sempre quel sorriso più fanciullesco e sbarazzino che la divisa non era (ancora) riuscita ad adombrare; il signor Clarington sembrava sempre molto controllato e posato. A lui la divisa, decisamente, non faceva un bell'effetto.
Come scoprì fin troppo presto, Neal aveva avuto ragione nell'affermare che materie che già aveva studiato in precedenza, avrebbero avuto un diverso approccio. Non si trattava semplicemente di studiare le battaglie che si erano susseguite nel corso delle epoche storiche ma di soffermarsi, con particolare enfasi, sulle strategie militari che erano state adottate.
La voce del Signor Clarington sembrava divenire fin troppo soporifera e, dopo l'attività fisica di quella mattinata, il sonno cominciò a premerle sulle palpebre con inaudita seduzione. Più volte Marley dovette scuoterla perché non sprofondasse in un sonno profondo.
Si strofinò una mano sugli occhi quando uscì dall'aula ma li spalancò l'attimo dopo nel riconoscere la sagoma del Capitano della sezione maschile che stava camminando in sua direzione. Quest'ultimo, inappuntabile nella sua divisa, indugiò a sua volta nel suo sguardo – si era bloccata nel mezzo del corridoio, Marley ancora la suo fianco – prima di rivolgerle un cenno del mento. Le passò accanto per entrare nell'aula ma Brittany, un impulso innato quanto spontaneo, si volse in sua direzione.
“Grazie”, sussurrò con voce tremante, le guance appena rosate. “... per ieri”.
Il ragazzo, che si era bloccato ad un passo dalla porta, si voltò in sua direzione: parve confuso almeno quanto Marley che guardava dall'uno all'altra, prima di rivolgere al suo superiore il saluto militare. Si riscosse, Hunter, e rivolse un cenno pigro a Marley.
“Riposo”, le aveva detto e Brittany si accigliò appena.
Quindi poteva andare a dormire?
Glielo avrebbe anche chiesto, per sicurezza, se lo sguardo di smeraldo non fosse saettato in sua direzione.
“Non so di cosa tu stia parlando”, la guardò così intensamente che Brittany provò un'improvvisa contrazione all'altezza dello stomaco. Sembrava che volesse entrarle nella testa o suggerirle qualcosa, visto come inclinò il viso di un lato e la guardò attentamente.
Sbatté le palpebre, Brittany, evidentemente confusa. Che si fosse dimenticato che si erano visti appena la sera prima e lui era stato così gentile da preoccuparsi per il suo stato d'animo?
“N-Non ricordi?”, gli chiese confusa. “Mi hai detto che-”.
“Com'è andata la lezione?”, la interruppe e Marley sembrò ancora più disorientata da quella sorta di interessamento. Brittany sbatté appena le palpebre prima di stringersi nelle spalle e sorridere affabile.
“Benissimo: si dorme perfettamente a quest'ora”, rispose in tono naturale.
Sembrò spiazzato, Hunter, perché inarcò le sopracciglia e sembrò persino irrigidirsi: Marley era trasalita al suo fianco e, cercando di non farsi scorgere, era scivolata alle spalle del ragazzo e aveva cominciato a sbracciarsi in strani gesti che Brittany non riuscì a decifrare.
“Non ti piace la storia?”, le chiese il giovane, l'attimo dopo, il viso inclinato di un lato e le sopracciglia inarcate in quella che sembrava un'espressione davvero curiosa. Aveva arricciato l'angolo delle labbra, parve vagamente divertito dalle sue parole.
I gesti di Marley divennero più frenetici e Brittany si domandò se la poveretta non fosse stata vittima di un'infezione di pidocchi. Oddio, forse avrebbe dovuto evitare di usare il cuscino della sua branda.
“Per nulla”, rispose in tono limpido. “il professore è gentile ma...”, aveva abbassato la voce in tono più complice e Hunter si era prestato, l'angolo delle labbra sollevato.
“Ma?”.
Aveva arricciato il naso, Brittany. “Quando comincia a parlare di strategie, è peggio di un sonnifero”, dichiarò in tono ovvio che fece annuire gravemente il ragazzo di fronte a sé.
Sembrò in procinto di voler dire qualcosa, Hunter, ma la sagoma dell'insegnante apparve sulla soglia della sua aula: aveva inarcato le sopracciglia a scorgere le giovani ancora in prossimità dell'aula prima di rivolgersi al ragazzo.
“Hunter, ti stavo aspettando”.
“Arrivo, papà”, calcò dolcemente l'ultima parola ma lo sguardo verde era tutto per la biondina che sgranò gli occhi e impallidì: li osservò per un istante facendo saettare le iridi dall'uno all'altro.
La somiglianza nei modi e nel barlume smeraldino erano così evidenti che si sentì incredibilmente mortificata. E sciocca. Aveva boccheggiato, Brittany, il rossore ad affiorarle in viso: fece per dire qualcosa ma Hunter la precedette. La torreggiò, inclinando appena il viso di un lato, inarcò rapidamente le sopracciglia in un'espressione sorniona. “Come un sonnifero?”, le chiese in un bisbiglio.
“I-Io, mi dispiace, non volevo”, lo stava letteralmente seguendo ma questi si strinse nelle spalle: varcò la soglia dell'uscio e si volse.
“Va' ad addestrarti, Pierce”, le chiuse la porta in faccia e Brittany indietreggiò, il viso ancora arrossato e lo sguardo sconvolto.
“Ho cercato di avvisarti”, piagnucolò Marley ma Brittany neppure quasi la udì mentre si mordeva il labbro.
“Lui è stato gentile con me e adesso mi odierà per sempre. E penserà che io sia cattiva”, era parsa ancora più puerile e tremante alla prospettiva ma Marley, che ancora cercava di comprendere da cosa nascesse quella loro particolare interazione, si strinse nelle spalle.
“Dubito che al Capitano Clarington piaccia qualcuno qui dentro”, le aveva detto a mo' di consolazione prima di fissare l'orologio preoccupata. “Andiamo, prima che Kitty ci metta a pulire i bagni degli uomini”.
Rimase ad osservare la porta chiusa, Brittany: il ragazzo non aveva voluto essere ringraziato e forse neppure voleva si sapesse che si sentiva solo. O che così si era sentito, quando era arrivato all'Accademia, anche se sembrava perfettamente padrone di sé.
Davvero non gli piaceva nessuno? O forse era lui a non piacere e per quel motivo era solo e triste?
Sfiorò appena la superficie della porta e restò a contemplarla, fino a quando Marley non la prese con decisione per il braccio, portandola via.

~

Come aveva annunciato Marley, dopo pranzo Kitty le attendeva nel campo d’addestramento. Brittany guardò con orrore quello che somigliava ad una lunga e complessa corsa ad ostacoli: file di copertoni di gomma da superare, muovendo un passo alla volta con le gambe divaricate; un tratto di fango sotto un tunnel ricoperto da un ramato di ferro sotto il quale bisognava strisciare e, dopo vari altri ostacoli, una pedana dalla forma a trapezio sulla quale bisognava arrampicarsi per poi discendere dall’altro lato, aiutandosi con la corda.
Sbatté le palpebre: Neal non aveva fatto alcuna menzione a qualcosa di così orribile.
“Bene, signorine”, e da come lo diceva non era certamente un vezzeggiativo, soprattutto se quelle parole erano accompagnate da uno sguardo così torvo.
Brittany si affrettò ad imitare la postura che avevano assunto le sua compagne mentre il Capitano le passava in rassegna, fermandosi di fronte ad ognuna di loro per quelli che parvero secondi infiniti.
“Ormai dovreste conoscere il percorso a memoria e ho già esaurito la pazienza questa mattina”, lo sguardo malevolo occhieggiò laddove Brittany e Marley la guardavano timorose.
“Chiunque sbagli, si farà cinquanta giri di campo supplementari a fine addestramento”. Si era fermata di fronte a Brittany e sembrò coglierne l’espressione preoccupata. Evidentemente era persino piacevole vederla in quell’espressione perché le sorrise. Ma, ancora una volta, se possibile, quel sorriso la rendeva persino più minacciosa.
“Non preoccuparti, Barbie: tu andrai per ultima, naturalmente”.
Benché sorpresa da quella che sembrava una premura del tutto spontanea, Brittany le sorrise raggiante. Sbuffò, Kitty, lo sguardo volto al cielo.
“Dovresti rispondere”.
“Grazie?”, domandò impulsivamente e sentì Marley gemere al suo fianco mentre Lauren soffocava una risata di scherno.
Una lieve pressione di Kitty e Brittany cadde a terra: il Capitano premette lo stivale contro la sua schiena, premendola maggiormente al terreno e facendola respirare ansante.
“Non mi piacciono gli spiritosi e neppure i menomati: fammi dieci flessioni, subito!”.
Stava comprimendola con lo stivale con sempre più forza e Brittany annaspò ma si sollevò con il busto ed iniziò il piegamento. Sentì Kitty esercitare più pressione, facendola nuovamente cadere a terra e interrompendo il conteggio. Si volse verso Tina, facendole un cenno imperioso verso Brittany.
“Fagliele finire e fagliene fare altre dieci!”.
Almeno la sua sottoposta non sembrava severa e contava per lei: aveva il fiato corto e il viso arrossato, sentiva un fastidioso formicolio alle braccia, quando ebbe terminato.
Quando si rimise in piedi, osservò le altre ragazze alle prese con il diabolico percorso: in poche (e per fortuna tra queste vi era Marley che, dopo il primo anno di vessazioni, sembrava aver raggiunto maggiore sicurezza di sé) riuscirono a compierlo senza incidenti. In quel caso, Kitty si limitava ad un brusco cenno del capo e le esortava ad andare in palestra. Marley le rivolse un saluto e le mimò un “in bocca al lupo!”, ma non poté evitare di sentirsi abbandonata.
Sospirò ma, voltando il capo verso l’edificio, notò in lontananza un plotone di ragazzi: fu facile scorgere la figura mastodontica di Finn e riconoscere quella di Hunter che stava di fronte a tutti mentre illustrava un percorso simile al loro ma con maggiore combinazione di ostacoli e una struttura più alta sulla quale arrampicarsi.
Finn stava facendo flessioni ma gli sorrise quando alzò lo sguardo in loro direzione: a quel punto, evidentemente sorpreso di rivederla, cadde goffamente a terra e Brittany si lasciò sfuggire un verso di divertimento.
Trasalì quando scorse Kitty al suo fianco: si muoveva con una fluidità incredibile ed era incredibilmente silenziosa. “Bene, bene, Barbie: se sei così impegnata a flirtare con un crostaceo, immagino che non ti dispiacerà metterti in mostra”.
“Posso andare a salutarlo?”, le aveva chiesto confusa.
“CORRI!”, le diede uno spintone e Brittany, per la prima volta, dovette affrontare il temibile momento.
Se era relativamente facile correre e saltare gli ostacoli (“Solleva quella gambe da fenicottero!”, l’aveva ammonita Kitty che la seguiva, passo dopo passo), un po’ meno lo era superare la distesa di copertoni. Cadde varie volte e Kitty le impose di ricominciare da capo, elevando di volta in volta il numero di flessioni cui si sarebbe sottoposta alla fine del percorso stesso. Tuttavia, la biondina sembrò concentrarsi soltanto su di lei, affidando a Tina il resto del plotone.
Giunse alla parte più disgustosa e dolorosa: strisciare sul fango ed evitare di impigliarsi nel fil di ferro, aggrovigliato su se stesso.
“Veloce, fai presa sui gomiti! Rotolati o trascinati, devi arrivare alla fine!”.
Quando ne uscì, si accorse di aver perso il berretto: era scarmigliata, aveva tracce di fango sul viso, sotto le unghie, sulle braccia (si era sollevata le maniche della casacca) e la sua divisa era in pessime condizioni, senza contare che non emanava esattamente un buon profumo.
“Sei talmente patetica che voglio porre fine a questo scempio prima di rigettare il pranzo: scavalca l'altura, fai le tue flessioni e poi infilati sotto la doccia”, aveva arricciato il naso, l'espressione di disgusto più accentuata che mai. “Puzzi da morire”.
Si morse il labbro, Brittany: forse era quello il momento di dirle che soffriva di vertigini?
Qualcosa le suggeriva che Kitty si sarebbe arrabbiata (ulteriormente) e l'avrebbe torturata fino a quando non avesse avuto abbastanza pietà per mandarla sotto la doccia. Strinse i denti ma, malgrado la rincorsa e la fune, non fu facile provare a scalare l'altura: il fango sulle mani rendeva la presa meno stabile e così anche gli scarponi non riuscivano a farla attecchire coi piedi, così da potersi sollevare. Con estrema fatica, il viso pallido e il respiro ansante (e le urla di Kitty ad assordarla) giunse sulla sommità dell'altura, una sorta di base rettangolare sulla quale restò a cavalcioni, nel tentativo di prendere fiato. E, soprattutto, di non guardare in basso. Stava tremando alla consapevolezza di essere sospesa a tre metri dal terreno.
“Se hai finito di cavalcare, scendi prima che ti spari e ti faccia cadere io”. Non era una minaccia da prendere a cuor leggero, malgrado non vi fosse un fucile in dotazione (ma era certa che avesse una mira da cecchino).
Fu istintivo, e un madornale errore, guardare verso Kitty: gli occhi azzurri si spalancarono alla vista del terreno che sembrava volerla inghiottire. Le girò la testa e si aggrappò con dita tremanti alla struttura stessa, gli occhi chiusi spasmodicamente e il respiro ancora agitato.
“Scendi, SUBITO!”.
“N-Non posso”, pigolò con voce strozzata.
Cosa hai detto, Pierce?”, sembrava incredula ma prossima all'ennesima lavata di capo per quel giorno.
“Soffro di vertigini”, rivelò con lo stesso tono pigolante e angosciato.
“Oh, questo cambia tutto, perdonami”, Kitty si era portata teatralmente una mano al petto e Brittany aveva sollevato speranzosa il capo: capace persino di sconfiggere la sua ritrosia, all'idea che avrebbe fatto qualcosa in merito. In un anelito più infantile, le porse il braccio.
“Puoi aiutarmi?”.
Kitty ne scacciò la mano con una smorfia e gli occhi iniettati di sangue. “Che cosa faresti se dovessi soccorrere una delle tue compagne e dovessi scalare quell'altura per raggiungerla? La lasceresti stramazzare per una tua inettitudine?!”.
“No”, borbottò, Brittany, quasi offesa della domanda. “Chiamerei aiuto”.
A quel punto Kitty sembrò vicina al punto di ebollizione: stava stringendo spasmodicamente il pugno e Brittany fu certa che, se l'avesse avuta tra le mani, avrebbe potuto disfarle i connotati. Sembrò impiegare un lungo istante per riprendere controllo di sé e sibilare un: “Scendi, subito”.
Brittany sospirò e provò ad assumere la posizione più corretta: mosse lateralmente una gamba per puntellarsi, stringendo spasmodicamente la fune ma, alla vista del terreno, tremò nuovamente e chiuse gli occhi.
“Molto bene”. Kitty lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. “Vorrà dire che scenderai da sola o creperai là sopra: per me non fa differenza”, si volse verso il plotone: sembrò che nessuna delle sue compagne avesse qualcosa da dire o tanto meno vi fosse qualcuno divertito. “Se qualcuna di voi osa avvicinarsi o aiutarla, se la vedrà direttamente con me: sono stata chiara?”.
Sguardi preoccupati, qualcuno di pietà e di empatia ma nessuno rispose. Kitty parve soddisfatta e, incredula, Brittany le guardò lasciare il campo, dopo che si furono disposte in una fila ordinata.
Era completamente sola. Spaventata, affamata e sporca.

Non seppe quanto tempo fosse passato: stava canticchiando qualche filastrocca nel tentativo di stemperare la tensione e nell'attesa che Kitty cambiasse idea o, almeno, mandasse Tina a recuperarla. O che qualcuno avesse il buon senso di avvisare Neal di ciò che stava accadendole. Se soltanto avesse avuto il suo cellulare con sé.
Poteva andare peggio di così? Si domandò.
Udì un tuono in lontananza e, l'attimo dopo, gocce di pioggia, sempre più intense le punteggiarono il viso come proiettili ghiacciati. Cercò di sollevarsi ma la vista del vuoto sotto di sé la paralizzò nuovamente e, ben presto, ai suoi disagi, si aggiunse il freddo e i tremori conseguenti.
Sgranò gli occhi quando scorse un gruppo di ragazzi che, incuranti del temporale, stavano disponendosi nel campo vicino e, tra questi, vi era proprio lui.
“FINN!”, lo chiamò con voce rauca ma il vento e il rombo dei tuoni resero quel tentativo vano. Provò più volte ma lo scroscio era sempre più violento e neppure mulinare le braccia sembrò essere d'aiuto: chi si sarebbe aspettato che vi fosse qualcuno intrappolato in una simile situazione?

~

“Ricordami perché siamo qui, Hudson, sotto la pioggia”.
La voce di Hunter sembrava un sospiro quasi stanco e rassegnato e il ragazzo, al suo fianco, stava letteralmente sudando freddo: lo sguardo volto in un punto indeterminato di fronte a sé.
Finn increspò la fronte, nel tentativo di ricordare le esatte parole che gli erano state abbaiate contro. “Perché sono un incapace, inetto, un crostaceo non sviluppato, privo della coordinazione mano-occhio e peso cento chili di stupidità repressa”, stava letteralmente contando gli epiteti sulle dita della mano, lo sguardo concentrato ma parve aver ricordato tutto. “Signore”, aggiunse.
“Precisamente”, commentò, Hunter, le mani dietro la schiena nello scrutarlo prima di scuotere leggermente il capo. “Stenditi: cinquanta flessioni e poi sparisci dalla mia vista”.
“Signorsì, Signore!”.
Levò gli occhi al cielo, Hunter, fece cenno al suo sottoposto, di contare e di controllarne la corretta esecuzione e lasciò vagare lo sguardo sull'immensità dei campi.
Talvolta era qualcosa che soggiogava la vista per la sua immensità e l'odore della pioggia sembrava rendere tutto ancora più naturale: come recuperare il contatto con la natura e riuscire a sondare dentro sé stessi. Riuscire a trovare quell'innesto di energia e di forza interiore, quella che neppure era data a conoscersi. Era qualcosa di affascinante il modo in cui il corpo umano potesse adattarsi alle situazioni e compiere movimenti che divenivano armonici, naturali. Ed era tutto perfettamente sotto il suo controllo, tutto andava esattamente come...
Sbatté le palpebre a più riprese: lo sguardo si era fatto più attento. Probabilmente si era soltanto trattato di uno strano scherzo della luce di un fulmine ma aveva avuto l'impressione di aver scorto un... qualcosa. Senza pensare, le sopracciglia corrugate, avanzò verso quella direzione: valicando il campo cui di solito Kitty faceva addestrare il suo plotone.
Non aveva sbagliato: effettivamente qualcosa si era mosso ma non avrebbe mai immaginato che, avvicinandosi, avrebbe potuto riconoscere una sagoma umana.
Si fermò al centro del campo, incredulo: la giovane, scorgendolo, si era drizzata. Malgrado fosse fradicia, sporca e stremata, il suo sorriso sembrò abbagliarlo almeno quanto la luce del fulmine, tanto era stato repentino e sincero.
Era ancora sconvolto nell'osservarla e si fermò ai piedi dell'altura, gli occhi sgranati. “Pierce”, la chiamò con voce strozzata. “Cosa diavolo-?”.
“Non riesco a scendere!”, gemette la giovane che, malgrado l'evidente sollievo, sembrava più tremane e spaurita che mai: una bambina abbandonata a sé stessa e timorosa. E le macchie sul viso del fango rappreso e i capelli sciolti e spettinati, sembravano accentuare quella somiglianza.
Ricordò vagamente che il plotone di Kitty si era addestrato lì quello stesso pomeriggio.
“Mi stai dicendo che è da – fece un rapido calcolo mentale – tre ore che sei là sopra?!”, continuava a scrutarla, come se si fosse trattata di una rara specie animale.
Parve indifferente, Brittany, alla rivelazione: evidentemente non erano quei dettagli a premerle in quel momento. “Non lo so, non ho l'orologio”, spiegò, alzando la voce per cercare di sovrastare lo scroscio dell'acqua. “Puoi aiutarmi, ti prego!”, sembrò supplicarlo, allungando il braccio in sua direzione.
Era ancora più interdetto, Hunter, ma prese una rapida risoluzione: con un movimento agile si arpionò alla fune e, apparentemente senza alcun disagio suscitato dalla pioggia che avrebbe potuto farlo scivolare lungo la superficie, in pochi movimenti la raggiunse sulla sommità dell'altura.
“Devi essere simpatica a Kitty”, commentò in tono incredulo, osservandola con occhio clinico, constatando se la permanenza prolungata, le avesse causato qualche danno collaterale.
“Tu credi? Pensavo che mi odiasse”.
Che avesse un calo di zuccheri? Hunter pensò fosse meglio non chiederselo e scosse il capo prima di assumere un'espressione più decisa. “Devi soltanto tenerti alla fune e lasciarti scivolare: ti controllerò io da quassù”.
Le porse la corda ma Brittany scosse il capo, decisa. “No, no! Vai prima tu, ti prego!”.
Il tono era stato così pigolante e supplichevole, così timoroso di un rifiuto che Hunter si domandò come Kitty avesse potuto prendere un simile e irragionevole provvedimento su di lei. Sospirò ma annuì. In normali circostanze (se fosse stata un ragazzo, magari) le avrebbe allungato uno spintone o urlato contro, ma era evidente che non si trattava di un capriccio o sarebbe già scesa da tre ore.
“D'accordo, ascoltami: non devi guardare in basso, lascia scivolare le gambe e calati molto lentamente”, la istruì con tono più paziente mentre le mostrava lui stesso ciò che le aveva descritto.
Parve ancora dubbiosa. “Ma-”.
“Dovrai farlo prima o poi”, aveva sospirato stancamente. “E se non sarà con me, sarà con Kitty stessa: scegli tu”.
Sospirò Brittany ma comprese ed annuì: con suo sommo terrore, Hunter era già sceso e giunto a terra ma le fece cenno di afferrare la corda ed imitarne i movimenti. Si muoveva lentamente, in modo timoroso ed incerto e lo sguardo del ragazzo la seguiva senza battere ciglio: sarebbe stato tutto molto più semplice se avesse superato quel primo e disastroso impatto.
“Lentamente, bene: sei quasi a metà”, le disse in tono rassicurante.
“Davvero?!”. C'era un entusiasmo infantile nel suo tono e, con disappunto di Hunter, si era voltata per constatare lei stessa quella verità, prima che avesse modo di impedirglielo.
La ragazza sbiancò letteralmente, la mano stretta spasmodicamente alla fune, aveva boccheggiato e tutto accadde in una rapida frequenza che non riuscì a controllare e tanto meno evitare. Si era sbilanciata troppo e aveva cercato di aggrapparsi nuovamente alla fune ma, complice la pioggia che ne rendeva la presa scivolosa, perse l'appoggio e cadde. Era stato un movimento istintivo quello di Hunter: le si era avvicinato per impedirle la caduta ma la giovane gli piombò addosso con lo stesso impatto violento di una cannonata.
Doveva aver battuto la nuca perché sentì la testa pulsare dolorosamente, nonché una certa confusione di pensieri, ma quando schiuse gli occhi, una sola immagine gli apparve nitida.
Limpidi occhi azzurri, innocenti e sgranati: il viso su cui il fango cominciava a colare come mascara, le labbra schiuse e l'espressione, seppur sorpresa e imbarazzata, era anche intrisa di letizia e di serenità. E constatando che gli stava ancora addosso, probabilmente non era una situazione... consona.
“Grazie, grazie: mi hai salvata!”, temette per un istante che stesse per abbracciarlo o ardire una qualche confidenza (come se stargli addosso così placidamente non fosse già indice di una prossimità decisamente fuori luogo) ma si limitò a passarsi una mano sul viso.
Emise uno sbuffo e si sollevò con il busto, facendo presa sulle mani sul terreno prima di inclinare il viso di un lato.
“Tecnicamente ho salvato l'altura che tu tenevi in ostaggio”.
Non era certo che quella osservazione polemica le facesse alcuna differenza e cercò di ignorare quella sensazione spiacevole di calore che affluiva al viso, malgrado fosse fradicio. Cercò di ignorare il modo in cui quel contatto aveva innestato un piacevole tepore, nonché la fragranza fin troppo dolciastra del suo profumo di fragola che riusciva a percepire malgrado l'odore ferroso della pioggia.
Inarcò le sopracciglia, in attesa che si scostasse: riusciva a sentire il suo corpo tremare e si disse che un tipino così delicato non fosse assolutamente idoneo a quel tipo di vita e dubitava che l'addestramento fisico fosse sufficiente se non fosse maturata psicologicamente.
“Sei stato gentile”, aveva sussurrato, probabilmente a mo' di giustificazione per quel ringraziamento tanto sentito ed entusiastico ma si era scostata e si era rimessa in piedi. Aveva sorriso con espressione trionfante al rivedersi appoggiata al terreno, prima di affrettarsi a porgergli la mano.
La ignorò e si rimise in piedi: sbuffò nell'osservare le macchie di fango sulla propria divisa.
“Mi dispiace”, doveva averne compreso la stizza e, morsicandosi il labbro, aveva cercato goffamente di rimuovergliele lei stessa: per quanto avesse potuto apprezzarne l'intenzione (ma lo stava davvero ancora toccando? Si era domandato, con espressione incredula), finì soltanto per sporcarlo ulteriormente.
“N-Non serve, ferma!”, le aveva preso la mano per istinto, con l'evidente intento di bloccarne l'iniziativa ma non seppe spiegarsi cosa fosse accaduto. Aveva sentito quelle dita fredde ed esili tremare nella sua stretta. Aveva sollevato il mento, la Pierce, e aveva gli occhi sgranati e gli parve di scorgere, laddove il viso non era coperto di fango almeno, un improvviso ed evidente rossore sulle guance.
Scostò bruscamente la mano e si schiarì la gola, calcando il berretto sul proprio capo e sistemandone la visiera.
“Dovresti rientrare”, avrebbe dovuto urlarle contro come avrebbe fatto con Coglion-Hudson ma non pareva legittimo, non quando appariva così vulnerabile.
“Sì”, annuì la giovane ma Hunter aveva sospirato.
“Vengo con te: voglio parlare con Kitty”.

~
Camminavano da una manciata di minuti ma il ragazzo non sembrava avere nulla da dire e Brittany lo guardò a disagio. Forse era ancora offeso per quanto successo quella mattina? O forse non le aveva ancora perdonato l'avergli sporcato la divisa (e l'essergli caduta addosso. Si era fatto male?).
“Scusa per stamani”, si arrischiò a dire pur di interrompere quel silenzio imbarazzante.
Il ragazzo sembrò confuso ed inarcò le sopracciglia con aria interrogativa, al che Brittany si affrettò a spiegarsi meglio. “Per quello che ho detto sul tuo papà: non volevo essere cattiva. Lui mi piace”. Aveva precisato, lasciando intendere che non era colpa di Mr Clarington, se insegnava una materia barbosa.
Scrollò le spalle, Hunter, e parve vagamente divertito. “Lo so che può risultare noioso quando spiega”, la scrutò a sua volta, un'espressione più critica ma incuriosita. “Ma almeno non mi costringe a stare qui: è una mia scelta”.
Brittany sentì uno strano singulto in petto ma si era accigliata. “Anche io l'ho scelto”.
Parve ancora più sorpreso, Hunter: aveva inarcato maggiormente le sopracciglia in un'espressione che Brittany aveva imparato a riconoscere fin troppo bene. Dopotutto, la guardava quasi sempre così. Ma non desistette dal volersi spiegare meglio. “Ho promesso di fare una prova, restando qui”.
Il cipiglio sul volto del Capitano si attenuò ma continuò ad osservarla critico. “Ammirevole”, aveva commentato in tono spiccio. “Ma credo sia ovvio che si tratti solo di uno spreco di tempo”.
Era trasalita, Brittany, e si era fermata bruscamente, incurante che l'altro stesse continuando ad avanzare verso l'edificio. “Credi che non sia adatta a questo posto?”.
Hunter, che si volse quando si accorse che non gli camminava al fianco, si avvide che sembrava volere una risposta sincera. “Credi di esserlo, onestamente?”, lo sguardo verde indugiò sulla divisa che, per il primo giorno, sembrava irrimediabilmente sgualcita e che avrebbe dovuto sostituire anche solo per presentarsi al rancio.
Si soffermò sul viso sporco e Brittany arrossì ricordando che Kitty aveva alluso al fatto che puzzasse. Ciononostante il fastidio cresceva e le stringeva lo stomaco. Non era decisamente lo stesso strano mal di pancia che aveva sentito quando l'aveva guardata dritta negli occhi o ne aveva stretto la mano.
Scosse il capo ma arricciò il naso. “Grazie per l'aiuto ma rientro da sola: la strada la ricordo”, si era sentita dire in tono educato ma che lasciava trapelare un'inedita volontà di tenerlo a distanza, nonché un formalismo che stonava con l'espressione di puerile fastidio che era tanto palese.
Lo sentì prenderle il braccio e lo guardò con occhi sbarrati: attese che mollasse la presa e strinse il pugno lungo il fianco.
“Non fare la bambina”, le disse in tono sospirato ma con quell'espressione composta ed insofferente.
“Io non sono una bambina!”, si era sentita strillare e la sua voce parve echeggiare nei campi distesi di fronte a loro.
Il ragazzo incrociò le braccia al petto, il viso inclinato di un lato e un sorrisetto divertito. Se almeno poteva esserlo, visto quanto sembrava sempre serio e composto. Di certo non sembrava essersela presa per il suo tono poco conciliante. “Disse, pestando i piedi”, sussurrò Hunter che gettò uno sguardo ai suoi anfibi.
“Io non-”, era arrossita e aveva osservato i propri piedi prima di scuotere il capo. “Buonanotte!” lo aveva salutato, infine, in tono rigido e formale prima di voltarsi con l'intento di ignorarlo.
Era rimasto a lungo immobile, Hunter, prima di scuotere il capo bruscamente e rientrare nell'edificio con passo imperioso.

Quaranta minuti dopo, anche dopo la lunga doccia rilassante e benefica, si sentiva ancora agitata: era probabilmente la prima volta che le parole altrui le suscitavano quel fastidio e quell'offesa. Impiegò molto tempo a pulirsi il viso su cui le macchie di fango sembravano essersi seccate, quasi a divenire permanenti. Molto altro a cercare di districare i capelli piedi dai nodi.
Era avvolta nell'asciugamano e stava ancora muovendo il pettine (tra un gemito e l'altro) quando, dallo specchio, scorse l'ingresso di Kitty: era furiosa e sembrava più decisa che mai mentre le si parava alle spalle. Prima che comprendesse cosa stava per accadere, Kitty l'afferrò per i capelli, costringendola a piegarsi in ginocchio. Un verso strozzato di dolore, gli occhi colmi di paura e di confusione.
“Un'altra parola con Hunter e giuro che ti affogo, mi hai capito bene, ochetta?”.
“Io non-”.
“Non provare a tornare a piangere da lui o dal tuo patrigno: qui siamo soltanto io e te. E ti giuro che questa me la pagherai cara”.
Tremava, Brittany, ma evidentemente quello era stato solo un avviso: l'aveva fatta cadere con uno strattone sul pavimento e soltanto quando Kitty si fu allontanata, dopo aver sbattuto la porta con violenza, si sollevò con il busto. Lentamente si appoggiò alla panchina dello spogliatoio: si strinse le ginocchia al petto e un roco singhiozzo le scivolò dalle labbra.
Sentì le lacrime che aveva trattenuto per tutto il giorno, scivolare copiose e non cercò neppure di fermarle: ripercorse quella terribile giornata e la consapevolezza che quelle successive non sarebbero state migliori, la fece tremare ulteriormente.
Kitty era persino convinta che aveva chiesto aiuto al ragazzo e sapeva che sarebbe stata persino più crudele e avrebbe dovuto affrontarla. Da sola. E voleva ignorare il pensiero che le parole di Hunter fossero più che veritiere e che avrebbe dovuto discutere con Neal e sua madre e arrecare loro, inevitabilmente, una delusione.
Continuò a dar sfogo a quelle paure, i singhiozzi più forti ma incurante del freddo e della fame, fino a quando non udì dei passi in avvicinamento. Si affrettò a tamponarsi goffamente il viso con le mani ma sospirò di sollievo quando riconobbe la sagoma di Marley.
“Ti ho cercata ovunque”, le disse in un sussurro delicato per poi accorgersi del suo evidente stato d'animo. “Cosa è successo?”. Le si era seduta accanto e l'aveva stretta in un caldo abbraccio, accarezzandole delicatamente la schiena e i capelli.
“Sfogati quanto vuoi”, le aveva detto e Brittany sentì qualcosa rompersi dentro di sé: era esattamente ciò che le diceva sua madre quando, da bambina, tornava da scuola raccontando dell'angheria delle bambine più prepotenti.
Non seppe quanto tempo fosse passato: si abbandonò a quel dolce calore e, lentamente, il suo corpo si distese e restò semplicemente con il viso appoggiato sulla spalla della ragazza, inspirandone il profumo fruttato. Quando si fu finalmente calmata, si scostò con un sorriso riconoscente.
“Non dire a nessuno che piangevo, per favore”, le aveva chiesto in tono angosciato e Marley le aveva stretto la mano rassicurante.
“Sei al sicuro con me”.
Aveva sospirato Brittany che si era abbandonata alla parete alle sue spalle. “Ha ragione lui, dovrei andarmene da qui, ma ho fatto una promessa”. Sembrava sconsolata su quella questione.
“Lui chi?”, le chiese Marley confusa.
Le raccontò di come era scesa dall'altura e di come Hunter era parso contrariato e desideroso di parlare con Kitty. Ma non avrebbe mai immaginato che le avrebbe rivolto un rimprovero o qualcosa di simile e che questo, inevitabilmente, l'avrebbe inviperita ulteriormente.
“Devi stare attenta: Kitty vuole Hunter da sempre e il fatto che lui non la consideri, non le giova all'umore”, era parsa pensierosa. “Ma è la prima volta che interviene per difendere una di noi”, la stava ora scrutando come a cercare di comprendere in che modo avesse fatto presa su di lui.
“Ma lui mi disprezza”. A differenza di quel mattino non c'era timore di non piacergli, quanto una polemica constatazione, legata a quell'ultima conversazione tutt'altro che piacevole.
“Io non credo e non lo crede neppure Kitty e questo è un bel problema”.
“Ma io non ho fatto niente”, aveva pigolato nuovamente, Brittany, stanca di quelle implicazioni. “Cerco solo di essere gentile con tutti”.
“Lo so”, le aveva sorriso dolcemente Marley. “Ma non tutti sono così”.
“Tu lo sei”, aveva ribattuto Brittany il cui viso, finalmente, si schiarì in un autentico sorriso. “E' bello averti qua”.
“Anche per me”, le aveva sorriso Marley che l'aveva stretta in un altro abbraccio.
Sospirò, Brittany. La vita in Accademia prometteva di essere persino più dura di quanto si sarebbe immaginata ma, malgrado tutto, vi era qualcuno che sembrava davvero credere in lei.

To Be Continued...


Capitolo più corposo ma era necessaria una piccola introduzione sull'aspetto più “tecnico” della mia interpretazione della vita militare. Prometto che nei prossimi capitoli ci si soffermerà di più sugli aspetti relazionali ma credo che questo già abbia fornito qualche spunto di riflessione sulle psicologie dei personaggi e sul tipo di relazione che si creerà tra loro :)
Ringrazio, come sempre, coloro che leggono e seguono questa fanfiction, in particolare le splendide fanciulle che allietano questo appuntamento con le loro recensioni e riflessioni che apprezzo più di ogni altra cosa :D

Una piccola anteprima del prossimo capitolo:
E' molto sexy. E così è quello il Capitano”. “Dei ragazzi”. “Potresti infiltrarti”. “Mamma!”.
Come sei formale, Hunter, sono sicuro che che non le dispiaccia esser chiamata per nome”.
Da quando l'essere una famiglia è definito da una scelta scolastica?” “E tu, allora? Non lo hai fatto per tuo padre?”. “E' il mio posto”. ”Eppure non sembri felice”.

Grazie dell'attenzione e buon week end a tutti! :)
Kiki87











   
 
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