Quarto capitolo
Come divenni merce e Giovanni I mi salvò da Firenze
«Nel 1330 li lucchesi, vedendosi cosi assediati, e vedeansi perdere lo contado, deliberarono di non voler essere sotto lo Comune di Firenze; ma di darsi a qualche signore che gli aiutasse, e difendesse dai Fiorentini»
[Anonimo Pistoiese, Istorie pistoiesi, dal MIII al MIIIXLVIII.]
Castruccio morì il 3 settembre
del 1328 nella sua
Fortezza Augusta, passato poco tempo dal suo ritorno da Roma dove
aveva assistito all'incoronazione del suo imperatore (Ludovico il
Bavaro), nel suo studio, febbricitante tra le carte di una nuova
guerra contro Firenze. Era invecchiato, non era più il
giovane
condottiero di una volta e mai come in quegli ultimi suoi giorni mi
fu chiaro il peso della mortalità umana e, di riflesso, del
destino
di pressoché immortalità che attende, a
metà tra una benedizione
ed un maleficio, tutte noi nazioni.
Mi dissero che era stato colto da febbri malariche nella
notte; più probabilmente fu avvelenato.
Non voglio sapere la verità di questo avvenimento,
giacché una fine infame guasterebbe il suo onore che io
voglio
mantenere per sempre puro, bianco e rosso del sangue versato nelle
nostre vittorie.
Ricordo che dopo la sua morte rimasi giorni come persa,
invischiata in un sogno da cui stentavo a risvegliarmi. Nella mia
mente di giovane donna, ancora invasa dagli incerti desideri
dell'adolescenza, immaginavo che Castruccio avrebbe potuto guidarmi
per sempre sulla via della potenza, che al suo fianco avrei raggiunto
la bellezza di Firenze per andare oltre, dritta verso lo splendore
dell'immensa Roma. Invece lui era morto, come ogni uomo, ed ogni mio
sogno si era risolto in polvere fra le mie mani tremanti.
In realtà non ebbi tempo di lamentarmi troppo e di
portare adeguatamente il lutto, dato che lo scorrere del tempo
tornò
subito a sommergermi, e nel peggior modo possibile.
Nei primi giorni della morte avevamo deciso
in via
cautelare, sotto consiglio dello stesso defunto prima della sua
dipartita ,di tacere sul doloroso avvenimento fino a che quel
testardo di Pisa non si fosse arreso al fatto che io sarei stata la
sua Padrona per lungo tempo a venire ed avesse accettato come suo
signore il figlio di Castruccio, Arrigo(nome che all'epoca
però
utilizzavo poco, preferendogli il soprannome di “il
Duchino”).
Il piano era buono e avrebbe potuto compiersi senza
troppi inghippi, senonché accadde (come spesso accade nei
momenti
più delicati) l'imprevedibile; lo stesso imperatore che
aveva tanto
amato Castruccio, Ludovico il Bavaro, messo a conoscenza della morte
di Castruccio, calò su di noi e prese possesso di Pisa con
grande
piacere nella disgrazia di quest'ultimo, poi si abbatté su
di me
come un fulmine, non dando tempo né a me, né agli
anziani che
avevano tanto ben consigliato Castruccio nel governo, né ad
alcun
altro di decidere il da farsi.
Gli anni che seguirono furono talmente tanto ricchi di avvenimenti, scontri, sotterfugi, rivolte e battaglie che stento a discernerne una cronologia; le date si accalcano davanti ai miei occhi sempre più miopi, ballano, ora più vicine, ora più lontane, si accavallano in un mare di grida, denaro e sconvolgimenti. E' la prima volta che cerco di trovare davvero un ordine a quello che è successo e spero di riuscirci, ma anche se l'accuratezza storica venisse sommersa dalle sensazioni che si affollano sempre numerose nell'operazione di riesumare ricordi lontani chi potrebbe avermene a male? Nessuno leggerà quello che sto scrivendo ed anche se qualcuno lo facesse in un futuro categorizzerebbe tutto questo come il diario di una pazza, e nessuno si è mai occupato dell'ordine mentale di una povera pazza.
Dicevamo:
L'imperatore, dopo avermi conquistato, sotto
la spinta dei suoi cavalieri fedeli ai Castracani, permise ad Arrigo
di aver parte alla mia vita politica ma egli si mostrò
incapace di
sedare le lotte tumultuose che si erano sollevate alla morte del suo
illustre padre.
Ricordo l'opprimente senso di già visto che mi aveva
colto in quei giorni, come fossi tornata ai non troppo lontani tempi
dei Bianchi e dei Neri; con nomi ed idee diverse, quello sì,
ma con
il medesimo odio ed gli stessi morti, ora in nome dei Castracani e
dei Di Poggio-
Fu quasi con sollievo che quella prima volta mi feci
vendere dall'Imperatore, gli occhi ben saldi in quelli azzurri
dell'Impero bambino ed il pensiero alla pace che avrei riottenuto
mentre Ludovico porgeva 22.000 fiorini a Francesco Castracani,
fratello del mio defunto signore.
Inginocchiata di fronte alla magnificenza dell'Impero
Germanico in cuor mio speravo che la cupidigia che muoveva il mio
cuore sempre in nuovi e più proficui affari e la cupa
testardaggine
che spesso mi aveva impedito di agire realmente per il bene dei miei
concittadini e della mia bottega non animassero nel medesimo modo
l'animo di Arrigo e pregai a lungo per questo, perché la sua
umiltà
alle autorevoli decisioni dell'Imperatore significavano vita e pace
nelle mie contrade.
Purtroppo il Duchino aveva troppo ben
assimilato
l'essenza del mio carattere e, incurante di cosa realmente mi avrebbe
portato giovamento, totalmente preso dall'opera di recupero del
potere che gli era stato tolto, fino alla morte impedì la
mia
pacificazione, anche sotto le dominazioni straniere. Non che le
stesse città e signorie a me vicine non tenessero alla mia
conquista!
Nello stato precario in cui mi trovavo ero divenuta una
pregiata mercanzia in balia del miglior offerente e non
passò molto
tempo prima che anch'io me ne rendessi conto.
Ad ogni modo, in aiuto di Arrigo accorse Marco Visconti,
fratello del più noto Galeazzo.
Egli era stato da sempre un valente alleato di
Castruccio e non si era fatto pregare per correre in aiuto del figlio
del suo compagno, anche perché questo equivaleva ad
allargare
l'influenza dell'emergente Milano in Toscana.
Scese in Toscana quasi nello stesso momento in cui
l'Imperatore se ne andava, portando con sé il rappresentante
della
sua città, e riuscì a penetrare facilmente
attraverso le mie mura
grazie alle amicizie che aveva allacciato con la guarnigione tedesca
di stanza nella Fortezza Augusta.
Era il 15 Aprile 1329 quando il Visconti prese il potere, portando al suo fianco il piccolo Milano.
Il suo nome umano era Francesco Castelli e
a quei tempi
dimostrava qualche anno in meno rispetto a me, ma già era
visibile
il suo carattere preciso ed ombroso sotto alla patina di gentile
reverenza che mi accordava per la mia doppia differenza di essere
più
grande di lui e per di più donna. Da piccolo doveva essere
stato un
bel bambino, di quelli intelligenti e restii alle coccole e gli
abbracci, nel momento in cui lo conobbi aveva lo sguardo attento e
duro di un adulto nonostante le guance ancora piene dimostrassero che
era poco era passato dalla sua entrata nell'adolescenza, gli occhi
non particolarmente grandi brillavano però di una luce
particolare
quando leggeva certi enormi tomi che si era portato dalla sua patria.
Erano verdi come l'erba nuova in primavera, di un verde intenso che
credo possa essere pari solo a quello delle iridi di Inghilterra
-solo per questo posso comprendere l'amore distorto che Francia prova
per il Regno Unito; è difficile vedere occhi di tal fatta e
non
rimanerne abbagliati.
Il resto in lui era piuttosto comune d'altro canto;
aveva capelli corti e castani, ordinati con un attenzione eccessiva
persino per una donna (almeno una donna poco interessata alla cosmesi
come me, non certo per Firenze), una corporatura non massiccia come
quella di Pisa né dinoccolata come quella di Genova (che
ebbi
l'occasione di scoprire fosse sua cugina), modi di fare attenti e
rispettosi.
Condividevamo la
miopia e questa comunione nell'odioso
difetto di vista ci avvicinò molto, nel poco tempo in cui
condividemmo casa mia senza litigi.
Contrasti che sopraggiunsero non molto tempo dopo,
quando Marco palesò finalmente i suoi intenti: voleva
vendermi a
Firenze con la clausola del suo impegno a non maltrattare i parenti
del Castracani.
Rimasi esterrefatta a quell'annuncio, immobile e
tremante come se mi avesse colpito una pugnalata.
Poi, infuriata come solo ero stata con Pisa, assalii
Francesco ed il suo signore.
Come avevano potuto dare un annuncio così senza nemmeno
chiedere il mio parere? Con che onore sarei potuta andare a testa
alta per la strada dopo essere stata venduta alla mia peggiore
nemica? Con che coraggio, dopo averla tanto duramente umiliata, avrei
potuto consegnarmi a lei umile e sottomessa?
Mi vedevo già perduta, trattata come la peggiore delle
serve, io, sempre orgogliosa e restia ad un governo diverso da quello
che io stessa mi imponevo, usata come straccio, costretta alle
peggiori umiliazioni. Passarono giorni prima che la risposta di
Firenze circa la mia cessione arrivasse ed ogni minuto che passava mi
era doloroso, lo passavo nel più ostinato mutismo nei
confronti di
tutti, passeggiando ansiosamente da un capo all'altro della mia
stanza; solo contare il denaro riusciva a rilassarmi. Poi una mattina
arrivò l'agognata lettera: Angelica, nella sua bella
scrittura
svolazzante, disdegnava un' offerta così incresciosa e la
rispediva
al mittente con tanti saluti. Leggendo meramente le sue parole vi si
poteva leggere un disprezzo per il vile denaro che gli veniva offerto
dai milanesi, io dentro di esse vidi però l'orgoglio di una
città
che avrebbe conquistata la sua vendetta solo tra il fuoco di una
battaglia. Un brivido come di felicità e paura allo stesso
tempo mi
attraversò tutta mentre con fare sprezzante consegnavo la
missiva al
fratello del signore di Milano, che con rabbia la gettò nel
camino.
Mi avrebbe venduto comunque a qualcun
altro, dato che
non poteva trattenersi più a lungo nella mia
città, già lo sapevo,
ma sono sempre stata dell'idea che il proprio onore possa ben essere
venduto con i lontani se è preservato intatto per i vicini.
Con
questo spirito venni venduta ad un genovese, tale Gherardino Spinola,
e ciò mi permise di conoscere la Repubblica di Genova
direttamente e
non solo attraverso i racconti distorti di Pisa.
In realtà vidi solo una volta quella ragazza, da
lontano e dal mare vicino Luni, il giorno in cui mi portò il
mio
futuro signore, ma fu un momento significativo per me,
tant'è che ne
conservo un distinto ricordo. Era in piedi sulla poppa della nave, il
volto fieramente alzato verso di me con occhi beffardi, le vesti
macchiate dal salmastro e maschili che poco si confacevano ad una
signora, pur tirchia che fosse; l'unica nota di femminilità
era
composta da una semplice spilla che a stento raccoglieva i lunghi
capelli neri in una crocchia non curata. A quella vista toccai
istintivamente la mia lunga treccia ed il mio vestito semplice ma
decoroso, sentendomi un'immensa stupida. Cosa me ne facevo della mia
presentabilità ed attenzione di fronte ad un essere che da
ogni poro
pareva gridare “questa è
libertà”?
In confronto a lei mi sentii piccola piccola, misera e
gretta come poche volte nella mia vita.
Subito però mi avvidi dei segni
che l'avarizia avevano
lasciato su di lei, gemelli ai miei: le vele della nave sdrucite ai
bordi, la polena scrostata in più punti, i marinai non
così solari
ed impegnati come mi erano sembrati, ma più accigliati e
poco
soddisfatti del lavoro che gli toccava di fare (o più
probabilmente
del salario che gli sarebbe arrivato da questo), l'aria poco
rispettabile e signorile di quel Gherardino che pure aveva fama di
essere un grande capitano di ventura. Quei piccoli difetti che come
crepavano l'immagine di cristallina imperturbabilità che in
un primo
momento mi ero fatta di Doria mi fecero sentire meglio e potei tirare
un sospiro di sollievo; con nuova grazia e decisione, poi, la scrutai
dall'alto con i miei occhi d'ossidiana.
Tra di noi nulla ci fu di più che uno scambio
d'occhiate, eppure non posso fare altro che ricordarla caramente,
come un'amica di un tempo ormai andato, tutto in virtù della
nostra
comune passione e croce; l'accumulare tesori e lasciare che mettano
polvere nella nostra adorazione.
Anche per questo fui subito ben disposta verso il mio
nuovo capo e riuscimmo in poco tempo a riportare la mia
città ed il
contado ad un aspetto perlomeno apprezzabile: i commerci riebbero
fiato ed i mestieri del banchiere e del mercante (di conseguenza) un
nuovo impulso; in quei tempi la famiglia dei Guinigi prese piede
più
di altre ed ottenne il mio favore, il che mi fa sorridere
perché da
essa sorse poi l'ultimo che può vantarsi del fatto di avermi
governato: Paolo Guinigi.
Quel periodo fu buono, rispetto a quelli precedenti, e Firenze colse subito il momento in cui ero ancora debole eppure più fiduciosa e quindi meno attenta. Quando mi accorsi dei suoi piani già aveva invaso il mio contado ed inutilmente progettai piani di difesa ed inviai lettere di aiuto a varie mie conoscenze; avrei persa per sempre quella parvenza di indipendenza che possedevo se non avessi saputo cogliere al volo la possibilità di essere mercante di me stessa, cosa che riuscii a fare altrimenti, credo, sarei morta già da un pezzo.
Fu così che, mentre l'assedio alle mie mura era già in stato avanzato e le vivande iniziavano a scarseggiare ed ondeggiavo tra il desiderio di suicidarmi per aver salvo l'orgoglio o consegnarmi ai nemici per salvare più vite possibili, un certo Giovanni I re del Lussemburgo si trovava a passare in Toscana per sbrigare certi affari a Brescia ed io colsi l'occasione al volo per inviare la mia ultima e più accorata richiesta di aiuto. Giravano voci che il rappresentante del Lussemburgo, un tale Raymond, fosse uomo di una certa lussuria e per questo tentai l'ultima mia carta: in cambio di aiuto vendevo me stessa. Con orrore per quello che stavo facendo, sentendomi sporca come se fossi stata immersa nello sterco fino al collo, inviai quel messaggio e grazie a Dio il re venne e ruppe l'assedio, liberandomi.
Mi vergogno di quello che feci quella sera, alla luce dei fuochi negli accampamenti regi posti tutt'intorno la mia cinta muraria, ma non me ne pento, come non penso faccia la maggior parte delle città e dei paesi che hanno il piacere di essere del gentil sesso; le puttane sopravvivono quando le vergini vengono sacrificate e quel Raymond era bello come un principe delle fiabe.
Cose ben peggiori di queste attendevano l'Europa e quante volte ritornai a quella sera con nostalgia!
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NOTE: Come al solito tutto è reperibile sulla Treccani e su Wikipedia (anche se meno dettagliatamente). La treccani in particolare alla voce Arrigo Castracani degli Antelminelli. Ammetto che ho fantasticato sul motivo per cui l'Imperatore del Lussemburgo abbia voluto intervenire per salvare Lucca ed ho trovato che hetalianamente parlando questo sarebbe potuto andar bene :).
L'ultima frase prefigge l'arrivo della Peste Nera e Milano si chiama Francesco in onore di Francesco Sforza.