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Autore: LoonyW    05/10/2013    1 recensioni
“Provò, come ogni volta che si guardava allo specchio, un moto di disprezzo verso sé stessa.
Quanto sei prevedibile, si disse Lucy, un’adolescente problematica che per non affrontare i problemi si droga. Sembri uscita da un documentario sulla nuova generazione.”
Il drastico cambiamento della sedicenne Lucy attira solo critiche e giudizi superficiali; nessuno comprende fino in fondo il peso del segreto che Lucy si porta dietro ogni giorno, da quando la sua vita è cambiata.
E se a volte convivere con le proprie colpe non è possibile, allora bisogna trovare una drastica quanto impossibile soluzione.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Behind her eyes
 
 
 
 
 
 
Neppure il tuono riuscì a scuotere Lucy, in bilico tra il vuoto e la cenere della sigaretta che si stava consumando lentamente tra le sue dita. Era in un’altra dimensione, oltre la pioggia che stava osservando, oltre il freddo e la pelle d’oca sotto i vestiti leggeri, oltre il parco deserto in cui si era rifugiata. Lucy era così: era oltre, ma non nel senso positivo che si potrebbe immaginare. Oltre le buone maniere, oltre la gentilezza, oltre le speranze.
Tutti si chiedevano cos’avesse che non andava, quella ragazzina che sembrava perennemente in un’altra dimensione. “Affascinante?!” si indignavano le ragazze della sua scuola “è semplicemente troia”. E come dar loro torto? Lucy non conosceva più lealtà, giustizia, senso dell’onore… viveva come le capitava, senza rendersi conto di ferire qualcuno. Tutto, perché si sentiva così abbandonata a sé stessa.
«Ciao, bambina»
Non i tuoni e i rombi degli aerei, ma la voce di suo padre riuscì a strapparla dal torpore, quello stato di trance in cui Lucy cadeva spesso, assorta in pensieri profondi e nocivi.
La ragazza non rispose, facendo un altro tiro alla sigaretta che stava ormai finendo. Suo padre la guardò e sospirò, volgendosi poi avanti, cercando di individuare il punto in cui era diretto lo sguardo della figlia. Quanto avrebbe dato per riuscire a capirla, per poter vedere anche lui ciò che lei guardava, o almeno per guardarlo insieme. Era giovane, John, per avere una figlia sedicenne, e non era facile: erano in due a dover crescere. John si sfiorò la barbetta ispida che stava ricrescendo, e rivolse uno sguardo contrito alla figlia, sperando di ottenere la sua attenzione.
«Lucy..» sussurrò «prenderai freddo. Sei vestita leggera»
Per tutta risposta, Lucy si guardò le gambe scoperte, sfiorando il pantaloncino di jeans che aveva indossato nonostante fosse già Ottobre inoltrato. “Guarda che puttana” avevano riso delle ragazze per strada, vedendola passare con quei vestiti estivi; ma Lucy non rispondeva a nessuno, nemmeno a sé stessa.
Un lampo illuminò i visi dei due, seduti a terra al riparo di una costruzione di marmo. I capelli chiari di John brillarono per un attimo, spegnendosi nel buio, e l’uomo trasalì di spavento. «Lucy..» la chiamò di nuovo, invano.
La ragazza si alzò di scatto, buttando ciò che rimaneva della sigaretta a terra e spegnendola definitivamente con la scarpa. Poi, senza nemmeno rivolgere una parola al padre, si lanciò fuori dal loro riparo, correndo sotto la pioggia, senza meta, senza parole, senza una logica, sotto lo sguardo attonito di John che la chiamava.
Lucy corse senza sosta e scavalcò il cancello ormai chiuso, decisa ad allontanarsi dal mondo intero, per ritrovarsi nel punto in cui tutto finalmente sarebbe finito.
Camminò per un po’ senza badare alle strade che percorreva, incurante della pioggia che le inzuppava i vestiti e i capelli, sotto sguardi indifferenti, incuriositi o ostili ma senza fare caso ad essi. Lucy non si faceva domande, si limitava ad andare avanti, senza immischiarsi o farsi coinvolgere.
«Hey, bambina, cerchi compagnia?» disse prevedibilmente un uomo sulla trentina, affacciato a un bar con una sigaretta in mano.
«Stasera non mi va» rispose atona Lucy, senza malizia. Sentì a malapena un commento su di lei e un altro commento di una voce femminile sui suoi vestiti da puttana, ma ci era così abituata che se ne dimenticò subito.
Quando si accorse di stare tremando, decise di rifugiarsi a casa di Beth, la sua unica amica.
Imprecando contro la pozzanghera in cui era appena finita, Lucy saltellò gli ultimi metri e suonò infreddolita al citofono del vecchio palazzo fatiscente in cui Beth abitava.
«Pronto?» rispose una voce civettuola e allegra.
«Sono io»
«Ti apro, dolcezza»
A Lucy scappò un sorriso accennato per il perenne buonumore della sua amica. Salì le scale di fretta, desiderando il caldo dell’appartamento. Alla porta, Beth aprì vestita con una vestaglia lilla, i capelli biondi sciolti e spettinati e un gran sorriso sul viso tondo.
«Passavo di qui» spiegò Lucy, entrando nell’ingresso e sgocciolando acqua sul pavimento.
Beth la guardò qualche secondo, poi senza fare domande disse che le avrebbe subito preso degli asciugamani e altri vestiti. Passando davanti lo specchio dell’ingresso, Lucy si ritrovò davanti la sua immagine scompigliata, sporca, disordinata: i capelli castani, con la riga al centro, scarmigliati e zuppi, un po’ di trucco scuro colato sulle guance, le occhiaie, le labbra screpolate. Provò, come ogni volta che si guardava allo specchio, un moto di disprezzo verso sé stessa. Sapeva di non essere bella. Non quanto Beth, per lo meno. Ma era allo stesso tempo conscia dell’attrazione che i ragazzi provavano verso di lei, sebbene fosse solo superficiale e momentanea: bastava avere a che fare con lei per più di mezz’ora, per scoprire che era il tipo di ragazza che nessuno avrebbe voluto. I ragazzi la usavano e basta, Lucy lo sapeva. E anche lei usava loro, per sentirsi meno sola per un’ora. Poi tutto tornava come prima.
Beth tornò dal bagno con degli asciugamani azzurri e morbidi.
Lucy le rivolse un sorriso a labbra strette –più di quanto sarebbe mai riuscita a fare con chiunque altro per esprimere la sua gratitudine. Beth si buttò di peso sul letto dalle lenzuola fucsia e si allungò per cercare qualcosa nel comodino, mentre Lucy si tamponava i capelli e si liberava dei suoi vestiti bagnati, freddi e totalmente neri, che contrastavano con i colori della stanza della sua amica.
Beth si rialzò e porse a Lucy una bustina con della polvere bianca. «Ne vuoi un po’? ti vedo parecchio giù»
«Stasera no, non mi va».
Beth annuì e la ripose nel cassetto. «Ti va di raccontarmi cos’è successo?»
Lucy incontrò gli occhi castani della sua amica, così disarmanti e convincenti, e non riuscì a nascondere quello che seppelliva ogni giorno dietro quintali di indifferenza, dietro una patina di freddezza e un comportamento da quella che gli altri definivano ragazza facile. Avevano ragione, certo. Ma come potevano giudicarla e condannarla, se non sapevano il perché di quell’atteggiamento? Nessuno di loro aveva mai pensato che Lucy sentisse il bisogno di comportarsi in quel modo?
«Hey» sussurrò Beth quando vide una lacrima scendere sulla guancia di Lucy, impietrita. «Non importa, Lucy, non c’è bisogno di parlare» la rassicurò abbracciandola e cullandola dolcemente.
Lucy avrebbe voluto ribattere che lei aveva un immenso bisogno di parlare, ma puntualmente le parole le morivano in gola, uccise dai sensi di colpa e dal disgusto per sé stessa, per quella che era e che aveva fatto.
Qualche minuto dopo, entrambe erano stese vicine sul letto, addormentate. Ma mentre il sonno di Beth era tranquillo e profondo, quello di Lucy era irrequieto e agitato, e poco dopo si svegliò, preda di incubi che non riusciva a ricordare.
Per non svegliare l’amica, Lucy si alzò e fece un giro in cucina, bevendo un sorso d’acqua dal rubinetto e fumando un’altra sigaretta. Socchiudendo gli occhi per il fumo, lo sguardo le cadde su un pacchettino semi nascosto sotto un giornale. Lucy scansò la rivista e si rigirò tra le mani gli acidi colorati e invitanti. Ci rifletté per diversi minuti, finendo la sigaretta, e alla fine decise che era ciò che ci voleva per rilassarsi e svagare la mente.
Quanto sei prevedibile, si disse Lucy, un’adolescente problematica che per non affrontare i problemi si droga. Sembri uscita da un documentario sulla nuova generazione.
«Sono un fottuto cliché» disse Lucy ad alta voce, sorridendo all’idea.
La piccola pasticca sembrò dirle “mangiami”, come in Alice nel Paese delle Meraviglie, e Lucy non se lo fece ripetere. Ingoiò l’acido e se ne andò sul balcone a fumare, in attesa.
Il quartiere dove si trovava l’appartamento di Beth non era tranquillo: spesso si udivano urla, bestemmie, insulti, scoppi, rumori pesanti, a volte spari. E, ovviamente, le sirene: polizia, ambulanze, vigili del fuoco. Lucy capì che le allucinazioni erano cominciate quando sentì una sirena suonare, sempre più vicina, finché le sembrò talmente vicina da averla sotto di sé. Guardò alle sue spalle e trovò una sirena -in carne e squame, con la coda e tutto il resto- seduta sul divano del salotto, con in testa la luce rossa lampeggiante che segnalava un’emergenza.
«Oh, cielo..» commentò Lucy.
«Allora, Lucilla…» disse la sirena, accarezzandosi i capelli ramati che le coprivano non interamente il seno nudo. «Stasera sei tu l’emergenza, non un rapina, né un malore né un incendio»
«Sei una sirena psicologa?» chiese Lucy sarcastica.
La sirena le sorrise con dolcezza. «A te non serve una psicologa, Lucy». Schioccò le dita, e il pavimento tremò, fino a cedere. Lucy cadde nel vuoto, scendendo tra i piani del palazzo e passando tra gli appartamenti di persone sconosciute. Nella caduta, riuscì ad intravedere scorci di vite qualunque, due vecchietti che dormivano, un cagnolino che mangiava, una madre che si prendeva cura del figlio, due adolescenti che scherzavano, un impiegato che preparava la borsa di lavoro.
Quante cose che sto perdendo.
Atterrò su un prato, sbattendo il fianco destro piuttosto dolorosamente. Con incredibile lucidità, Lucy si chiese se nella realtà fosse davvero caduta da qualche parte. L’erba sbiadita e a chiazze non tardò ad essere riconosciuta da Lucy. Ci sono posti che non si possono dimenticare, particolari che non scivoleranno mai nell’oblio, per quanto ci sforziamo.
Era finita nel cimitero dove era sepolta sua madre. Davanti a lei, la lapide recitava il suo nome e le date di nascita e di morte, risalente a un anno e mezzo prima.
«Ciao, mamma» salutò Lucy.
La foto impressa sulla lapide si mosse appena, poi le labbra della madre si aprirono. «Ciao, Lucy. È un po’ che non ci vediamo»
Lucy fu a malapena colpita dall’idea che la foto stampata sulla tomba di sua madre le stesse parlando: era perfettamente conscia che nulla era reale, ma non riuscì a reprimere un brivido.
«Non ho avuto molto tempo per passare a trovarti..» si giustificò Lucy, inginocchiandosi sulla terra bagnata e giocherellando con i fili d’erba.
Il volto di sua madre cambiò espressione. «Non c’è bisogno di mentire qui, Lucy. Ricordati che sono morta»
Lucy alzò lo sguardo su sua madre, stupendosi di vederla esattamente come la ricordava: il viso severo, con qualche ruga, i capelli lisci con la riga al centro, il neo vicino la bocca dal taglio drammatico.
«So che non hai nulla da fare e spendi le tue giornate nel peggiore dei modi, bambina mia» continuò sua madre, senza tono polemico o sguardo accusatore.
«Non so cos’altro fare, mamma» spiegò Lucy, rabbrividendo per il freddo e la pioggia che continuava a infradiciarla.
«Ti senti in colpa» disse sua madre. Lucy non capì se era un’affermazione o una domanda, ma in cuor suo sapeva che la risposta era sì.
Un’improvvisa luce l’accecò.
«Non esserlo, Lucy» furono le parole che riuscì a sentire, prima di essere travolta da una serie di flash che la portarono via.
Si ritrovò nel bel mezzo di una strada deserta, in pieno giorno, ma ancora sentiva i flash, gli scatti delle macchine fotografiche, i paparazzi, i giornalisti. Barcollando, Lucy sbatté al tavolino di un bar sul marciapiede, quasi travolgendo il manifesto di metallo dove venivano pubblicate le notizie del giorno.
“ASSASSINIO IN CASA” recitava il cartellone “figlia uccide la madre facendolo passare per incidente”.
Il cuore di Lucy si fermò per un attimo, poi il vento si alzò e un giornale rotolò fino ai suoi piedi, arrampicandosi sulle sue gambe e gridando a voce alta: «Tu l’hai uccisa, tu l’hai uccisa!»
La strada deserta si riempì di paparazzi che attorniarono Lucy, con domande su domande, opprimendola, strattonandola.
«È stato un omicidio premeditato?»
«Lei odiava tanto sua madre?»
«Ha dei sensi di colpa?»
«Verrà condannata a morte per questo?»
L’urlo di Lucy non riuscì a farli tacere, ma il vento si alzò ancora più forte e una scia di giornali accartocciati la portarono via, liberandola dai giornalisti e facendola librare nel cielo. Ci fu qualche secondo di pace, volando nel cielo grigio, da dove poteva vedere tutta la città. Poi precipitò nel vuoto, veloce come una palla da bowling, chiedendosi quanto si sarebbe fatta male quando sarebbe atterrata.
Con sua sorpresa, cadde dolcemente su una poltrona. Prima di poter tirare un sospiro di sollievo, realizzò di trovarsi in un aula di un tribunale.
«L’imputata si alzi» dichiarò il giudice, quando finalmente vide che era arrivata.
«Io non ho fatto niente» tentò di dire Lucy, tremando.
Una delle guardie al suo fianco, vestito da pinguino, afferrò Lucy per il braccio e la costrinse ad alzarsi.
«Lucy MacDonald, sei accusata di omicidio della tua ormai defunta madre. Hai qualcosa da dire a tua discolpa?»
Lucy guardò terrorizzata il giudice, la cui parrucca si ingrandiva di secondo in secondo. «Questo non è un vero processo. Non è così che funziona. Io sto solo sognando»
«Conferma, dunque, di essere responsabile della morte di sua madre?» domandò con soddisfazione il giudice, mentre la giuria prendeva nota.
«No, è stato un incidente!» strillò Lucy con tutte le sue forze «e la sua parrucca sta per scoppiare!»
«Colpevole o innocente?» chiese il giudice, rivolgendosi verso la giuria con la  parrucca che ormai toccava il soffitto.
Solo in quel momento Lucy si rese conto che la giuria era costituita di persone travestite da animali: elefanti, giraffe, antilopi, leoni e leonesse, zebre.
«Colpevole» dichiararono tutti in coro.
Il giudice batté il martelletto, e le luci si spensero. Apparve una grande proiezione al lato della sala. Lucy la riconobbe subito: quel cartone animato la ossessionava da più di un anno.
Mufasa stava cercando di salvare suo figlio Simba dalla carica degli gnu.
«Colpevole» mormorò qualcuno nella sala.
«No» si difese Lucy «no, non è vero»
«No, non è vero» ripeté Simba sullo sfondo, mentre lo zio Scar lo accusava della morte di suo padre.
«È stato un incidente» dissero Lucy e Simba nello stesso momento.
«Tua madre è morta a causa tua, per la tua sbadataggine, Lucy» mormorò una voce viscida alle sue spalle «se non avessi lasciato il gas acceso, non ci sarebbe stata nessuna esplosione. Tua madre non sarebbe morta, Lucy»
«NO!» piagnucolò Lucy, alzandosi di scatto dalla sua poltrona, mentre i membri della giuria si alzavano e gridavano “colpevole!” in coro. Una pioggia di gavettoni si scaraventò su Lucy, che corse fuori dalla stanza, avvolta da una luce accecante che la trasportò via di nuovo.
Era tornata nel cimitero, ma non pioveva più. Lucy si accasciò a terra e poggiò la fronte sul terriccio asciutto, distrutta dal senso di colpa, dal disgusto che provava verso sé stessa, verso il rimpianto che ogni giorno sentiva per sua madre. Non riusciva a dirlo ad alta voce, ma la giuria aveva ragione: lei era colpevole. Se non avesse lasciato il gas della cucina acceso, sua madre, tornando da lavoro e accendendo la luce, non sarebbe saltata in aria insieme a tutto l’appartamento. Ma ogni giorno era sempre più difficile andare avanti con un peso così grave sulla coscienza, la consapevolezza di non poter rimediare ai propri errori, la paura perenne del gas. Perché nessuno si chiedeva come mai Lucy per accendere le sigarette non usava un normale accendino, ma i fiammiferi? Perché nessuno si domandava se fosse proprio il senso di colpa il motivo per cui Lucy era così cambiata nel giro di un anno, diventando un adolescente chiusa, scontrosa, lunatica, sgarbata, apatica e asociale?
Due mani calde sulle sue spalle la fecero sussultare. Lucy alzò il viso, bagnato di lacrime e pioggia, sugli occhi di sua madre.
«Voglio darti la pace, Lucy. Non riesco più a vederti così. Non è stata colpa tua, smettila di sentirti in colpa» le sussurrò sua madre, chinandosi a terra e stringendola forte per riscaldarla.
«Ma sono stata io, mamma» pianse Lucy, incapace di scrollarsi di dosso i sensi di colpa.
«Dimenticalo» sospirò lei «non puoi convivere con questo peso. Fai finta che non sia mai accaduto»
«Non è possibile, come si può dimenticare qualcosa di così orribile?»
Sua madre sorrise e le scostò i capelli bagnati dalla fronte «Nel cervello umano esiste un meccanismo di autodifesa, lo sapevi, bambina mia? Quando qualcosa fa troppo male, così tanto da non riuscire ad esistere, il cervello lo cancella per poter sopravvivere. Ma, nel tuo caso, non mi sorprende che non si sia verificato. Non sei mai stata brava a difendere te stessa..»
Lucy guardò sua madre a metà tra il risentito e il disperato.
«Io posso darti un piccolo aiutino» disse sua madre, stampandole un bacio sulla fronte e scomparendo dalle sua braccia come nebbia «Non è giusto che tu porti questo fardello da sola»
Lucy allungò le braccia per cercare sua madre e trattenerla finché poteva, ma si era già dissolta. Nessuno sapeva quello che Lucy si portava dentro da più di un anno, ogni giorno ed ogni notte. La polizia non lo sapeva, come né suo padre né Beth lo sapevano. Molte volte aveva provato a parlare, ma la gola le era diventata di ruggine.
Da qualche parte aveva sentito dire che i segreti, condivisi con qualcuno, diventano più leggeri; e si malediva ogni giorno per non essere così brava da riuscire a sfogarsi, per liberare la sua esistenza dalla sua stessa condanna. Si lasciò andare all’indietro, sdraiandosi sull’erba malconcia per poter respirare e sforzarsi di cancellare dalla sua memoria ciò che ogni giorno la logorava. Vide uno stormo di colombe passare sulla sua testa, in alto nel cielo, poi tutto divenne bianco e accecante, e si ritrovò su un lettino d’ospedale.
Una flebo dal suo braccio la conduceva ad una sacchetta dal liquido verde acceso, i macchinari producevano il loro monotono rumore e accanto al suo letto un dottore, di spalle, stava parlando.
«Scusi?» chiese Lucy, distratta.
«Non le darà alcun dolore. Dopo non sentirà più nulla» disse il dottore senza voltarsi, con una voce familiare.
«Più nulla» ripeté Lucy in trance.
«Più nulla» la tranquillizzò il dottore voltandosi.
«Ciao, papà» lo salutò Lucy, per nulla sorpresa di vederlo lì nonostante non fosse affatto normale.
 «Sarà come se nulla fosse mai accaduto» le disse suo padre, stringendo la cartella clinica e accarezzandole i capelli «tornerai la mia bambina di sempre».
Lucy sorrise stancamente e aspettò. Suo padre mise una mano nella tasca del camice e ne tirò fuori una piccola pillola rosa, simile a un minuscolo confetto, e la porse a Lucy, avvicinandole un bicchiere d’acqua.
«Dormi serena» furono le sue ultime parole prima di andarsene dalla stanza «nessuno ti incolpa».
«Grazie» rispose Lucy, ingoiando la pasticca e scivolando in un sonno di pace.
 
***
 
Il mal di testa che l’aspettava al risveglio le fece supporre di essersi presa una grossa sbronza la sera prima, ma la memoria non l’assisteva di certo: non ricordava nulla se non di essere arrivata completamente zuppa a casa di Beth.
Lì Lucy si era risvegliata, asciutta, sul letto della sua amica che era già in piedi a preparare la colazione mentre canticchiava allegramente come suo solito.
L’odore del caffè svegliò Lucy definitivamente, facendola alzare dal letto per ciabattare fino in cucina. Lungo il tragitto, si imbatté nello specchio del corridoio e si fermò a osservare il proprio riflesso. Fu sorpresa –piacevolmente sorpresa- di non provare alcun risentimento o disgusto nel guardarsi allo specchio. Semplicemente, vide il suo viso stanco e i capelli arruffati, ma non provò nausea, né rimpianto né rabbia. Li aveva mai provati? E perché? C’era come un vuoto nei suoi ricordi, che non riusciva né a riempire né a focalizzare, come quando si cerca di ricordare un sogno appena fatto, che scivola via dalla memoria di secondo in secondo e svanisce nel nulla.
Lucy si guardò di nuovo allo specchio. Non sentì alcun senso di colpa.
Perché dovrei?, si domandò perplessa. Improvvisamente, non sentiva altro che pace, come se la tempesta dentro sé stessa fosse appena finita, lasciandole solo tranquillità.
Si trascinò in cucina ancora insonnolita e piena di domande, e Beth la salutò con un cinguettante “buongiorno” a cui lei rispose con un gran sorriso.
Beth la guardò positivamente stupita, sorpresa nel vedere Lucy con un sorriso così spontaneo. «Hai dormito bene, fiorellino?»
«Mai come stanotte!» esclamò vivacemente Lucy «mi hai dato qualcosa, per caso?»
Beth scoppiò in una risata e negò con il capo «Ma credo che tu abbia preso qualcos’altro di tua spontanea volontà» disse indicando la bustina trasparente degli acidi.
«Che cos’erano?» chiese Lucy, colta da un vago ricordo della sera prima e sfiorando con un dito le piccole pillole rosa simili a confetti in miniatura.
«Solo i soliti acidi» fece spallucce Beth «ma devono essere buoni, se ti hanno fatto un tale effetto».
Lucy sorrise, ma non colse l’interezza delle parole di Beth. Non poteva ricordare, se aveva dimenticato. Né avrebbe più ricordato ciò che l’aveva tormentata per tutto quel tempo, ormai dissoltosi come spuma di mare.
L’ultimo regalo di sua madre era stato l’oblio: Lucy non avrebbe più avuto ricordo della colpa con la quale non poteva convivere né scendere a patti.
«Sono felice che tu stia meglio» le disse Beth versandole il caffè, sinceramente sollevata dal cambiamento dell’amica che sembrava aver ritrovato la quiete.
Finita la colazione, le due ragazze si prepararono per uscire. «Posso prendere in prestito i tuoi vestiti? I miei sono ancora zuppi..» chiese Lucy, costatando quanto i suoi abiti gocciolassero acqua.
«E me lo chiedi anche?» le rispose Beth con dolcezza.
Lucy le sorrise, gettò uno sguardo ai suoi vestiti neri e provò un senso di ripugnanza verso di loro, come se non le appartenessero più. Aprì l’armadio di Beth e scelse una maglia bianca con piccoli fiorellini e i vestiti più innocenti che riuscì a trovare. Si sentiva diversa, ed era giusto che quel cambiamento passasse anche attraverso la sua facciata esteriore.
Beth la osservò con un sorriso materno. «Sei deliziosa»
Lucy si struccò, si pettinò i capelli e lasciò che Beth glieli intrecciasse; e guardando il suo riflesso finalmente ritrovò sé stessa, una ragazzina di sedici anni che sembrava anche più piccola, con un viso da bambina e un aspetto indifeso che era sempre stato suo di natura.
«Beth» mormorò Lucy mentre l’amica le fermava le trecce, davanti lo specchio «mi accompagneresti da mamma?»
Beth si fermò per un attimo.
«Al cimitero, intendo» aggiunse Lucy.
Beth tirò un sospirò di sollievo mentalmente. Per un attimo aveva creduto che la sua amica avesse dimenticato anche la triste verità che sua madre non c’era più. «Certo che ti accompagno. Passiamo da Nicholas a prendere dei bei fiori colorati e profumati»
Lucy le sorrise apertamente «E dopo voglio andare da papà e cucinare per lui»
«Tutto quello che vuoi» le promise Beth, nascondendo la lacrima di gioia che le stava scivolando sulla guancia di fronte al ritorno della sua migliore amica a quella che era un tempo: una ragazzina timida e dolce, senza disprezzo né odio per sé stessa.
 
 
 
 
 
 
 
 
Note: Emh, emh. Okay, se davvero qualcuno ha avuto il coraggio di arrivare fino in fondo, innanzitutto lo ringrazio per aver letto questo strazio senza senso che la mia mente ha partorito. È la prima fan fiction originale che scrivo e pubblico, non sono sicura di aver azzeccato il genere né il contesto, né che abbia un minimo senso. Probabilmente non ne ha affatto, ma era una storia che dovevo raccontare. Spero che nessuno colga da parte mia moralismo verso determinati comportamenti o, al contrario, istigazione verso di essi. È solo la storia di una ragazzina che potrebbe essere chiunque, con una soluzione che nella realtà non esiste, ma proprio per questo scrivere e immaginare cose impossibili è meraviglioso.
Ringrazio chiunque sarà così paziente da leggere e, magari, anche commentare!
 
 
  
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