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Autore: RobynODriscoll    05/10/2013    6 recensioni
"Sono stata molte cose nella mia vita. Figlia e assassina, sposa e puttana, sorella e traditrice, amante e spergiura; a volte saggia, a volte folle, a volte sciocca e inerme. Ho creduto e ho dubitato, ho osato e ho fallito. Tante, troppe volte, ho avuto paura, tranne quando avrei dovuto averne per davvero.
Mi chiamo Bianca Auditore, sono figlia di un assassino e di una ladra. Cesare Borgia è stato il mio primo amante: diceva che era la mia purezza a istigarlo al peccato, come una macchia nera sulla mia pelle. Ma sbagliava; perché il peccato non è una macchia. Il peccato è di un bianco accecante. Come la neve e il vuoto, la morte e l’assenza. Come il lutto, la gioia, e la veste degli Assassini."
Genere: Azione, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Claudia Auditore , Ezio Auditore, Leonardo da Vinci , Maria Auditore , Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Aria.

Mi mancava l'aria.

Come se una pressione forte mi stesse stringendo la gola.

E d'improvviso non avevo più fiato.

Non respiravo.

Morivo.

Tirai su la testa di scatto, inghiottendo l'aria in un'unica sorsata angosciata. Spalancai gli occhi nel buio umido. Una stanza sconosciuta. No, una prigione.

Me lo disse la fitta lancinante ai polsi, e il tintinnio delle catene che li tenevano legati. Me lo disse la paglia che odorava di muffa e di escrementi di topo.

Ero finita in trappola.

Ma dove? E di chi ero prigioniera?

Strinsi forte le palpebre, cercando di ricacciare indietro il senso di nausea, e quel cerchio di fuoco che aveva lasciato il residuo del narcotico usato da Tancredi per stordirmi.

Tancredi. Simza. Traditori.

Battei forte le palpebre. La caduta di Jacopo da cavallo.

Era...?

Doveva esserlo.

Maledetti.

Diedi uno strappo alle catene, che mi restituì intense scariche di dolore. I miei polsi erano già piagati dal ferro. Da quanto tempo ero lì?

Strizzai gli occhi. Era buio, sì...ma una lama di luce tenue e bluastra scendeva dall'alto, fendendo lo spazio intorno. Registrai le due informazioni in contemporanea. Era notte. C'era una finestra.

Mi alzai in piedi - faticosamente, con i polsi legati – sopra la branda sgangherata che mi faceva da letto. Alzai i polsi sulla testa. Non sentii altro che il muro grezzo sotto le dita. Era ovvio, non avrebbero mai messo una grata a misura di prigioniero. A che punto era, la notte?

Non feci in tempo ad arrovellare le mie meningi ancora confuse, che sentii passi pesanti nel corridoio.

Per un attimo, pensai di nascondermi dietro la porta. Potevo aspettare che il mio carceriere aprisse, stordirlo con un colpo ben assestato delle catene, prendere la chiave e andarmene. Peccato che i passi sembrassero di ben più di una sola persona, e io non sapessi nemmeno dove mi trovavo. No...dovevo agire con intelligenza. O almeno provarci, per una volta.

Quando la porta schioccò sui cardini, il piccolo drappello mi trovò seduta sul letto, con le mani incatenate tra loro che mi riposavano in grembo, e il mio più gelido sguardo di sfida ad accoglierli. A capitanarli, c'era quella serpe traditrice vestita da medico. Ciò che me lo fece odiare ancora di più fu trovare sul suo viso la sua solita espressione gentile.

Perché? Perché, lurido figlio di un cane, perché non ho capito cosa fossi in realtà?

«Mi dispiace per i metodi brutali, Bianca» disse Tancredi, e la sua voce aveva di nuovo quella nota simpatetica che avevo imparato a conoscere bene durante il mio soggiorno a Bologna. «Ma avevo un ordine da eseguire, e ho dovuto agire nel modo più efficiente possibile.»

Lasciai che mi si avvicinasse, e avvertii un brivido di raccapriccio quando mi prese il polso per aiutarmi ad alzarmi.

«Come ti senti, ora?»

Non opposi resistenza. Lentamente, mi rimisi in piedi, senza smettere di guardarlo negli occhi. Quegli occhi rosso sangue, che mi avevano parlato di vita e bontà così tante volte. Quegli occhi rosso inferno, che celavano così bene i loro diavoli.

E quando fui certa che avesse scrutato bene nei miei – che vi avesse letto dentro tutta la mia indignazione, il mio disprezzo, la mia repulsione – gli sputai in faccia.

Chiuse le palpebre, d'istinto. Non ebbe altra reazione se non quella di recuperare, a gesti lenti, un fazzoletto dalla tasca del farsetto. Si pulì la guancia in silenzio.

«Non mi aspettavo che capissi. Con il tempo, lo vedrai anche tu.»

«Tutto quello che vedo è un traditore» sibilai. «Sei stato bravo a tenere su la tua doppia faccia, Bentivoglio. Cosa ti hanno promesso i tuoi fratelli in cambio della mia testa? Ricchezze? Titoli?»

Un lento sorriso gli si disegnò in volto. «Per Giove Ottimo e Massimo, no...a costo di ripetermi...niente di così banale. E ora, permettimi di aiutarti.»

Mi prese sotto braccio. Trovai il contatto intollerabile, ma prima che provassi anche solo a scansarmi sentii un clic sinistro provenire dal polso di Tancredi. Notai solo a quel punto che indossava un antibraccio di pelle.

«Una nuova arma, studiata dai migliori artigiani ospiti a Castel Sant'Angelo» mi spiegò, forse vedendo scritto sul mio viso l'allarme. «Al posto di quella vostra lama nascosta, c'è un ago piuttosto sottile. Ho fatto in modo di intingerlo nello stesso veleno che ha ucciso il tuo amico.»

Trattenni a stento un fremito, cercando di ricacciare indietro l'immagine della caduta di Jacopo da cavallo. Tancredi inarcò un sopracciglio.

«Mi basta muovere una falange, Bianca, perché questo ago si conficchi nella tua carne. Sai» il suo sguardo sembrò illuminarsi di infantile eccitazione a quel punto «Galeno sosteneva che il sangue si produce nel fegato, e scorre nel nostro corpo come in un circuito chiuso, irrorando vene e arterie nel suo passaggio. Nei miei lunghi anni di ricerca, sono arrivato alla conclusione che Galeno abbia visto giusto...eccetto per un piccolo particolare. Io credo che ci sia una pompa, per così dire, che mette in moto il sangue nel circuito. Quella pompa è il cuore1

Strinse più forte il mio braccio, e non so dire se la sensazione che mi trasmise fu di minaccia. Era come se mi stesse dando un oculato consiglio da fratello maggiore.

«Basterebbero due battiti del tuo cuore, perché il mio veleno entrasse in circolo e facesse marcire il tuo sangue. Ma non moriresti subito. No. La tua agonia sarebbe più atroce. Sentiresti il sangue bruciare la carne e sfaldare i muscoli. Sì, credo che la sensazione sia questa. Un po' come essere messi al rogo e sentirsi ardere via i tessuti dalle ossa.»

D'istinto avevo preso a respirare più velocemente. Jacopo era morto a quel modo. Tra atroci sofferenze, come se fosse bruciato vivo.

«Stai cercando di vendicare la morte di tua madre, Tancredi? Perché se è così, sappi che mi hai venduta a chi l'ha condannata a morte.»

«Ti sbagli di nuovo.» La sua mascella si era contratta. Avevo toccato il punto giusto, almeno in parte. Tancredi voleva riscattare la fine orribile di quella madre che non aveva mai conosciuto. Tuttavia, la sua emozione durò solo un istante.

«Ma vedrai tu stessa quanto sei in errore. Seguimi. Sei attesa nella Sala della Giustizia.»

Il campanello suonò nella mia mente solo in quel momento, mentre Tancredi mi accompagnava con gelido garbo fuori dalla cella e i soldati ci seguivano. Avrei dovuto riconoscere le loro armature dalle descrizioni di mio padre. Non erano semplici guerrieri, ma guardie papali.

Castel Sant'Angelo. Che idiota ero stata, Tancredi l'aveva appena detto. Mi trovavo nelle prigioni di Castel Sant'Angelo.

Tancredi Bentivoglio non mi aveva venduta ai suoi fratelli, affiliati alla fazione di Lucrezia. Era in combutta con Papa Giulio II.

 

Attraversammo stretti corridoi dalle alte volte, dai muri ruvidi e spogli. Non so per quanto camminammo: ero ancora intontita dal brusco sonno a cui ero stata costretta, e la carne sotto le catene iniziava a pulsare. In quella confusione, mille domande si affacciavano alla mia mente. La famiglia di Martino era al sicuro? Non avevo condotto i Templari da loro, vero? E Jacopo, quanto a lungo era rimasto vivo e dolorante, prima che il maledetto veleno di Tancredi spegnesse la sua brillante coscienza per sempre? E mio padre, cosa avrebbe detto quando avesse saputo? Avrebbe messo di nuovo a repentaglio la sua vita? Sarebbe stata la fine per l'Ordine? Avevo distrutto ogni nostra flebile speranza, per il mio capriccio di rivedere l'uomo che amavo?

La Sala della Giustizia si rivelò non molto più ampia dei corridoi che avevo appena attraversato. Era disadorna, ad eccezione di un grande affresco che sovrastava il lunotto sopra un portale di legno intagliato. Rappresentava un angelo che brandiva una spada, imperioso, bellissimo, spietato.2

C'era una sorpresa ad attendermi, in quella sala. Seduto su un seggio di legno, incatenato per i polsi e con il viso segnato da profonde sofferenze, stava l'ultimo uomo che avrei immaginato di trovare lì.

Non lo riconobbi subito. Aveva la testa chinata, e ciuffi di capelli più lunghi gli coprivano il volto. Poi, un lungo brivido gli attraversò le spalle. La testa si alzò lentamente, e gli occhi grigio-verdi emersero dalle ciocche nere, trovandomi. Riconoscendomi.

Emisi un gemito strozzato, che mi nasceva dalla bocca dello stomaco, dove odio e dolore ancora si rimescolavano con forza implacabile quando il pensiero correva anche solo per sbaglio a lui.

Perché l'avevano preso? Cosa c'entrava Vanni con tutto questo? Perché ci avevano presi entrambi? Perché?

Quelle domande ruggirono così forte nella mia mente da darmi una fitta intensa, che per un attimo mi fece tremare e oscillare la testa. Serrai le palpebre, le riaprii. La stanza continuava a vorticare.

«Siedi» ordinò Tancredi, e le sue mani mi condussero su uno scranno posto di fronte a quello di Vanni. Avevano fiaccato la sua volontà, e ora avrebbero fatto altrettanto con la mia.

Dovevo pensare con lucidità. Dovevo lottare contro quel senso di torpore, ed essere vigile. Non mi avrebbero avuto facilmente. Non importava in quanti modi programmassero di strapparmi informazioni, suppliche, dignità. Sarei rimasta me stessa fino alla fine.

Quando mi tolsero le catene, fu solo per far scattare quelle che mi ancorarono ai braccioli dello scranno.

Sentii le mani di Tancredi sulle spalle. Si era portato dietro di me, e ora mi costringeva ad alzare il volto per guardare il templare che era seduto lì di fronte. Il templare, sì. Non mio fratello, non più.

«Capisci perché non potevo permetterti di ucciderlo, a Mirandola?» disse il medico. Se avessi avuto energia sufficiente, avrei voltato di scatto il viso per mordergli la mano. Ma le sue dita mi tenevano saldamente, affondando nella mia carne: mi arresi a quel contatto che mi repelleva.

«Hai fatto cadere in trappola anche lui.»

Non era una domanda. Tancredi non la intese come tale.

«All'inizio, ero incerto. Credevo che sarebbe stato più difficile fare il triplo gioco. Pensavo sarei stato scoperto subito, e temevo di aver trascinato la piccola Simza in una missione suicida.» Una pausa. Non potevo vederlo, ma non sentivo alcun sorriso saccente tirargli la voce. «Vi siete rivelati tutti meno svegli di quanto temessi.»

Vanni non parlava. Guardava il medico con lo stesso disprezzo che mi animava, e cercava di evitare il mio sguardo come io il suo. Sembrava troppo provato per aprire bocca.

Cosa gli avevano fatto? Cosa mi avrebbero fatto?

«Cosa vuoi da noi?» sibilai.

«Non sono io che voglio.»

«E chi allora?»

La porta sotto l'affresco dell'angelo si aprì, in quel momento.

Ne apparve un vecchio. Sì, niente più che questo. Un vecchio maestoso, avvolto in un manto purpureo, con i ricami dorati delle vesti a riverberare la scintilla regale dei suoi lineamenti rapaci. Ma era pur sempre un vecchio, ogni ora più vicino alla fine della sua esistenza.

Eppure, i suoi occhi. Oh, gli occhi di Giuliano della Rovere erano un concentrato di tenacia, energia, volontà. C'era brama, in quegli occhi scuri, e una forza che non ho mai più incontrato in nessun altro uomo o donna. Per un attimo confuso pensai che erano i suoi occhi a tenerlo ancorato alla vita.

«Io» disse, con la voce stentorea per cui era tanto famoso. «Sono io che voglio, bambina. Ed io avrò.»

Le guardie si erano sistemate agli angoli della stanza, e batterono le armi sulle corazze al suo ingresso. Quello non era un saluto che si riserva ad una guida spirituale, ma ad un generale pronto per la battaglia.

Alzai il mento. Gli avrei dimostrato di che pasta erano fatti gli Auditore. Non mi sarei lasciata intimidire da lui.

«E cosa speri di avere da me, vecchio?» risposi, mentre lo osservavo avvicinarsi con passo regale. Si portò esattamente al centro tra i due scranni, in mezzo a me e Vanni. Mi guardò a lungo, come a stimare il mio valore in oro. Notai che non aveva il Pastorale, con sé.

Poi, allungò la mano verso Vanni. Gli afferrò i capelli con violenza, alla base della nuca. Lo costrinse a un gemito, e fissò con indifferenza la reazione prodotta dal proprio gesto.

«Voi siete il seme di Altaïr. Nel vostro sangue è racchiuso il segreto per governare i Frutti dell'Eden...voi, della stirpe infame di Caino, avete la chiave per svelare l'infinita conoscenza che il Serpente cela.»

Dunque, era stato il Serpente ad aver ridotto Vanni in quello stato. Ricordai il modo cauto in cui tutti, compreso mio padre, lo maneggiavano. Il più pericoloso dei Frutti, il meno conosciuto. Ci avevano voluti qui perché eravamo la Progenie del Profeta: se noi non potevamo controllare quel manufatto inestimabile, nessuno avrebbe potuto.

«Se moriamo» sibilai «quei segreti moriranno con noi.»

Il viso del Papa si fece grifagno, per un impercettibile momento.

«Sarà valsa la pena tentare.» Rilasciò bruscamente la testa di Vanni e batté le mani nodose tra loro. Solerte, una guardia apparve dalla stessa porta di legno da cui Sua Santa Malvagità aveva fatto il suo ingresso. Teneva tra le mani un cuscino di velluto rosso, ma anche nel mio annebbiamento notai che sembrava spingere quelle mani il più possibile lontane dal corpo, come a voler evitare con tutto se stesso ogni eventuale contatto. Sul cuscino, il Serpente si attorcigliava su se stesso, con l'occhio rubino così acceso che sembrava danzare nella sala alla ricerca di una preda.

E la sua preda oggi ero io.

Quando il soldato gli si fermò accanto, le dita rinsecchite di Giulio II aprirono a forza le mie. Erano fasciate da morbidi guanti di capretto, ma sembrarono quasi tagliarmi la carne per quanto erano dure. Afferrò il frutto, me lo cacciò nel palmo. Attesi il dolore, che non arrivò.

Il Papa si chinò su di me, poggiandosi su i braccioli che mi tenevano prigioniera. Si inarcò lentamente, il suo naso adunco sembrava essere pronto a squartarmi.

«Dicono che il serpente abbia parlato a una zingara con la voce di Dio» sibilò «Dicono che le sia bastato desiderarlo. Se vuoi salva la vita, Bianca Auditore, desidera e parla con Dio.»

Sogghignai. Non avevo niente da perdere. «Lo farei volentieri. Ma Dio non esiste.»

Il colpo arrivò così veloce che per un attimo non avvertii il male. Fu uno schiocco sordo, e poi un pizzicore intenso. La mia guancia iniziò a pulsare, e il taglio lasciato dal rubino poco sotto il mio occhio a bruciare come l'inferno.

Il Serpente era stretto nel pugno del Papa Guerriero, e sulle scanalature simili a squame correvano via veloci gocce del mio sangue.

«Stupida ragazzina. Credo che tutto inizi e finisca con te? So ogni cosa. I miei occhi sono ovunque, le mie mani possono raggiungere qualunque insignificante creatura tu abbia mai amato. Posso stringere il pugno e distruggere il tuo mondo. Perciò smettila di giocare all'eroina, se non vuoi rimpiangerlo sulle tombe dei tuoi cari.»

«Sono solo parole» digrignai i denti. «Non hai niente con cui ricattarmi e cerchi di spaventarmi con un'ombra.»

«Ascoltalo!» irruppe la voce di Vanni, spezzata da una disperazione che non vi avevo mai sentito dentro. Sulla spalla di Della Rovere, potevo vedere il suo viso. I nostri sguardi si incrociarono per la prima volta. E il resto della frase suonò come una supplica. «Sanno...dov'è Leonardo» .

Il sorriso che piegò le labbra secche del Papa mi fece tremare il cuore.

«A volte basta una piccola vita per tenerne sotto controllo altre dieci. Com'è scontato e meschino l'animo dell'uomo. Così privo di grandezza.» Spinse di nuovo il Frutto nel mio palmo. Il sangue mi colò dal graffio sotto l'occhio. Sì, come una lacrima.

«Parla con Dio» sillabò di nuovo il Papa.

Chiusi le palpebre, le sentii fremere. Il piccolo Leonardo, la prima volta che l'avevo stretto tra le braccia. Il suo cespo di capelli rossi, la sensazione del mio dito stretto nel suo palmo paffuto, l'odore della sua pelle che sa di tutte le cose buone e innocenti del mondo. Gli stessi occhi di mia madre.

Gli uomini di mio padre lo proteggevano. Ma se tra loro si fosse nascosto un traditore? Se le guardie del Papa li avessero aggirati o sopraffatti? Ero davvero disposta a correre il rischio per il mio stupido orgoglio?

Plutone, o qualunque altra creatura tu sia, pensai. Parlami. Darò la mia vita se serve, ma non quella del bambino. Parlami. Dimmi quello che questo pazzo vuole sentire...ti prego, dimmi che esisti. Ti prego.

Il formicolio si spanse lungo le linee della mia mano. La testa si fece leggera, le sensazioni attutite. E in un attimo fui in un altro posto.

 

...e correvo disperatamente. Con la certezza che sarei arrivato troppo tardi. Con le viscere che correvano lungo la colonna vertebrale, la avviluppavano, e salivano a strangolare il cuore...

 

Spezzoni di dialogo nella mia mente. Voci care al cuore. Voci completamente sconosciute.

 

«Cos'hai fatto?»...

«...le bestie non pasteggiano dei loro simili. Gli uomini sì...»...

«...troppo tardi per cambiare strada»...

«...non puoi osare tanto! Fermati»...

 

Il colpo che riverbera attraverso i miei polsi. Il suo battito che si spegne dentro le mie vene, e lui che mi guarda per l'ultima volta.

 

«...fino alla fine dei tempi ed oltre, sia maledetto il nome di Caino.»

 

Mi risvegliai con la testa pesante, e le ossa scricchiolarono sulla dura branda della mia prigione. Strizzai le palpebre. C'era luce che filtrava dall'alta finestrella, sentivo dei passi lassù. Voci confuse, brusii di vita.

Sentire la libertà che si dispiegava sulla mia testa era molto più crudele che vivere in un isolato silenzio. Il mondo era a un passo, ma io non potevo averlo.

Mi alzai a sedere, faticosamente, facendo tintinnare le catene mentre cercavo di rimettere insieme ogni muscolo del mio corpo, imbevuto di dolore.

«Ben svegliata.»

Sobbalzai, e portai d'istinto le spalle al muro. Da dove proveniva quella voce?

Il cervello ci mise qualche attimo ad attivare i suo ingranaggi.

Vanni. La voce era la sua, e sembrava fiacca. Eppure, suonava vicina.

«La crepa» disse lui, interpretando fin troppo rapidamente il mio silenzio.

C'erano un paio di pietre smosse, un buco che la sera prima non avevo notato. Non era più grande di una tana per topi, ma uno spiraglio di luce filtrava dalla parte opposta della parete. Immaginai un ambiente simile a quello in cui ero rinchiusa. Probabilmente anche lui era inerme, incatenato e fiacco.

«Meraviglioso. Mi sveglio in una prigione, con la testa che pulsa e te come vicino. Peggio di così non credo possa andare.»

Posso quasi sentire il rumore del suo sogghigno. «E' evidente che i topi non hanno ancora trovato appetibili le tue gambe. Aspetta qualche giorno, sorella.»

Provai un brivido. «Non chiamarmi così.»

Silenzio.

Chiusi gli occhi, come a scacciare i residui di un incubo. E mentre ancora tentavo di rimettermi insieme, sentii la voce ironica di Vanni.

«Sei riuscita a parlare con Dio?»

«Ero nel corpo di Caino» dissi, asciutta. «C'erano delle voci, ma non sono riuscita a distinguerle...»

«Le bestie non pasteggiano dei loro simili, gli uomini sì.» Fece una pausa. «Io ero nel corpo di Abele.»

Mi ammutolii di nuovo. Caino e Abele, i fratelli che ruppero i vincoli del sangue per la prima volta. Il primo assassino, il primo templare. Sarebbe finita così, tra me e lui...non era una domanda, ormai, ma una certezza.

Sentii il bisogno di schiarirmi la voce, prima di riaprire bocca.

«Sapevi di Leo.»

«Ho i miei informatori.»

«Non ti sei mai fatto vivo con Ilaria. Mai una volta.»

«Ho osservato lei e il bambino, per tutto questo tempo.»

«E immagino non ti sia venuta mai voglia di conoscere tuo figlio.»

La sua risposta non sembrava intaccata dal mio pesante sarcasmo.

«Ho dovuto proteggerlo.» Un'esitazione. «L'amore rende vulnerabili. E' qualcosa che non possiamo permetterci di vivere come fanno le persone normali.»

Sbagliava. Avrei voluto urlarglielo. L'amore ci rende umani, ci rende forti...ma cosa poteva saperne, lui, dell'umanità e della forza. Aveva ucciso un nostro confratello, si portava ancora l'odore della sua morte addosso.

Dopo un silenzio che sembrò non finire, sentii la voce di Vanni più salda. Tagliente.

«Per curiosità, come sono riusciti a incastrare la fantastica Bianca Auditore, la grande erede del Mentore? Ti hanno sorpresa nel sonno o cosa?»

«Non provocarmi, Vanni.»

«Perché? Sennò mi uccidi?» Una risata spezzata. «Non lo capisci che è per questo, che siamo qui? Il Papa vuole che attiviamo il potere del Serpente, e per farlo impazziremo. Le nostre coscienze si fonderanno con quelle di Abele e Caino. E lui potrà mostrare a Ezio lo spettacolo, quando ci scanneremo a vicenda.»

«Io non impazzirò.»

«Boriosa come sempre.»

Maledetto figlio di...no, non potevo nemmeno pensarlo, questo.

«I Frutti dell'Eden non mi hanno mai soggiogata.»

«I Frutti dell'Eden soggiogano tutti. E' solo questione di tempo. C'è chi cede prima, e chi ne viene lentamente corroso...ma non c'è uomo che non sia profondamente intaccato dal potere, Bianca. Anche quel padre che difendi sempre con tutte le tue forze, non è diverso dal resto del genere umano.»

A quell'ennesima provocazione, mi sollevai di scatto. Le ginocchia mi reggevano a malapena in piedi: non importava. Battei i pugni incatenati contro il muro, e Dio, come avrei voluto che fosse la sua faccia a riceverli.

«Non ti azzardare nemmeno a nominarlo, sporco traditore!»

Dall'altra parte, la sua voce schioccò come un latrato. «Smettila di idolatrarlo, tiralo giù dal piedistallo su cui l'hai messo!» Era così vicino. Non mi serviva l'influenza del Serpente per desiderare di mettergli le mani intorno al collo. «Guarda Ezio Auditore, l'uomo, non il padre che veneri. Credi che non sapesse quello che faceva quando ha mandato il Drappo Rosso a Mirandola? Era una missione suicida. Ha buttato una manciata di uomini in una tenaglia: da una parte noi, dall'altra i papalini. Ha scelto chi poteva sacrificare più facilmente!»

«Ti sbagli! Lui era pronto a consegnarvi il Serpente e se stesso per salvarli! Lui...»

«Lui sapeva che Nicola avrebbe fatto quello che ha fatto pur di impedirlo.»

Deglutii a vuoto, e odiai quella fitta di dubbio che mi attraversò.

«Ma non poteva immaginare che tu saresti arrivato a tanto.»

«Ne sei sicura?»

Tremavo. Detestavo Vanni così tanto, che in quel momento nel mio cuore non c'era spazio per nessun altro sentimento. Strinsi forte i pugni per contenere l'ondata di collera, il mio corpo provato non poteva reggerla.

«C'è una sola cosa...di cui sono sicura.» La voce mi tremava. «Io ti ammazzerò, Giovanni Antonio Auditore. Non avrò pace finché non l'avrò fatto.»

«Sono certo di questo.» Il suo respiro sembrava gravato da un peso, ma attraverso il mio ansimare quasi non lo sentii. «Mi chiedo solo come lo spiegherai a mio figlio.»

Se fossi stata meno accecata dalla rabbia, forse mi sarei accorta del dolore rassegnato che c'era in quelle parole. Ci pensai, più tardi. Ma al momento la avvertii soltanto come un'altra provocazione, che non raccolsi.

Ero stremata. Rinchiusa in una cella, con la persona che meno potevo tollerare dall'altra parte del muro, e tutto il resto del mio mondo lontano, irraggiungibile. Nelle lunghe ore che seguirono, mentre restavo accucciata sulla branda cercando di ignorare i crampi di dolore e le parole di Vanni (quelle cattive e quelle addolorate), mi chiesi se Martino sapesse che ero sparita. Pregai di no, con tutte le mie forze. Pregai che continuasse la sua vita tranquilla, lontano dalla guerra che io e quelli come me avevamo portato da lui. E se davvero fossi morta laggiù, sperai che trovasse la forza di andare avanti...tenendo con sé solo i bei ricordi, se ancora ne aveva, di quando eravamo giovani e stavamo insieme senza chiederci nulla. A quei ricordi, io mi sarei aggrappata fino alla fine. .

Ci furono altre sessioni di quella tortura che il Papa chiamava parlare con Dio. Plutone non si manifestò mai, ma ogni volta che il Serpente mi trascinava nella memoria di Caino potevo vederli più lucidamente. Erano poche schegge nitide in un mare di nebbia, ma iniziavano lentamente ad emergere. Il volto di Eva, quello di Adamo. Alle volte i loro lineamenti erano chiari nella mia testa, altre volte li confondevo con quelli di Rosa ed Ezio. Il viso di Abele, invece, non lo vidi mai. Ma sentii sempre più nettamente il suo rantolo di morte. Il suo corpo che si accasciava. L'odore del suo sangue. Del mio sangue. Aveva macchiato la tunica bianca di Caino, per sempre...

Bianco e rosso. Possibilità e omicidio. I pilastri su cui il Credo ha costruito se stesso nei millenni.

Ma no. Non omicidio: quello è solo un mezzo inevitabile. Possibilità e vita, sono queste le nostre fondamenta. E insieme, questi due elementi segnano il punto di svolta del cammino dell'uomo: la scelta.

Mi aggrappai a quella convinzione, quando ci riportarono nelle rispettive celle. Mi sdraiai sulla branda, le ginocchia strette al petto, le braccia intorno allo stomaco pulsante. Quelle sessioni dentro il Serpente mi lasciavano spossata e con un profondo senso di nausea, che ci metteva ore ad andarsene. Non che il cibo aiutasse. Per fiaccarci, il Papa ci nutriva soltanto a pane ed acqua, il minimo indispensabile per tenerci in vita fino a che non avessimo scoperto il segreto di Plutone.

«Come siamo arrivati a questo?»

Le parole mi sfuggirono dalle labbra senza che lo volessi. Avevo bisogno di sentire il suono della mia voce, e – lo realizzai appena ebbi formulato la frase – di avere una risposta. Mi sembrò passasse un tempo interminabile, prima che questa arrivasse dall'altra parte del muro, dove Vanni giaceva altrettanto prostrato e sconfitto.

«Abbiamo solo seguito la nostra strada.»

«Se non ci avessero portati a Ferrara, la nostra vita sarebbe stata diversa.»

Era la prima volta che lo dicevo a lui. Me ne pentii subito. Suonavano come scuse, ed io non avevo nulla di cui scusarmi. Non con Vanni.

«Non ha senso chiederselo.»

«Sì, ne ha. Sono sicura che non mi odiassi, prima di Ferrara. Da quando siamo tornati a casa, non hai fatto che gettarmi addosso la tua invidia e il tuo rancore.»

«E non ti è mai venuto in mente di chiedermi perché, non è vero?» Era flebile, la sua accusa. Sembrava che non avesse abbastanza forza per gettarmela addosso, ma mi colse comunque con le difese abbassate. «Dio, Bianca. Se avessi potuto smettere di brillare, almeno per un momento. Se avessi potuto smettere di lasciare senza fiato tutti quanti...Bianca è così bella, Bianca è così coraggiosa, Bianca è davvero figlia di suo padre! E io? Non ero figlio di mio padre? A un certo punto ho iniziato a crederci. Forse ero figlio di qualcun altro, uno qualsiasi, uno che non fosse quell'uomo che mi guardava come se fossi un fallimento. Ma tu che ne sai? Lui si è sempre specchiato in te. Ti ama perché gli somigli. E' così vanitoso, e tu sei la giovinezza che non ha più. Io ero quello sbagliato, invece. Quello diverso.»

Ammetto che l'anima fu punta da quelle parole, contro il mio stesso volere.

Da bambina avevo avuto la sensazione di essere l'unica, insieme a mia madre, a sforzarsi di tenere insieme gli universi contrastanti che erano mio padre e mio fratello. Invece, probabilmente non avevo fatto altro che contribuire al divario tra loro. Cosa avrei potuto fare per cambiare le cose? Ah, che domanda inutile. Ormai non c'era possibilità di tornare indietro, nessuna opportunità di redenzione.

«Se mi avessi parlato...»

«Non sarebbe cambiato niente.» Un respiro. «Nemmeno tu hai mai pensato che valessi qualcosa. Lucrezia Borgia è stata l'unica a credere in me.»

Solo sentir pronunciare quel nome mi fece salire un conato amaro lungo la gola.

«Dio...è disgustoso.»

«Cosa?» la voce di Vanni era sempre flebile, ma più incattivita «Che qualcuno possa credere in me, ti sembra così difficile? Eppure anche io sono un buon guerriero. Anche io posso...»

«E' disgustoso questo tuo...non so come chiamarlo. Amore? Libidine? Fin dal primo giorno in cui hai visto quella donna qualcosa dentro di te si è rotto. E' stato come se lei ti avesse gettato contro un sasso...ti ha spezzato, e non sei più stato lo stesso da quel momento in poi.»

«Sai cosa è veramente disgustoso? Il tuo mondo fatto solo di bianchi e neri. Non è lussuria quello che mi lega a Madonna Lucrezia, non oserei nemmeno pensare a lei in quel modo.»

«E cos'è allora?»

«D'improvviso ti interessa capirmi?»

Silenzio. Pesante, umido. Interrotto dallo zampettare dei topi. Mi morsi forte il labbro, prese a sanguinare. Non volevo attrarre i ratti verso di me, perciò succhiai furiosamente le gocce implacabili che continuavano a uscire dalla spaccatura. Quel sangue era come le parole cattive tra me e mio fratello. Bastava un niente per spalancare la voragine e farle uscire copiose, fino allo sfinimento. Sembrava potessero continuare per sempre. Sembrava potessimo dissanguarci a forza di insulti e rinfacci. Contro contro cuore, per vedere quale dei due si sarebbe consumato per primo.

Poi, in tono meno amaro, Vanni riprese a parlare. La sua voce suonava più vicina. Immaginai che avesse poggiato la tempia alla parete. Per poter parlare più piano. Forse solo per stanchezza.

«Basta discutere, adesso. Conserva le forze. Forse domani riuscirai a uccidermi, e tutte queste domande non avranno più senso.»

Chiusi gli occhi. Nella mia coscienza confusa si mischiarono rapidamente immagini del nostro passato, quando ancora eravamo bambini, ed eravamo felici. Poi quei frammenti di esistenza si sciolsero nel destino dei due fratelli che avevano dato inizio alla guerra tra Templari e Assassini, e per la prima volta vidi nettamente il nostro futuro. Io, che affondavo la lama celata nel cuore di Vanni. Io, Caino, uccidevo il mio Abele. Vedevo il senso di colpa di nostro padre e il grido spezzato di nostra madre. La nostra famiglia che si sgretolava per sempre. Non per mano di Vanni, questa volta. La colpa era soltanto mia.

Sotto le palpebre livide, piansi lacrime di fuoco; lo feci tanto a lungo che finii per addormentarmi, e non distinsi più i confini di presagio e sogno.

 

Mi risvegliai dopo molte ore, più offuscata di prima. La mia testa era oppressa dal cerchio rovente che sembrava una costante del mio soggiorno a Castel Sant'Angelo. Nonostante questo, avvertii nettamente la presenza accanto a me.

Se ne stava ferma. A malapena respirava, forse per paura di svegliarmi.

Socchiusi gli occhi. La luce della candela che il nuovo arrivato reggeva scivolava sul muro contro cui il mio viso era rivolto.

«Sei qui per portarmi dal Papa?»

Nessuna risposta. Sentii poggiare la candela a terra, poi due piedi leggeri scalpicciarono verso di me. Un panno fresco, imbevuto dell'essenza di qualche erba profumata, si poggiò sulle piaghe che i morsi dei topi avevano lasciato.

«Va' via, Simza. Non voglio il tuo aiuto.»

Avevo riconosciuto il suo tocco. Mi causava il voltastomaco solo immaginare le sue dita traditrici su di me.

Non avevo abbastanza forza per sottrarmi al contatto. Quando ebbe finito con i piedi, mi prese delicatamente le mani, scostando un poco le catene. Trattenni un singulto. Sangue, carne e ferro si erano saldati insieme in quei giorni. Il panno di Simza passò sopra le piaghe con la leggerezza di una piuma, eppure sembrava che mi avesse inoculato nella pelle una tempesta di aghi.

Mi rassegnai a quelle attenzioni. Non potevo respingerle, in ogni caso.

Aspettai che finisse ciò per cui era venuta, e sperai che se ne andasse presto. Invece, mi prese la mano. Rivoltò il palmo verso l'alto. E il suo dito tracciò i contorni di qualcosa, come...un disegno.

No, lettere.

Dovette scrivere il suo messaggio un'altra volta, perché lo recepissi.

Non. L. Ho. Ucciso.

Mi ci volle qualche istante per capire cosa volesse dirmi.

Jacopo? Simza non aveva ucciso Jacopo?

Con fatica, mi scostai dalla mia posizione rannicchiata. Alzai lo sguardo sulla giovane gitana, era seduta sul letto accanto a me. Gli occhi mi bruciavano tanto che avrebbero potuto cadermi dalle orbite.

Amica, nemica? Perché l'Occhio dell'Aquila non correva in mio soccorso, rendendomi chiaro chi voleva tradirmi e chi era mio alleato? Mi sentivo così stanca. Così logorata.

Abbassai la voce ad un mormorio indistinto. Non sapevo se Vanni dormisse o meno, ma non volevo ascoltasse.

«Per quale motivo avresti dovuto risparmiarlo? Tornerà da mio padre. Darà l'allarme.»

Simza resse il mio sguardo. Le sue iridi si tinsero di quel lilla malinconico che non avevo mai visto in nessun altro essere umano.

Veloci, le dita della gitana corsero di nuovo sulle linee devastate del mio palmo. Le. Cose. Una pausa, per essere certa che avessi assimilato le prime lettere. Ci. Sono. Più intento nei suoi occhi, come se si sforzassero di imprimermi le parole non solo sulla pelle, ma anche nella coscienza. Sfuggite. Di. Mano.

«Forse sono sfuggite a te, ma Tancredi sa quello che fa. Lo sapeva fin dall'inizio.»

La pressione delle sue dita si fece nervosa. Sete. Di. Conoscenza. Lo. Divora. Vuole. I.Segreti. Dei. Frutti.

«Dopo tutto quello che è successo a sua madre?»

Sì.

«E tu non hai cercato di fermarlo?»

Sì.

«Ma non ti ha ascoltata...»

Gli occhi di Simza si fecero di quel blu cupo che ho imparato ad associare al dolore. Li vidi appannarsi di lacrime, quando con l'unghia tracciò piano: Mi. Dispiace.

Alzai la mano, le catene tintinnarono tra loro. Non potevo raggiungere il suo viso, sdraiata com'ero, e non avevo forza sufficiente per sollevarmi. Nonostante questo, Simza comprese il mio gesto. Le lacrime le solcarono il viso mentre guardava le mie dita protese, senza prenderle tra le proprie.

«Ti porterò con me. Ma tu aiutami ad uscire da qui.»

Il viso bruno si abbassò di scatto. Portò i pugni sulle ginocchia, li strinse forte. Lo vidi, tremavano.

«Fai la cosa giusta. Come io l'ho fatta per tua madre. Simza...ti prego. Tu non sei lui. Devi decidere per te stessa.»

Rifuggì il mio sguardo, e prese in fretta le sue cose. Il suo peso leggero si sollevò dal materasso.

«Non andare via. Ti prego, ascoltami...»

Quando sentii la porta della cella sbattere e chiudere di nuovo i suoi catenacci, capii che la mia ultima possibilità di andarmene da quel buco infernale era appena bruciata.

Note

1Tancredi precorre i tempi. In realtà, per perfezionare il sistema galenico e iniziare a teorizzare qualcosa di più simile alla circolazione sanguigna per come è in realtà, bisognerà aspettare il 1600 e le teorie di William Harvey.

2L'affresco rappresentante San Michele, ad opera di Domenico Zaga, è datato intorno al 1545 – dunque di molto posteriore alla nostra storia. Quella che oggi è denominata Sala della Giustizia potrebbe essere stata usata come cappella, in realtà. Io come al solito ho ricamato grandemente sull'utilizzo di questa stanza...


NdBlackFool
Ho deciso di pubblicare con un po' di anticipo, anche se forse non è una cosa saggia visto che per impegni vari non ho finito ancora il 43...ma non sono particolarmente preoccupata, lo ammetto: quel capitolo è mezzo scritto e sono certa di farcela per il 15 novembre. In queste ultime settimane ho lavorato ad un progetto su commissione che mi ha tolto molto tempo ed energia (lo sto pubblicando tra le storie originali, si chiama Scritto nel Sangue ed è un fantasy ambientato in ambito vichingo: passate, se vi va di darci un'occhiata ^_^), ma dalla prossima in poi sarò più libera di dedicarmi a BCP, promesso!
Ecco, ora sappiamo di chi è prigioniera Biancarè, e...dai, davvero avevate pensato che potessi uccidere Jacopo? :P Vabbè, lo so, dopo Nicola non ci sono più certezze...questa volta ho bluffato. Ma chissà la prossima...*risata malefica in sottofondo*
Grazie di cuore per essere passati di qui. Alla prossima!

Laura.
   
 
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