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Autore: _Kore    05/10/2013    4 recensioni
[Una storia di Agnes Dayle, Emily Alexandre e Lyra Winter]
Chi non conosce il mito di Persefone? In questa storia, però, non siamo nell'antica Grecia e non si parla nemmeno di Dei. In questo racconto siamo in una New York che attraversa tre epoche diverse: il 1920, il 1969 e il 2013. Persefone, poi, ha tre volti differenti: Maia, la beniamina delle serate alcoliche in barba al Proibizionismo; Merope, l'eterea pupilla estranea al mondo underground degli anni sessanta e Taigete, energica figlia pronta a guidare una grande società.
La loro esistenza, in quell'Olimpo che è stato creato da chi le ha precedute, sembra perfetta, ma basta un nulla perché il gelo dell'inverno faccia breccia in quella perenne estate. In effetti, basta un incontro: lui è Ade, che ha un unico scopo - sedurre Persefone e attrarla nel suo mondo - e tre arti differenti per realizzarlo: la pittura, la scrittura e la recitazione.
Né Ade né Persefone, però, hanno fatto i conti con la maledizione che grava sulla famiglia Core... Una maledizione antica come la famiglia, di cui l'unica traccia sono una collana di diamanti rossi e un diario.
Genere: Erotico, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo | Contesto: Storico
Capitoli:
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Atto

1


 

 

 

New York, 20 aprile 1920

 

Perfetta.

Se avesse dovuto trovare un aggettivo per descriversi, Maia Core Myrthus non avrebbe scelto che quello. Non era mancanza di modestia o esagerata arroganza, quanto piuttosto una semplice presa di consapevolezza di una realtà indubitabile a chiunque la osservasse.

Ruotò su se stessa davanti al grande specchio e sorrise di sfuggita, mentre la luce delle lampade si rifletteva sull’abito di seta dorata: sua madre avrebbe detestato le braccia scoperte e la profonda scollatura sulla schiena, ma Lady Potnia, come erano soliti chiamarla nell’alta società benché non fosse più che la pronipote di un baronetto inglese, stentava a comprendere la nuova era, quel post-guerra che gridava allo scandalo e infrangeva le regole. Era l'epoca dei sopravvissuti, di chi aveva perso i propri cari in guerra ma aveva alzato la testa ed era andato avanti. L'epoca del jazz e dei sogni folli, l'epoca in cui l'odore del tabacco copriva quello della morte e l'immortalità era a portata di mano. Nei suoi ventiquattro anni Maia era sopravvissuta a un naufragio e a una guerra, e l'unico pensiero che le occupava la mente era la lunghezza del velo che le avrebbe coperto i capelli all'altare.

All’anulare della mano sinistra scintillava l’anello di fidanzamento che Nathanael le aveva donato cinque giorni prima, in una serata dedicata solo a loro, ben consapevole di come la festa di quel 20 aprile 1920 sarebbe stata la celebrazione della famiglia Core, del compleanno della rampolla e del fidanzamento della stessa con il pupillo del padre. Formalità, che ben poco avrebbero riguardato i sentimenti di Maia e Nathanael.

Un diamante centrale circondato da una doppia fila di diamanti più piccoli. L’anello ideale, il sogno di Maia, ma dopotutto non si sarebbe dovuta stupire: Nat la comprendeva come nessuno avrebbe fatto mai.

 

-Non approvo. Il vestito ti lascia troppo scoperta e quei capelli…

 

Anche senza guardarla Maia sapeva che sua madre, entrata in camera all’improvviso e ovviamente senza bussare, stava arricciando il naso nella sua famosa espressione di disapprovazione: se l’abito l’indisponeva, quei capelli troppo corti cinti da una tiara di cristalli la facevano infuriare.

Li aveva tagliati il mese prima, sacrificando i lunghi boccoli castani sull’altare della moda, benché avesse deciso di aspettare dopo le nozze per concedersi l’agognato taglio alla maschietta.

Non che la signora Core manifestasse quei sentimenti in maniera esplicita: non sarebbe stato opportuno per la donna che possedeva la Demeter, azienda di riferimento di tutti gli Stati Uniti d’America per la lavorazione, il confezionamento e la distribuzione di legumi e cereali secchi, e che l’aveva condotta con successo attraverso la guerra, riuscendo a trarre vantaggio laddove molte aziende erano collassate.

 

-Non crucciarti, madre.- le rispose la figlia, volteggiando in una nuvola di stoffe pregiate e profumo di limone. –Mi adoreranno.

 

E quella, lo sapeva entrambe, era una realtà incontrovertibile.

 

 ***

 

L’angolo tra la 5th Avenue e Central Park era una parata di vetture di ultima generazione e abiti scintillanti, mentre l’intero Plaza sembrava palpitare di vita quella notte: non vi era uomo, donna o bambino, di qualsiasi strato sociale, che non sapesse cosa stava accadendo tra quelle mura eleganti. Gli inviti erano stati spediti con un preavviso di sei mesi ed era dovuto trascorrere molto tempo prima che i pettegolezzi su chi era stato invitato e chi, al contrario, era rimasto escluso, si sopissero. Non c’era da stupirsi, dunque, se anche le strade limitrofe erano affollate di curiosi che si attardavano prima di rientrare a casa per cena e giornalisti a caccia di scoop: dopotutto, le feste di Lady Potnia nell’imponente Grand Ballroom del Plaza erano entrate nella storia sin dall’inaugurazione dell’hotel, tredici anni prima, e quella organizzata per il fidanzamento dell’anno prometteva di essere la migliore.

E poi c’era lei, l’ospite d’onore, la splendida Maia che della madre aveva ereditato solo la bellezza, mentre non vi era traccia in quel gioiello della società bene di New York dell’indisponenza e dell’alterigia di Potnia, sostituite da una leggerezza e una freschezza che rendevano Nathanael Rafael l’uomo più invidiato di Manhattan.

Abbie Rafael si guardava attorno soddisfatta, ammirando i riflessi di luce creati da cristalleria e argenteria sistemate su tovaglie pregiate, dispensando sorrisi e cenni del capo. Le candele profumavano l’aria di limone, quel profumo che ormai da anni Manhattan accostava alla piccola di casa Core, mentre sui tavoli scintillavano centrotavola di fiori che componevano le lettere N e M, in una celebrazione d’amore. Per Abbie quella sera era l’apice di un progetto lungo una vita intera ed era stata ben felice, in quei lunghi anni solitari, di accettare la superiorità e accondiscendenza dell’austera Lady verso la povera vedova pur di ottenere quel risultato. Maia, dopotutto, era tutto ciò che una madre potesse desiderare per il proprio figlio: bellissima e adorabilmente sciocca, abituata ad offrire al mondo ciò che il mondo voleva vedere, divenendo l’emblema stesso dell’elitè newyorkese. E se Nathanael fosse riuscito a spezzare la triste tradizione di famiglia avendo un figlio maschio, il nome dei Rafael sarebbe rimasto per generazioni all’interno di una delle più potenti famiglie d’America.

 

-Abbie, sei raggiante!

 

La donna si voltò verso il giovane uomo che le aveva rivolto parola e le occorsero alcuni istanti per riconoscere nel dandy che aveva davanti, il ragazzino partito anni prima per l’Inghilterra.

 

-Mike, mio caro, è una gioia rivederti.

 

-La zia ha dato il meglio di sé per il fidanzamento della bambina. Peccato solo per il XVIII Emendamento: queste prelibatezza,- aggiunse prendendo una tartina da un vassoio, -sarebbero state molto più gustose accompagnate da qualcosa di alcolico.

 

Abbie sorrise.

 

-La bambina ha sei mesi più di te e sì, immagino di sì, ma questi sono gli Stati Uniti d’America, mio caro, non l’Inghilterra.

 

Mike Core Bates, figlio della più giovane delle tre sorelle Core, osservò la signora Rafael con l’affetto di chi riconduceva a lei ricordi di un’infanzia felice: Nathanael non aveva mai trascorso molto tempo con i cugini Core, in parte perché era più grande, in parte perché il lavoro alla Demeter assorbiva tutto il suo tempo, ma Abbie era stata un’adorabile zia acquisita.

Le baciò la guancia e osservò sua zia Potnia al centro della sala, sfavillante al braccio di suo marito.

 

-È strano vederla senza collana, ma sono felice che passi finalmente a Maia.

 

-Sai, io c’ero quando la collana passò a lei. Ero sposata da neppure un anno e incinta di sei mesi: ricordo lo sguardo soddisfatto di Potnia come se fosse ieri, mentre la madre chiudeva il gancio… Deve essere un incubo per lei privarsene.

 

-Ne sono convinto, ma questa sera compenserà la perdita. Qualsiasi cosa lei possa pensare, comunque- aggiunse dopo un istante -questo è anche il tuo trionfo.

 

***

 

Nathanael Rafael non l’avrebbe mai ammesso, ma era nervoso: non che chiunque lo osservasse avrebbe notato tracce di qualcosa che non fosse una perfetta calma in raffinati abiti, ma pur essendo consapevole sin dalla più tenera età che quel momento sarebbe arrivato e benché tutto fosse perfetto, Nathanael era, in effetti, nervoso.

I Core, stranamente riuniti per l’occasione a New York dove la maggior parte di loro non viveva più da tempo, attendevano insieme a Abbie, Potnia e Olivier l’arrivo dei fidanzati, ma Maia ancora non era scesa dalla suite che la madre aveva prenotato per l’occasione e Nathanael stava meditando di andare a controllare che tutto andasse bene: si sarebbe certamente reso ridicolo, ma da otto anni viveva nel costante terrore che qualcosa potesse portarla via da lui. Maia fingeva di non ricordare, ma lui non poteva dimenticare l’angoscia provata alla notizia del naufragio e il dolore all’idea che lei non fosse riuscita a salvarsi: la sua vita, nonostante i soldi e il potere che negli anni aveva conquistato, non avrebbe avuto alcun valore senza Maia.

 

-Non credevo potessi raggiungere nuovi livelli di eleganza, ma riesci sempre a stupirmi.

 

-Non credevo potessi raggiungere nuovi livelli di insolenza, ma riesci sempre a stupirmi.

 

-Far sì che la tua vita non sia mai noiosa è lo scopo della mia!- esclamò Maia prendendo il fidanzato sottobraccio, l’anello scintillante all’anulare sinistro.

 

Nathanael sospirò, mascherando il sollievo con una finta rassegnazione.

 

–Sei pronta?

 

Maia annuì. –Diamo a New York ciò che New York vuole vedere.

 

Nathanael scortò Maia al centro della pista da ballo e attese che l’orchestra iniziasse a suonare,  incurante di qualsiasi cosa che non fosse la creatura che stringeva tra le braccia.

Almeno finché la musica non riempì l’aria.

 

-Sei un piccolo diavolo impenitente. 

 

Maia lo osservò divertita.

 

-Perché mai?

 

-Hai scelto per il nostro primo ballo da fidanzati una musica barocca! Se non fossi tu, domani saresti sulla bocca di tutti e non in maniera piacevole.

 

-Saremmo,- sottolineò lei. -Ma sei fortunato che io sia io e che domani tornerà in auge la musica barocca.

 

Nathanael nascose un sorriso tra i capelli di lei, stringendola a sé: sembrava così solida tra le sue braccia, così perfettamente giusta, eppure era e sempre sarebbe stata sfuggente, come se gli mancasse sempre un dettaglio per afferrarla davvero e tenerla legata a sé.

Non si faceva illusioni: Maia gli era affezionata, ma nonostante professasse amore, difficilmente era matura al punto da sviluppare un sentimento così intenso. Lui, d'altro canto, l'amava come non avrebbe mai creduto di poter amare qualcuno e soprattutto non lei, la bambina viziata e coccolata che aveva tutto, mentre lui doveva combattere con le unghie per conquistare il proprio posto nel mondo. La pelle di Maia brillava diafana alla luce dei grandi lampadari e lui dovette lottare con tutte le sue forze il desiderio di sfiorarla con le labbra: non era il luogo, non era il momento...
Strinse la presa e Maia lo lasciò fare, permettendogli di cullarsi nell'illusione di possederla davvero.

 

***

 

-Questa musica è pessima. Cos’ha che non va il jazz?

 

Mike si voltò verso la cugina e le sorrise divertito.

 

- È scontato, contrariamente a questa musica e ti dispiace non avere avuto tu quest’idea.

 

Corinne sbuffò, osservando l’ampio salone e i volti degli ospiti intenti ad osservare la coppia d’oro di New York. Doveva ammetterlo: Maia era scintillante in quell’abito dorato e Nathanael era impeccabile come sempre. Avrebbe dovuto odiare la cugina, avrebbe avuto tutte le ragioni per farlo, ma era impossibile non amare una creatura come Maia e questo la indispettiva, se possibile, ancora di più.

 

-Per fortuna che dopo il ridicolo scambio della collana potremo andare via, ho bisogno di bere. Hai da bere, vero?

 

-Vuoi tacere, donna? Non è Parigi questa, Abbie mi ha appena ammonito severamente.

 

Corinne cercò la signora Rafael e la trovò, come tutti, in contemplazione del figlio e della futura nuora, e nei suoi occhi si leggeva un amore così sincero da stridere con la soddisfazione che palesava la zia Potnia, fredda e calcolatrice anche in quella circostanza. Stava per riferirlo a Mike quando una figura isolata e palesemente cupa in quella moltitudine sfavillante attirò la sua attenzione.

 

-Non è Hasmal quello?

 

Mike seguì lo sguardo della cugina.

 

-Sì, è lui. Come mai è qui? Non si fa vedere in giro da quando…

 

Non serviva continuare la frase perché entrambi ricordassero la festa nella villa dell’Ambasciatore, per celebrare la fine della guerra, quando il pittore, palesemente ubriaco, aveva inveito contro quella società la cui unica colpa era guardare avanti anziché crogiolarsi nei ricordi. Di Gabriel, così si chiamava, non si erano più avute notizie fino a quella sera.

-Sarebbe divertente vedere la faccia della zia se decidesse di urlarci contro nel momento della collana.

 

Corinne nascose una risata dietro il bicchiere pieno di qualche intruglio analcolico, poi tornò ad osservare la cugina, chiedendosi se la invidiasse davvero. Da piccola lei e sua sorella avevano fantasticato spesso su come sarebbe stato indossare la collana di diamanti, essere l’erede della Demeter, e non poteva negare che Maia fosse una ragazza fortunata: ricca, bella, benvoluta in società e con un fidanzato praticamente perfetto, eppure le mancava qualcosa a cui lei non avrebbe mai rinunciato. Era il 1920, il mondo stava cambiando e le donne iniziavano a possedere qualcosa che Corinne sfoggiava con orgoglio, ma di cui Maia non sembrava sentire affatto la mancanza: la possibilità di scelta.

Era figlia di una donna che aveva scandalizzato la società di fine ottocento scegliendo di non rimanere, come le altre donne Core, in disparte lasciando che fossero i mariti a dirigere l’impresa di famiglia, ma di prenderne in mano le redini e condurla non solo attraverso un nuovo secolo, ma anche attraverso una guerra, eppure Maia non aveva nulla del carattere della madre: era fogliame nei boschi, laddove Potnia era una roccia, forse sgradevole a vedersi, ma solida e immutata.

No, Corinne non avrebbe cambiato la propria vita per quella della cugina, ma quando un valletto fece il suo ingresso portando un cuscino di seta rossa, il suo cuore perse un battito: maledetta o meno che fosse, quella era La collana.

 

***

 

Erano cambiati gli abiti, lo champagne non scorreva più a fiumi ma quella che aveva davanti era la stessa gretta società che prima della guerra l'aveva osannato e pagato più soldi di quanto meritasse, che era stata più che contenta quando si era trasformato in un "pittore maledetto", ma che non gli aveva mai perdonato la verità. Perché tornare, dopo tutti quegli anni, proprio quella sera, Gabriel non avrebbe saputo dirlo, eppure quando Abbie, l'unica a non aver mai cambiato strada ogni volta che in quei due anni l'aveva incontrato, l'aveva invitato, un rifiuto non era mai stato contemplato. Nathanael Rafael era lo stesso uomo solido, impeccabile e apparentemente distaccato da tutto che ricordava: un uomo su cui fare affidamento. Svettava, tra tutti, come l'unico che non portasse una maschera, l'unico che comprendesse la vita. Eppure, un uomo così, da stella diventava mero satellite quando lei era presente. Maia Core Myrthus, il gioiello dell'alta società di Manhattan, la bambina viziata, l'erede di un impero. Per un istante una parte di lui si chiese quanto entusiasmante sarebbe stato ritrarre quegli occhi brillanti privi di dolore... Ma fu solo un attimo, prima di provare l'irrefrenabile desiderio di sporcarla e farle comprendere che la vita, quella vera, non era quella che conosceva lei, rinchiusa in un castello di bellezza e perfezione, ma era un intricato miscuglio di sangue e morte.

 

Non c’era da stupirsi che la bambina che ricordava si fosse trasformata in quella giovane donna: con una madre ingombrante come Lady Potnia, Maia sarebbe potuta diventare una sua brutta copia, oppure lasciare ad altri la direzione della Demeter per diventare la perla dell’alta società, la bambolina da coccolare. Un po’ di carattere, a giudicare dalla musica del primo ballo, doveva averlo, ma non abbastanza per scegliere di allontanarsi dalla strada che avevano tracciato per lei, per vivere davvero e non solo esistere.

Più che un gioiello, la collana che Potnia stava prendendo sembrava una condanna all’immutabilità, l’impossibilità di cambiare un destino deciso secoli prima e che si ripeteva con la stessa costanza con cui il sole continuava a sorgere ogni giorno. Maia non sarebbe stata che un nome su un albero genealogico, nulla più, come se non fosse mai esistita davvero. Cristallizzata nel tempo.

Da artista quale era, Gabriel sapeva bene che tutto cambiava, persino le opere d’arte con cui l’uomo cercava scioccamente di fermare il tempo.

 

-Signore e signori, vi ringrazio di essere qui a condividere questo momento speciale per la mia famiglia. Questa collana arriva da un mondo e un tempo lontano e viene tramandato di madre in figlia da generazioni. Quando mia madre me la diede il mondo era diverso, talmente diverso che se oggi fosse qui stenterebbe a riconoscerlo, ma l’invito che mi fece è lo stesso che io stasera rivolgo a mia figlia. Maia, cara, vieni qui.

 

Allungò la mano verso la figlia e la osservò staccarsi da Nathanael e avvicinarsi, mentre nella sala regnava il silenzio: l’abito, per quanto troppo sfacciato, la faceva risplendere nei suoi ventiquattro anni, con la luce di chi ha una vita davanti a sé e il mondo intero ai propri piedi.

 

-È tempo per te, mia adorata, di scegliere chi vuoi essere, di prendere in mano la Demeter, che è parte di te come di tutti noi. Il melograno era il simbolo di Caterina d’Aragona, una donna forte che, nonostante le difficoltà e i dolori, non si è mai fatta piegare dalla vita. La nostra antenata la onorò così, con questa collana, e noi la onoriamo tutt’oggi,- chiuse il gancio e osservò ciò che per tanti anni era stato suo. –Un domani tu compirai lo stesso gesto su tua figlia o su tua nuora e capirai l’emozione che provo io in questo momento.

 

Prese un calice, lo alzò verso i presenti. –A Nathanael, che il 31 dicembre entrerà ufficialmente a far parte della famiglia. E a mia figlia, che questo sia solo il primo passo per un futuro sfolgorante.

 

Tutti bevvero. Gabriel posò il bicchiere senza neppure toccarlo e uscì.

 

***

 

La luna non era che uno spicchio, in quel martedì di Aprile. Il Gabriel di un tempo avrebbe amato Central Park in quel periodo, mentre tornava alla vita dopo un lungo, gelido inverno. Avrebbe preso un foglio e un carboncino dalla tasca e avrebbe cristallizzato l’attimo, immoto in eterno, poi sarebbe tornato nell’attico tra la 57th Avenue e Broadway e avrebbe dipinto fino a crollare sul divano con le mani sporche di colore e l’odore di trementina a saturare l’aria.

Il Gabriel di quel tempo si limitò ad osservare la primavera con il distacco di chi nella vita non ha più nulla da perdere né da donare; prese il tagliasigari dalla tasca, ma il suono di tacchi sull’asfalto che, per qualche motivo, sembrava spiccare su qualsiasi altro rumore, lo bloccò.

Limone.

L’odore di quella stramaledettissima festa.

 

-Perdonate se vi importuno signore, ma credo vi sia caduto questo.

 

Un carboncino scivolato dalla tasca, l’unica abitudine che non era mai riuscito a perdere, il segno tangibile di quella parte di lui che non si rassegnava all’inevitabile. Quella parte che avrebbe voluto uccidere.

 

-Non è mio.

 

Lo sguardo chiaro della ragazza vacillò un istante, ma non replicò e sorrise, stringendo il carboncino tra nel pugno della mano: non serviva guardarle il collo per riconoscerla.

 

-Siete la giovane Core.

 

Una costatazione tinta di un’ostilità a cui la giovane non doveva essere abituata: cionondimeno il sorriso non svanì, ma si fece, se possibile, ancora più largo. -Maia.

 

-Maia Core,- replicò brusco. Davanti a lei aveva una delle tante donne Core, e Maia, se esisteva davvero da qualche parte dentro di lei, non riusciva ad emergere.

 

-Maia Core Myrthus, giacché vi piace essere preciso. Non voglio certo negare chi sono,- aggiunse poi, sfiorando distrattamente la collana e fraintendendo il pittore, – Con questa sarebbe leggermente difficile: mi etichetta come Core o come ladra. Ma ho un nome e mi piace usarlo.

 

Aveva un nome, ma chi si celava dietro di esso? Una rosa, anche se chiamata con un altro nome, avrebbe serbato pur sempre lo stesso dolce profumo, ma Maia senza quel cognome sarebbe stata la stessa persona, avrebbe avuto lo stesso odore? Limone.

 

-Voi eravate alla festa, vi ho visto parlare con Abbie. Chi siete, oltre che un artista?

 

Gabriel scoppiò a ridere, di una risata priva di qualsiasi gioia e calore e quasi non si accorse di Maia che indietreggiava appena.

 

-Artista?- domandò prendendo una fiaschetta dalla tasca.

- Carboncino. Lascia sulle mani segni inconfondibili.

 

Mani grandi, con le vene in rilievo che avevano attirato le sue attenzioni sin dal primo momento. Il motivo inconscio per cui si era avvicinata.

 

-Whisky.

 

Maia lasciò andare il fiato che non si era accorta di aver trattenuto, rilassandosi appena. –Vi chiamate Whisky o me lo state offrendo? Perché nella prima ipotesi è un nome ben strano, nella seconda…- si guardò appena attorno, ma poi prese la fiaschetta. –rischieremmo l’arresto.

 

-Io, forse, ma non la rampolla dei Core che non avrà mai il coraggio di berlo.

 

Eppure lo bevve e, nonostante i suoi occhi chiari fossero diventati lucidi, la ragazza ingollò l’alcol con la classe di chi è avvezzo a consumarlo.

 

–Se dovete disprezzare così il mio nome,- commentò con una freddezza di cui non l’avrebbe creduta capace, -abbiate almeno la decenza di dirmi il vostro.

 

-Gabriel Hasmal,- le rispose riprendendo la fiaschetta dal bordo appena sporco di rosso.

 

Per Maia fu come un lampo, un susseguirsi di immagini che la sua mente non voleva formare. Balli e cene di gala e odore di salsedine. E poi quel quadro. Quella donna.

 

-Ho visto una vostra opera, tanto tempo fa. Era… Non saprei neanche descriverlo. Era come se la vita fuoriuscisse dalla cornice e travolgesse lo spettatore.

 

Un tempo, quelle parole lo avrebbero emozionato, ma in quel tempo Gabriel Hasmal stava voltando le spalle alla ragazza, pronto ad andarsene.

 

-Era una donna in abito rosso. Era bellissima.

 

***

 

Nessuno sembrava sapere dove fosse la festeggiata, ma Nathanael, pur non avendola vista uscire, sapeva perfettamente che la sua fidanzata –ormai poteva usare quell’appellativo legittimamente- era uscita per controllare che i fuochisti fossero pronti ad illuminare la notte newyorkese: per Maia tutto doveva essere perfetto.

 

Uscì dall’hotel mentre i futuri suoceri invitavano gli ospiti a salire sul terrazzo per ammirare lo spettacolo e non si stupì nel trovarla sul marciapiede che si affacciava su Central Park, con addosso solo l’abito leggero nonostante il fresco. Ciò che lo spiazzò fu, però, trovarla in compagnia non solo di un uomo, ma di quell’uomo in particolare, l’artista che aveva fatto scandalo.

Nathanael lo comprendeva: anche lui, nonostante i Core fossero riusciti ad evitargli l’arruolamento, si chiedeva come potesse quella società comportarsi come se nulla fosse mai successo. Rimanere incastrati nel passato insieme ai propri mostri, perso in un vortice di alcol e rimpianti come faceva Gabriel, non era giusto, ma ignorare ciò che era stato, le lacrime versate e il terrore provato impediva a quel mondo di cambiare in meglio.

Ma, dopotutto, non era forse la guerra che aveva combattuto negli ultimi otto anni, lui da solo contro una realtà che qualcuno non aveva il coraggio di affrontare?

 

-Maia, mia cara, siamo tutti pronti, aspettiamo un tuo segnale.

 

La ragazza si voltò verso di lui con il sorriso stampato sulle belle labbra rosse. Hasmal, d’altro canto, sembrava pallido.

 

-Signor Hasmal, è un piacere rivedervi.

 

-Anche per me signor Rafael e congratulazione. Signorina Core,- aggiunse poi, -il quadro.

 

Nathanael non avrebbe saputo spiegarsene il motivo, ma il tono di Gabriel era tinto di una sofferenza che lo spinse a richiamare l’attenzione di Maia egli stesso, pur conscio dell’inutilità: i fuochi d’artificio avevano assorbito tutta l’attenzione della sua fidanzata e nulla di ciò che potevano dire l’avrebbe riportata da loro.

 

Fragilità, il tuo nome è donna.

 

-Ve lo racconterò un’altra volta. Nat, andiamo, stanno per iniziare.

 

Non ebbero il tempo di salire in terrazza. Il primo fuoco esplose in uno scintillio rosso che si rifletté negli occhi di Maia e se lei era luce sfolgorante, Gabriel che si allontanava era immerso nell’ombra più scura.

Nonostante fossero apparentemente così diversi, Nathanael stupì se stesso trovandoli al contrario irrimediabilmente simili: i loro mostri avrebbero mai smesso di schiacciarli? Posò la propria giacca sulle spalle di Maia e osservò quel volto così amato mentre gli altri osservavano il cielo, finché tutto tacque e rimasero soli.

 

-Di quale quadro parlava?- domandò dopo alcuni istanti, riprendendo il filo di un pensiero che l’aveva ossessionato per tutto il tempo, fuoco dopo fuoco.

 

-Di uno suo, che ho visto tempo fa. Vorrei essere ritratta da lui, è così bravo. Glielo chiederai?

 

Il tono di Maia era dolce come il miele e Nathanael sapeva che non avrebbe saputo dirle di no: cionondimeno quel quadro a cui lei non sembrava dare importanza aveva sconvolto profondamente il pittore ed egli voleva conoscere la ragione.

 

-Dove l’hai visto?

Gli bastò che lo sguardo di Maia vagasse distratto lontano dal suo, prima ancora che pronunciasse un non ricordo, proprio lei che poteva ricordare cosa indossava una qualsiasi signora a una qualsiasi festa celebratasi anni prima, per comprendere dove in effetti l’avesse visto. L’unico ostacolo tra di loro, tutto quel non detto che Nathanael provava inutilmente a colmare sin da quando era successo.

-Ci proverò, ma è risaputo che non accetta più lavori su commissione da anni…

Il volto di Maia tornò a brillare. –Oh, mio adorato, se qualcuno può convincerlo quello sei tu! Lo farai per me?

Nathanael annuì: qualsiasi cosa per vederla sorridere.

 

 

Il mare era calmo quella notte, così calmo che non lo si riusciva a sentire infrangersi sul Titanic.

E il cielo era pieno di stelle, così tante che quasi la soffocavano.

C'erano le pleiadi da qualche parte lì in alto.

Quiete.

Solenni. Silenziose.

Poi una campana infrange il silenzio. Qualcuno urla.

Il mondo sembra tremare per un istante infinito. Una luce rossa tinge il cielo. Un fuoco d'artificio?

Maia non avrebbe saputo dirlo.

 

 

 

 

 

 

New York, 7 aprile 1969



Quella sera, ogni cosa sembrava risplendere: i maestosi lampadari di cristallo per cui era famoso l’hotel, i favolosi gioielli e accendini d’argento degli invitati, il sorriso di sua madre quando aveva fatto l’annuncio, le coppe di champagne che si erano librate in aria, il diamante che le era scivolato lungo l’anulare. Tutto luccicava, ma nulla sembrava paragonabile allo sguardo di Duncan, i cui occhi celesti scintillavano di un passato in cui le era sempre stato vicino, come amico e protettore da bambini, come primo e unico amore da grandi.

Merope non poteva fare a meno di chiedersi come apparisse lei quella sera. Era il ritratto della felicità come lo era Duncan, mentre la stava conducendo al centro della sala? O risultava terribilmente ingessata come si sentiva in quel momento?

Si lasciò condurre dal fidanzato, senza neanche fare caso all’educato applauso mentre una mano veniva poggiata sulla sua schiena e un’altra le prendeva con gentile fermezza la sua, sollevandola. Solo quando quelle note iniziarono a risuonare, Merope venne distolta dai suoi pensieri.

 

-My funny valentine…- iniziò a mormorarle una voce familiare all’orecchio, -Sweet comic valentine…- continuò a canticchiare quando lei alzò la testa a guardarlo sorpresa, -You make me smile with my heart …

 

-Sono perdonato?- le sorrise sfrontato.

 

Merope sbuffò, sforzandosi di non abbandonarsi a quel sorriso contagioso. -Per cosa dovresti essere perdonato?

 

-Eri decisa a non voler festeggiare il fidanzamento…

 

-Stasera, Duncan,- lo interruppe infastidita,- È tanto difficile capire che avrei preferito avere il giorno del mio compleanno tutto per me?

 

-Te ne saresti stata tutta la sera a scrivere quel tuo diario e nessuno avrebbe potuto vedere quanto sai essere radiosa.- le disse, abbracciandola più stretta,- Ma soprattutto ti saresti persa qualcosa di sensazionale…

 

-E cosa?- domandò mentre il malumore se ne andava com’era venuto.

 

-Un uomo che ti dedica parole d’amore…

 

La baciò sulle labbra con tutta la delicatezza di cui era capace. Si avvicinò all’orecchio e, scostata una ciocca bionda con la punta del naso, tornò a mormorarle le parole della loro canzone.

 

- But dont change a hair for me, not if you care for me, stay little valentine stay.

 

Era una canzone strana, My Funny Valentine. A seconda dell’interprete poteva sembrare una delle più struggenti o stucchevoli canzoni jazz di sempre. Quella sera, però, alle orecchie stanche di Julian risuonava terribilmente melensa. La sala, con tutte le sue decorazioni scintillanti e sorrisi artefatti, sembrava racchiusa in una boccia di cristallo: dov’erano finiti i disordini e le tensioni che attraversavano New York in quei giorni? Dov’erano i resoconti sconfortanti di una guerra senza senso? Dov’erano le lacrime e la rabbia per la morte di grandi e piccoli uomini?

Quella sera d’aprile, tiepida e accogliente, sembrava di essere tornati indietro di almeno vent’anni. Non sembrava di essere alle porte di un nuovo oscuro decennio, che non si sapeva cosa avrebbe portato. Appariva tutto così rassicurante, così falso…

 

La splendida Francine gli era seduta accanto con la solita eleganza, senza nemmeno nascondere le occhiate divertite per il fastidio che doveva leggergli sul viso. Fastidio che, ovviamente, aumentava ad ogni sorriso della donna: se la memoria non lo ingannava, si erano conosciuti a una di quelle assurde feste organizzate da quel pittore e, mentre lei aveva iniziato a blaterare qualcosa sulle sue poesie, Julian non aveva perso tempo a portarsela a letto. Sapeva che donne come lei frequentavano gli ambienti underground solo per uno scopo. E se anche lei era solita dire che amava investire i suoi soldi nell’arte, entrambi sapevano che portarsi dietro un artista squattrinato era solo un capriccio, la moda del momento.

Forse avrebbe dovuto offendersi. Forse avrebbe dovuto dare una lezione a quella donna. Ma era vero, Julian Cuveé non aveva un soldo né la minima intenzione o capacità di fare qualcosa di diverso dallo scrivere poesie e romanzi che difficilmente lo avrebbero arricchito. Così lasciava che donne come Francine lo portassero dove più desideravano e l’unica piccola ribellione che si concedeva era quella di ostentare un silenzio scontroso, una maleducazione piena di sdegno. Così, era stato deludente scoprire che nessuno, al suo tavolo, aveva battuto ciglio quando aveva trangugiato lo champagne senza attendere il brindisi, chiedendo subito dopo che gli venisse portato qualcosa di più forte. Neppure avevano fiatato quando era rimasto seduto, mentre tutti ascoltavano la loro ospite annunciare il fidanzamento dell’adorata figliola con un tizio dal cognome sconosciuto.

 

-Caro, guarda chi arriva… quasi non lo riconoscevo vestito da damerino,— commentò Francine: James Core Palmer stava camminando verso di loro, con il sempiterno sorriso untuoso in pendant con un vestito su misura che qualcuno della famiglia doveva avergli imposto per l’occasione.

 

-Francine… temevo che non saresti venuta,- la salutò con un baciamano un po’ meno breve di quanto avrebbe dovuto, facendo poi un vago cenno a Julian. Ovviamente la sua famiglia non doveva sapere che Julian rientrava nel giro di conoscenze del loro rampollo.

 

-Oh, Julian non lo avrebbe sopportato,- rispose la donna divertita,- Come potevamo perderci il fidanzamento dell’erede di casa Core con… come hai detto che si chiama l’autista?- chiese marcando l’accento sull’ultima parola.

 

James scoppiò a ridere, prendendo posto accanto all’amica.

 

-Cattiva Francine… Il padre era l’autista, Duncan è a tutti gli effetti nell’amministrazione della società.

 

I due interruppero la loro conversazione, quando la loro ospite attirò nuovamente l’attenzione degli invitati.

 

-Parenti, amici, Merope e Duncan,-  iniziò con un sorriso artefatto e controllato, -Spero mi perdonerete se rubo altro tempo ai festeggiamenti, ma la tradizione è un richiamo troppo forte e non può essere ignorato.

 

A New York tutti conoscevano la Demeter e la donna che di fatto guidava quella società di fama mondiale. E se anche qualche sprovveduto avesse ignorato la sua fama, la forza che promanava da Chloe Core Silvery era così grande da soggiogare tutti intorno a lei. Non gli piaceva, decise Julian mentre la osservava: era una bellezza dai capelli castani e gli occhi chiari; eppure, le mancava qualcosa che era appartenuto – e tuttora apparteneva – alla madre, il cui nome Julian adesso non riusciva proprio a ricordare… Il nome di una stella, il nome di una Pleiade…ma quale?


Il punto era che Chloe emanava una luce che finiva con il relegare tutti nell’oscurità. E ora che Julian ci pensava, non c’era da stupirsi se non aveva ancora notato la festeggiata, l’ultima e più importante delle Core esistenti.

 

-È tradizione della nostra famiglia che alla primogenita venga fatto dono di un gioiello antico, che si dice essere stato creato per una lontana antenata dei Core. Ricordo ancora l’emozione di quando, la sera dei miei ventiquattro anni, mia madre lo accostò per la prima volta al mio collo, parlandomi  di quanta forza fosse necessaria per indossare una simile collana. Credo che fosse il suo modo di prepararmi al ruolo che una famiglia come la nostra ci impone. Così anch’io, cara Merope, voglio farti dono di questo simbolo, così che tu possa sempre ricordare che la tua famiglia ti ama ed è pronta a guidarti in questa nuova fase della tua vita.

 

Dal caloroso applauso che echeggiò per la sala, Julian poté soltanto indovinare che in quel momento Chloe stava prendendo la collana da un cofanetto per farla indossare alla figlia. In realtà, se avesse avuto un minimo di curiosità gli sarebbe bastato alzarsi dalla sedia come avevano fatto tutti gli invitati. Ma se c’era qualcosa che davvero detestava quelli erano proprio la retorica e l’orgoglio di classe che erano trapelati dalle parole della donna.

 

Mentre tornavano a sedersi, Francine buttò lì un altro commento in direzione di James.

 

-Non capisco come quello squalo di tua zia abbia accettato di affidare i suoi due tesori a qualcuno che non fa parte del nostro mondo.

 

-Oh beh, la zia non è esattamente una sciocca,- sorrise sarcastico l’altro, guardandosi intorno prima di continuare,- Hai visto mia cugina Mer: bella come una dea, ma delicata come una principessa delle fiabe. È sempre stata così come la vedi: timida, impacciata… Ora, credo che la cara zietta già da anni temeva che una persona così fragile sarebbe stata poco adatta alla guida della società. Così ha sfruttato la sua cotta per Duncan a suo vantaggio, investendo un bel gruzzolo nella formazione del figlio del suo autista. Le scuole più rinomate, le amicizie più altolocate, stage e master all’estero… Solo il meglio per il futuro della Demeter!

 

-E a te sta bene?- chiese l’altra scettica.

 

L’altro sollevò le spalle. -È uno squalo, la versione maschile e più giovane di mia zia. Finché i profitti spettanti alla mia famiglia aumenteranno, senza che io debba muovere un dito perché dovrei lamentarmi?

 

Francine scoppiò a ridere.

 

-Oh bene, qui ci vuole un brindisi all’autista–dirigente! Julian, da bravo, andresti a prenderci dell’altro champagne?

 

-Franckie,- l’apostrofò Julian, alzandosi dalla sedia,- dovresti ricordarti della parità dei sessi anche fuori dal letto.

 

Sapeva che quella battuta l’avrebbe pagata cara, ma era davvero risentito con lei per averlo condotto in un posto come quello. Lì tutti erano a conoscenza della storia dei Cuveé, avevano ben chiaro che se le cose fossero andate diversamente a Julian sarebbe spettato un posto fra loro. E il fatto poi che assomigliasse così tanto a suo padre non lo aiutava per niente: anche in quel momento, mentre si faceva spazio per raggiungere il bar, sentiva che continuavano ad osservarlo, scambiandosi commenti e aneddoti su episodi di circa vent’anni prima, aspettandosi forse che da un momento all’altro si mettesse a fare qualche scenata per cui suo padre era diventato tanto famoso.

Del resto, anche Julian era uno scrittore. Anche lui alternava lunghi momenti taciturni a scatti d’ira preoccupanti, incapace di tirarsi indietro quando qualcuno aveva la malaugurata idea di pestargli i piedi. Anche lui amava l’alcol, le droghe e una vita decadente. Lui, però, non aveva mai avuto il denaro che tutto sapeva giustificare…

 

Rimase accanto al bar a sorseggiare con tutta calma il suo whiskey. Per ignorare le occhiate che gli venivano rivolte, cominciò a guardare con più attenzione la pista da ballo e fu proprio in quel momento che la vide per la prima volta: una delle più rare collane esistenti al mondo. Non che lui ne capisse qualcosa: ai suoi occhi ignoranti quella serie di pietre altro non erano che dei rubini. E invece no: come gli aveva spiegato prima Francine, erano rarissimi diamanti rossi.

Non seppe dire il motivo, ma quell’intricata trama di diamanti esercitava in lui un’insolita attrazione, al punto da non riuscire a distoglierne lo sguardo. L’oro bianco avvolgeva il collo delicato della ragazza Core mentre i chicchi rossi si diramavano sulla pelle diafana del petto, come a volerla intrappolare in una morsa e trascinarla così in un luogo tetro.

Non aveva nulla di frivolo quel gioiello. E Julian pensò che per indossarlo senza farsi sopraffare dal suo peso ci volesse una grande forza, una luce interiore che di rado aveva scorto in una donna.

 

-Ti trovi alla sua festa di fidanzamento, non trovi un po’ inopportuno fissarla in quel modo?

 

-Di chi parli?- chiese senza degnare James di uno sguardo.

 

-Di mia cugina Mer.

 

Come colto da un presentimento, Julian sollevò lo sguardo dalla collana e rimase senza fiato. Lì, tra quella folla grigia di gente ordinaria, c’era lei… quella lei di cui Julian e, ancora prima di lui, suo padre avevano cercato invano di scrivere. Ne era sicuro: glielo dicevano quei capelli chiarissimi, gli occhi luminosi, il sorriso timido con cui si rivolgeva ai suoi vicini e l’allegra risata che sapeva irrompere inattesa. Era lei…

 

-Come hai detto che si chiama?

 

-Merope. Credo ci sia di mezzo un’altra tradizione della nostra famiglia…

 

La Pleiade meno luminosa…


-Presentaci.

 

In fin dei conti, doveva dare ragione a Duncan. Più passavano le ore, più si sentiva raggiante, al centro di quel piccolo mondo che si era riunito per festeggiare il loro fidanzamento. La coppa che teneva in mano era sempre piena di champagne – un piccolo strappo a una delle regole di casa Core –, la mano di Duncan era sempre sulla sua schiena, tutti erano pronti a farla ballare e divertire.

 

Si girò verso i tavoli, alla ricerca della persona cui in fondo doveva la felicità di quella sera. La trovò circondata dall’onnipresente combriccola di amiche e ammiratori. Se anche l’età iniziava a lasciare dei segni sul volto perfetto, la bellezza di sua nonna era in grado di andare oltre il tempo e di abbagliare i poveri sprovveduti che avevano l’ardire di posare gli occhi su di lei. Come sempre, quando si trovava nell’alta società, stava conversando serena, con l’amabile sorriso che sapeva conquistare chiunque.

 

Come se l’avesse chiamata a voce alta, la donna alzò lo sguardo e la sorprese a contemplarla. Il sorriso si fece più ampio – più genuino – e Merope si ritrovò inevitabilmente a ricambiarlo: prima di uscire, quella sera, la nonna era arrivata a casa e, trovandola piuttosto nervosa per la festa, le aveva dato dei preziosi consigli per affrontare la serata. “Non devi lasciare che siano gli altri a definirti, devi essere tu a dire loro come devono vederti”.

All’improvviso, un’ombra passò nello sguardo della donna, tanto da incrinare il sorriso in una smorfia turbata. Adesso non guardava più la nipote: la sua attenzione sembrava catturata da qualcosa che si trovava alle spalle di Merope. Come colta da un presentimento, la ragazza dovette voltarsi, trovandosi davanti la figura allampanata di suo cugino James e un volto che non aveva mai visto prima.

 

-Duncan, hai mai sentito parlare di Julian Cuveé?- iniziò James con un cenno allo sconosciuto.

 

Quel nome, che a Merope non diceva proprio nulla, sembrò catturare l’attenzione del fidanzato, i cui occhi si posarono sul nuovo arrivato.

 

-Certo, non mi intenderò di arte, ma è un nome piuttosto famoso,- disse con un sorriso affabile, mentre gli porgeva la mano,

-Duncan Ambroser.

 

-Anche il suo nome è piuttosto famoso,- lo salutò l’altro con un gesto impercettibile del capo.

 

La prima impressione di Merope fu che quell’uomo appariva incredibilmente fuori posto. Come gli altri, anche lui indossava un elegante quanto appropriato vestito nero. Ciononostante c’erano dei particolari che sembravano voler marcare la differenza tra lui e tutti quelli che lo circondavano: il papillon nero era un po’ storto e non abbastanza stretto alla gola, i capelli scuri non erano tirati indietro ma erano lasciati completamente disordinati, gli occhi poi…in origine dovevano essere di un insolito grigio…ma in quel momento erano terribilmente arrossati e lucidi.

 

-Sono rimasto talmente colpito da questa coppia così bella che ho sentito di dovervi fare le mie congratulazioni.  Lei e la sua fidanzata siete a dir poco abbaglianti, insieme.

 

Era un complimento cui Mer e Duncan erano abituati. Ma qualcosa sul volto affilato dell’artista – forse lo sguardo attento o forse il sorriso appena accennato – le suggerì che a quelle parole attribuiva un significato particolare.

 

Duncan sorrise orgoglioso, mentre la sua mano spingeva gentilmente la schiena di Merope per farla venire avanti.

 

-Mer, hai davanti uno degli scrittori più talentuosi di NY,- poi si rivolse nuovamente a lui ,-Dubito che lei la conosca. Fate parte di un ambiente completamente diverso e soprattutto scrive di cose che lei non leggerebbe mai. Comunque, Merope Core Silvery… Julian Cuveé.

 

Mer non si era nemmeno resa conto che mentre Duncan parlava si era portata una mano sulla collana, come se improvvisamente sentisse un’inspiegabile affinità con quel gioiello che poco prima le era parso così estraneo. Così dovette costringere la mano ad allungarsi verso quella affusolata che lo scrittore le stava porgendo.

 

Mentre ancora le due mani estranee si stringevano, Julian tornò a parlare. -Mi concede un ballo?

 

Fu semplice impulso per Merope lasciare quella mano incredibilmente fredda e dire un secco “no”. Tutti la guardarono imbarazzati: era raro che Merope dicesse no a una qualsiasi richiesta, figurarsi in un contesto del genere.

 

-Mer, sei forse stanca?- le domandò premuroso il fidanzato, -O forse credi che potrei ingelosirmi?

 

Lei scosse la testa e biascicò delle scuse.

 

-Non so cosa mi è preso, certo che ballerò con lei,- tentò di recuperare con un sorriso teso.

 

In mezzo a una serie di volti imbarazzati, lo sconosciuto continuava a guardarla per nulla turbato. Anzi le sembrò piuttosto divertito, quando tornò a rivolgerle la parola.

 

-Che sia stanca o non voglia turbare il fidanzato, preferisco aspettare che desideri ballare davvero prima di invitarla di nuovo. O magari sarà lei a chiedermelo…

 

Duncan si mise a ridere, seguito dai suoi amici. Merope, invece, continuò a fissare l’uomo: quelle parole avevano il sapore di una promessa.

 

-Visto che siamo stanchi di ballare, andiamo a sederci da qualche parte,- propose qualcuno.

 

Era sempre così alle feste organizzate dai loro genitori: i ragazzi aspettavano il momento più opportuno per fuggire dall’opprimente controllo dei padri e, soprattutto, per portare le ragazze lontano dagli sguardi attenti delle madri. Mentre seguiva Duncan, Merope ricordò che proprio in un’occasione come quella si erano scambiati qualcosa di più che i casti baci consentiti a casa.

 

Quando il gruppetto giunse in una grande terrazza buia, vennero accolti da una brezza fredda che fece rabbrividire le ragazze nei loro abiti scollati. Duncan fu subito pronto ad avvolgere Merope nella sua giacca, facendola poi sedere sulle sue gambe, quando prese posto su una panchina.

 

Qualcuno, Daphne o forse Elena, tirò fuori due bottiglie di Bourbon il cui contenuto sostituì lo champagne rimasto nelle coppe. Mentre qualche coppia iniziava ad allontanarsi e qualcun altro iniziava a sproloquiare, Duncan continuava a bere e a non mostrare segni di ebbrezza. Mer non aveva idea di come ci riuscisse, ma sembrava sempre tenere sotto controllo la sua mente. Era confortante, perché in quel modo sentiva di poter allentare la presa su se stessa e lasciarsi andare tranquilla, perché tra le quelle braccia non le sarebbe mai capitato nulla di male.

 

Mentre teneva la testa poggiata sulla spalla del fidanzato per combattere un violento capogiro, lo sentì rivolgersi di nuovo allo scrittore.

 

-Non sembra ubriaco, Mr. Cuveé.

 

-Neanche lei,- rispose una voce melliflua.

 

-Credo sia una questione di apparenze,- commentò Duncan, -Non è mai un bene mostrare agli altri le proprie debolezze.

 

Merope dovette trattenere un sospiro quando si sentì accarezzare i capelli e il viso.

 

-Di che debolezze stiamo parlando, Mr. Ambroser?

 

-Oh, di qualsiasi genere: l’ebbrezza, la tossicodipendenza, la miseria, un inopportuno interesse per la donna di un altro…

 

Julian Cuveé si mise a ridere, apparendo sinceramente divertito.

 

-Lei mi piace, Duncan. Eppure non ha considerato una cosa…

 

Duncan sbuffò, scettico.

 

-Di cosa si tratta?

 

-Dimentica che sono solo uno scrittore. Io vivo per mostrare le debolezze umane. Quelle mie, senza dubbio… ma preferisco mettere in luce quelle altrui. Lo definirei il leitmotiv della mia arte.

 

Un vento pungente le sferzava il viso, congelando le lacrime che le rigavano le guance. Correva, senza riuscire a evitare i rami che le ferivano le braccia e il collo. Guardò indietro, tra le sequoie e gli abeti: era tutto buio, ma lei sapeva che tra le ombre si celava lui. L’aveva vista, creatura luminosa su un piedistallo. E l’aveva reclamata come sua, per farne regina di un qualche regno oscuro. Fece un passo falso e si ritrovò a terra, con le ginocchia e i palmi doloranti. Si guardò intorno, atterrita: era lì. Camminava verso di lei, con una lentezza ipnotica. Man mano che si avvicinava, riusciva a scorgere qualcosa del suo volto: occhi grigi, un naso affilato, labbra sottili… Cacciò un urlo disperato.

                                                                                                         -Merope, svegliati.

Aprì gli occhi e non poté evitare di agitarsi tra le braccia di chi la teneva stretta.

-Stai tranquilla, Mer. Sono io, sono Duncan.

 

 

 


Hamptons, 31 luglio 2013


L'enorme veranda di Villa Core, negli Hamptons, era illuminata da colori mutevoli e sfuggenti.

Le lampade sottili, che si inerpicavano su tavoli in vetro e acciaio, culminavano con mille lucine dalle sfumature glaciali, che rimbalzavano sulle pareti candide, sui volti dei presenti, sui vasi centrotavola in cristallo di Tiffany, colmi di calle dai candidi petali.

Fra questi, come sospesi fra la moltitudine di bagliori, si muovevano i fortunati invitati dell'evento più atteso dell'estate, perlomeno di quella dell'alta società di New York. Tutti sembravano mescolarsi armonicamente in quell'intreccio di luci, profumi, voci e melodie dal sapore retrò, unica nota che addolciva l'ambientazione minimalista, avvolgendo la sala e l'immenso giardino botanico su cui questa si apriva.

 

Al centro della scena stavano i veri protagonisti della serata: Erin Core, presidentessa della Demeter come un argenteo bagliore in quell'atmosfera ghiacciata con il suo braccio destro, l'amministratore delegato Christopher Elliott; i due accoglievano con un sorrisi compiaciuti la piccola folla di persone che desiderava complimentarsi con loro per il tanto atteso annuncio che era da poco stato comunicato.

In un angolo del giardino, a pochi metri dalla piccola orchestra che aveva ripreso a suonare dopo l'annuncio, gli ospiti d'onore Taigete Core McDeer e Alistair Elliott ballavano indisturbati, finalmente lontani dai flash dei fotografi e dai rumori di calici levati per brindare alla salute della coppia dell'anno. Fintanto che tutti fossero stati impegnati a congratularsi con i loro genitori, nessuno li avrebbe disturbati.

 

-Io giuro che li strangolo entrambi con quella dannata collana di diamanti, fosse l'ultima cosa che faccio.

Alistair sbuffò, nascondendo un sorriso divertito fra i capelli della fidanzata, raccolti in una semplice coda fermata sulla nuca in modo da lasciarle scoperto il collo sottile.

 

-Aspetta almeno di essere tornata dal viaggio di nozze,- le rispose depositando un lieve bacio sulla tempia.

 

-Altrimenti saremo obbligati anticipare il ritorno per presiedere alle riunioni della Demeter.

 

Tai appoggiò la fronte sul suo petto, scuotendo impercettibilmente la testa.

 

-Doveva essere la nostra serata,- gli disse infine rabbuiandosi.

 

-Lo é, in fondo.

 

Tai scosse impercettibilmente la testa.

 

-Non così. Non con mia madre e tuo padre che ci esibiscono come dei purosangue da competizione, non in questo posto, con questo arredamento freddo, con gli invitati che sono qui solo per ammirare la magnificenza dei Core, non in mezzo ai fotografi, ai flash, agli sguardi dei presenti a cui non sappiamo nemmeno dare un nome. Guardami! Sono persino completamente fuori luogo, visto che mia madre non si é nemmeno degnata di comunicarmi che aveva scelto il bianco e l'argento come unici colori della serata!

 

Tai fece una piccola piroetta, per mostrare l'abito di impalpabile organza color pesca, che risaltava la pelle chiara, dorata dai raggi di un'estate che stava volgendo al termine. Alistair l'accompagnò con un gesto del braccio, beandosi del privilegio di poterla avere, per qualche breve minuto, tutta per sé.

 

-Ti direi che schiacci ogni algida bellezza che si aggiri per quella sala, se sapessi che é quello che desideri sentire. Siccome però so che non ti interessa assolutamente niente, ti dico che non potevi scegliere un abito più adatto per questa serata: sottolinea l'aspetto che amo di più di te.

 

-E sarebbe?

 

-Sei diversa da qualunque altra ragazza lì dentro, Taigete McDeer. Oltre che più bella,- aggiunse senza riuscire a trattenersi.

 

-Core McDeer,- puntualizzò lei, con un filo di amarezza della voce.

 

-McDeer, a me, basta.

 

La ragazza sbuffò con accondiscendenza.

 

-Sei l'unico a vedermi così, lo sai? Tutti i presenti sono qui per vedere un'altra erede dei Core impalmare l'ennesimo principe consorte.

 

-Hey tu, guardami. Alistair le sollevò il mento obbligandola ad alzare gli occhi su di lui.

 

-Ci sono qui io, respira. Hai ragione, é la serata più disastrosa a cui abbia mai presenziato, ma dobbiamo solo fingerci radiosi per qualche ora, poi festeggeremo noi due,- tentò di tranquillizzarla.

 

-È anche il nostro compleanno.- aggiunse lei, lasciando cadere improvvisamente il discorso.

 

Alistair appoggiò il mento sulla sua testa, sollevando gli occhi pensieroso. Sapeva che quel momento sarebbe arrivato; avrebbe voluto allontanarlo, ma era ben consapevole che la mente di Tai, da quattro anni a quella parte, non era occupata che da un pensiero, specialmente in quel giorno così particolare.

 

-Lo so che ti manca,- le disse andando dritto al punto.

 

Tai sospirò rifugiando la testa fra il torace e il braccio del fidanzato; un gesto che, sin dalla più tenera età, la calmava e la tranquillizzava.

 

-É il sesto compleanno che non festeggiamo insieme,- gli disse infine.

 

-Ti ricordi quando eravamo bambini, quando la nonna ci preparava due identiche crostate alla crema e le finivamo praticamente tutte noi due, lasciando poco più che le briciole a voialtri?

 

Il giovane annuì ridendo, le labbra lievemente arricciate in un sorriso amaro

 

-Lo so. Una volta abbiamo persino fatto a botte, perché io avevo mangiato l'ultima fetta della tua torta, che avevi preservato per la colazione del mattino. Ben ci ha messo un bel po' a dividerci...

 

-Secondo te sono una sciocca a illudermi ancora, Al?- domandò lei, d'un tratto, esternando il dubbio che la tormentava.

 

Lui strinse la spalle, mentre un brivido gli percorreva la schiena, -Non so cosa pensare; per quanto conosco Ben, anche a me sembra impossibile che abbia potuto buttarsi volontariamente giù da un dirupo con la macchina, ma non vorrei incoraggiarti a nutrire false speranze.

 

-Tu e mio padre siete gli unici che non mi credete una pazza... Mia mamma sostiene che le mie convinzioni siano segno che non sono ancora riuscita a elaborare il lutto della sua perdita,- gli rispose lei, sospirando rumorosamente. Alistair avvertì la sua voce rotta e la strinse più forte a sé, facendo scorrere lentamente le dita sulla sua schiena scoperta.

 

-Non sei pazza, Tai. Sei solo una persona a cui la vita ha strappato via un pezzo di cuore e tenta di aggiustarlo, come può. E, per quel che può servire, lo sai che io sono sempre qui per aiutarti. So che non potrò mai sostituirlo, ma posso sempre giurarti che mi impegnerò ogni giorno a farti sentire meno la sua mancanza...

 

Tai sollevò lo sguardo, ritrovando infine nel suo viso la serenità perduta nell'attimo di tristezza a cui si era abbandonata; era quella la cosa che amava più di Alistair, la limpidezza e la purezza del suo carattere che si riflettevano negli occhi chiari, trasparenti, di un turchese così vivo che nemmeno il buio circostante riusciva a scolorirne la sfumatura. Gli sorrise, scompigliandogli i chiari capelli con un gesto rapido e baciandolo infine con trasporto.

 

-Questi pochi minuti da soli saranno ciò che di più bello conserverò del nostro fidanzamento,- gli sussurrò infine.

 

Alistair fermò la danza, nell'esatto istante in cui la cantante ingaggiata per l'occasione concludeva il pezzo che aveva fatto da colonna sonora a quei fugaci attimi di pace,  rabbuiandosi di colpo e piantando le mani sui fianchi, nel vano tentativo di mostrarsi estremamente offeso.

 

-Hai così poca fiducia nelle mie promesse di un migliore proseguimento di serata?

 

***

 

 

Tutto quel bianco gli avrebbe bruciato le cornee.

 

Appoggiato allo stipite di una delle enormi porte finestre che davano sul giardino, Ade buttò giù d'un fiato un calice di champagne, premurandosi di recuperarne immediatamente un altro con cui sostituirlo.

Con una smorfia di puro disgusto dipinta sul volto si diede un'occhiata intorno: calle, tovaglie immacolate, centrotavola e candelieri in cristallo, abiti candidi, impreziositi da dettagli argentati, sorrisi abbaglianti, finti, parole di adulazione.

Dopotutto la kermesse Newyorkese non era poi cambiata molto, per quel che poteva ricordare: un ammasso di gente tutta uguale ai suoi occhi che si fingeva felice e amichevole, quando la maggior parte di quelle donne si sarebbero azzannate come cani da combattimento in un arena, se gliene fosse stata data l'occasione, mentre i loro uomini sarebbero stati a guardare sorseggiando liquori.

 

-Un attimo di silenzio, per favore.

 

Ade concentrò la sua attenzione sul tavolo d'onore, passando le labbra assorto sul bordo del calice che stringeva in mano.

Erin Core era ancora una bellissima donna. Gli anni non avevano intaccato i suoi lineamenti scolpiti, gli occhi glaciali, il corpo statuario. Si muoveva con solennità richiamando l'attenzione, perfettamente a suo agio al centro della scenografia della serata, regina delle nevi in mezzo ai suoi sudditi che facevano da comparse.

Dietro di lei, un gruppo di giovani che vociavano e parlavano chiassosamente, non riusciva a zittirsi, nonostante sembrassero tutti troppo cresciuti per simili isolenze tipicamente adolescenziali. Anche loro apparivano tutti uguali alla sua vista, radiosi e sorridenti come se fossero usciti dal servizio fotografico di una rivista di moda, gli uomini incastrati dentro abiti scuri tagliati ad arte, le donne scintillanti nei loro abiti candidi, impreziositi da gioielli così magnificenti da apparire inappropriati anche in mezzo a quell'ambientazione ostentatamente lussuosa .

Ade abbassò la testa, sbattendo le palpebre per scacciare la fastidiosa sensazione di rivedere il suo viso in ognuno di quei volti anonimi, puliti, lisci, tirati da sorrisi che sembravano studiati per ore davanti allo specchio.

 

-Taigete, mia cara, potresti avvicinarti un secondo?

 

Fu allora che il gruppo di giovani si aprì per lasciare libero il passaggio e Ade sollevò nuovamente lo sguardo, incuriosito dal silenzio improvviso finalmente calato nella sala.

In mezzo a tutto quel candore, accentuato dalla sobria serietà dei completi scuri degli uomini, si faceva largo con titubante incertezza l'unica nota di colore di quella serata: Taigete Core McDeer.

Lei sì che era cambiata, da quando l'aveva vista l'ultima volta, poco più che una ragazzina. Avvolta da un abito color pesca che le lasciava scoperte le gambe sottili e atletiche -troppo corto- pensò ridacchiando con ammirazione, la giovane donna procedeva tendendo incerta la mano sinistra alla madre, su cui scintillava un brillante, unico e semplice gioiello sfoggiato con naturalezza. Quello che lo colpì, però, fu la sua espressione: non elargiva sorrisi, come gli altri presenti o come sua madre, ma non appariva nemmeno seria o imbarazzata. La sola cosa che il suo viso trasmetteva inequivocabilmente ai suoi occhi era quanto, in mezzo a tanta falsità, Taigete apparisse vera. Il solo dettaglio di vita reale in un immobile palcoscenico popolato di personaggi immobili, fissi e glaciali.

 

Fu un attimo prima che qualcuno lo urtasse, facendogli andare di trasverso il vino che stava sorseggiando.

 

-Mi scusi…,- balbettò imbarazzata una giovane dai capelli neri raccolti in una complicata acconciatura, che lasciava scoperte le orecchie ornate da pendenti che illuminavano l’ambiente più delle lampade installate per l’occasione. Scrutò incuriosita il viso dello sconosciuto urtato per errore, scuotendo il capo incredula.

 

-Tu non sei…,-   

 

-Non si preoccupi, non è niente- tagliò corto lui con il cuore in gola, sfoggiando un impeccabile accento londinese. Per precauzione abbassò d'istinto il viso verso la camicia, per controllare che non si fosse macchiata di vino.

 

-Chiedo perdono.- rispose la ragazza muovendo qualche passo incerto verso il centro della sala, -Devo averla scambiata per una vecchia conoscenza. Ma non è possibile, lui non è inglese… Lasci perdere, le auguro buona serata.

 

Solo quando fu certo che questa fosse sparita, inghiottita dalla folla di invitati stretti lungo le pareti in assorto ascolto del discorso di Erin, sollevò lo sguardo posandolo nuovamente sull'ospite d'onore; fu in quel momento che un ghigno divertito gli affiorò alle labbra, tanto che quasi si strozzò con il vino prontamente ingurgitato per mascherarlo. Lasciatasi alle spalle ogni incertezza, infatti, Taigete stringeva senza trasporto la mano della madre, impegnata in un pesantissimo discorso sulle tradizioni della famiglia Core. Il suo volto appariva impassibile, mentre fissava con intensità il cofanetto di velluto rosso che la madre stringeva nelle mani: ci si sarebbe aspettati, da una neo fidanzata sul punto di diventare la proprietaria di una gioiello che avrebbe fatto girare la testa a qualunque ragazza, che le brillassero gli occhi e che le labbra le tremassero per l'emozione. Tuttavia, pensò Ade, il suo sorriso risultava sì tremante, ma per tutt'altra ragione: appariva infatti chiaro che la sola emozione che lo spezzava fosse il manifesto disgusto di trovarsi al trovarsi nel centro di quella stucchevole commedia che sembrava divertire immensamente tutti, tranne lei.

 

***

 

-Parenti, amici, eccoci giunti al secondo momento più importante della serata.

Come forse non tutti sanno, oggi non celebriamo solo l’unione di due giovani innamorati, ma onoriamo anche il nome della nostra famiglia, così come é costume da quando i primi Core misero piede in questo Paese, più di cent'anni fa. Lo facciamo attraverso questo fidanzamento, che garantirà alla Demeter la guida di due giovani brillanti che sono sicura sapranno condurla con saggezza e lungimiranza, ma lo facciamo anche attraverso un dono che é divenuto nel tempo il simbolo della forza e della responsabilità che sono richiesti all'erede di un tale impero.

É tradizione, infatti, che per il suo ventiquattresimo compleanno la primogenita riceva in dono la collana di melograno, che si dice essere stata forgiata per una nostra antenata ai tempi di Enrico VIII. Possa questo gioiello ricordarti, ogni giorno della tua vita, chi sei e qual'é il tuo destino, mia cara-

 

Taigete osservò come a rallentatore le mani ingioiellate di sua madre avvicinarsi reggendo la collana, i cui diamanti rossi scintillavano illuminati dai bagliori delle luci della sala. Chiuse gli occhi infastidita, riaprendoli solo quando sentì il gioiello farsi pensante attorno al collo; portò una mano alla pietra centrale come per accertarsi che fosse davvero un pendente quello che sua madre le aveva agganciato attorno al collo, guardandosi attorno, smarrita. Attorno a lei, un identico ammasso di volti anonimi sorridevano, mentre fra gli applausi sua madre invitava i convitati a levare i calici in suo onore. Poi, in mezzo a tanta confusione, lo sguardo le cadde su sua nonna Merope, ancora splendida nonostante l'età: la donna, con il bicchiere a mezz'aria davanti a sé, la fissava con il capo lievemente reclinato senza sorridere, con un' indecifrabile espressione di tenerezza e di preoccupazione. Per alcuni attimi rimasero così, mentre Tai avvertiva il peso del gioiello farsi sempre più grave, come se si stesse lentamente trasformando nel lucchetto di un pesante catenaccio. Sembrava che attorno a lei qualcuno stesse gradualmente abbassando le luci, lasciando un debole riflettore puntato su sua nonna, esile figura opalescente in mezzo a tanto splendore.

 

-Tai...-

 

Sussultò di paura, non riconoscendo la voce di suo padre che, avvicinatosi, la cingeva in un abbraccio.

 

-Papà, non respiro.

 

-Calmati, ci sono io.

 

-Devo uscire di qui. Puoi distrarre un attimo Al? Ho bisogno di stare sola.

 

-Lascia fare a me. Vai a prendere una boccata d'aria.

 

Nessuno parve accorgersi della sua fuga in mezzo alla confusione che si era creata dopo il brindisi. Non appena ebbero svuotato i calici, infatti, tutti si strinsero intorno a Erin, ritornata immediatamente a essere il vero centro di gravità della festa, ansiosi di congratularsi di persona per il meraviglioso lavoro operato sulla figlia, brillante studentessa di Harvard, futura guida di una delle più fiorenti aziende di tutto il Paese e ora futura e radiosa sposa con una vita piena di felice e serena ad attenderla.

Fintanto che la calca fosse stata concentrata sulla madre, Tai poteva considerarsi libera.

 

***

 

La zona che ospitava il campo da tennis nel giardino della villa era un luogo appartato, nascosto da una fitta parete di piante rampicanti che si inerpicavano su una struttura di legno scuro. Un posto dove potevi tranquillamente sparire per ore, senza che nessuno di accorgesse della tua presenza; Tai vi si precipitò senza indugio, lasciandosi alle spalle le luci dei candelieri che rischiaravano la parte di giardino antistante la villa e la musica dell'orchestra che aveva ripreso a suonare dopo il brindisi.

 Nel correre si era tolta le scarpe, lasciando che l'erba fresca le accarezzasse i piedi scalzi, ma nemmeno quell'effimera sensazione di libertà le aveva giovato. Avvertiva il respiro farsi sempre più affannato mentre tentava di liberarsi della collana di melograno. Si sentiva in trappola, come se i diamanti rossi le si stessero lentamente stringendo attorno al collo, mozzandole il fiato; da un momento all'altro si aspettava che le penetrassero nella carne, fino a farla sanguinare. Per un istante, colta da un'ondata di panico, cominciò a piangere certa che quell'incubo si stesse avverando; smise di armeggiare freneticamente con il gioiello e si abbandonò in avanti, cercando appoggio nella staccionata di legno di fronte a lei. Improvvisamente qualcuno la tirò delicatamente dalla vita e, nel giro di pochi secondi, la liberò dal grave fardello che portava al collo.

 

-Alistair,- sospirò voltandosi di scatto.

 

-Non proprio-

 

Tai sussultò, sorpresa. Dinnanzi a lei, nella penombra di quell'angolo appartato, uno sconosciuto illuminato debolmente dalla luce di un lampione reggeva sul palmo aperto la collana di melograno, mentre con la destra le allungava una bottiglia di Moet Chandon già aperta.

 

-Suppongo che questo sia il momento in cui devo restituirti il suo gioiello, ma ho come l'impressione che tu sia più interessata all'alcol che alle pietre preziose,- la canzonò mentre lei, senza pensarci due volte, afferrava la bottiglia e ci si attaccava senza indugio alcuno. Dopo qualche istante, mentre il liquido frizzante le distendeva lievemente il corpo contratto dalla paura, l'abbassò per studiare incuriosita l'uomo che le era venuto in aiuto.

Alto e asciutto, dimostrava al massimo una trentina d'anni, si disse osservando attentamente quel viso parzialmente coperto da un accenno di barba lasciata incolta.

Una di quelle persone con l'irritante aria di essersi svegliati da dieci minuti e capitati poi in mezzo alla gente per caso, ma che appaiono comunque più interessanti di chi al contrario, ha passato ore davanti allo specchio nella disperata ricerca di apparire interessante, lo etichettò prima di realizzare che c'era qualcosa, in lui che le risultava familiare. Se non fosse stato che Tai conosceva tutti i ragazzi fra i venti e i trenta anni dell'alta società newyorkese, avrebbe stroncato ogni suo dubbio sul nascere, rispondendosi che probabilmente era uno di quei rampolli di buona famiglia, che si atteggia da radical chic mentre sperpera i soldi di papà in viaggi in giro per il mondo alla ricerca di sé stesso.

 

-La collana stregata ti ha tolto l'uso della parola?- le domandò lui grattandosi la nuca, imbarazzato da tanto attenzione.

 

Tai scosse la testa, senza staccare lo sguardo dal suo.

 

-Grazie tante. Fosse per me potresti pure tenerla, ma dubito che tale perdita passerebbe inosservata ai grandi capi,- gli rispose con un timido sorriso, indicando con un cenno del capo il punto dove si intravedevano le luci della sala in cui la festa continuava, senza l'ospite d'onore.

 

-Ho come l'impressione che ciò che pensano i grandi capi non ti interessi molto, visto che sei in qui in giardino da sola invece che a goderti il centro della scena e sfoggiare i tuoi nuovi gioielli,- disse facendo correre lo sguardo dalla collana che ancora stringeva fra le dita alla mano sinistra della giovane, dove splendeva il brillante con cui Alistair le aveva domandato di sposarlo.

 

-Ci conosciamo, scusa? Sono sicura di averti già incontrato. Vivi a New York?

 

Lui scrollò le spalle, con un gesto vago, -Vivo qua e là, un po' dove capita.

 

-Eppure sembri sapere molte cose di me,- continuò Tai, stupita dalla sua risposta.

 

-Non ci vuole Sherlock Holmes. Sei la protagonista di questo evento grandioso, no? Tutti smaniano per ammirare e complimentarsi con la splendida fidanzata.  Eppure tu sei qui con me...

 

Eppure, si continuava a ripetere lei senza ascoltarlo, c'é qualcosa di estremamente familiare in lui.

Aveva la fastidiosa e martellante percezione di averlo già visto da qualche parte, anche se non riusciva a collegare il suo viso con un episodio o con un luogo che l'aiutassero a riconoscerlo.

 

-Come hai detto di chiamarti? gli domandò, ignorando le sue insinuazioni.


-Non l'ho detto. Ade.


Tai sgranò gli occhi divertita, sorseggiando lentamente dell'altro champagne -Ade... E poi?


-Ade e basta.


La ragazza scoppiò in una risata apertamente canzonatoria, incapace di trattenersi oltre.


-Quindi, misterioso sconosciuto dall'aria di essere appena sceso dal letto, con la barba appositamente incolta, i capelli spettinati ad arte e l'atteggiamento di chi é piombato da queste parti per sbaglio, non solo mi stai dicendo che non provieni da nessuna parte e che vivi "di qua e di là, un po' dove capita”, ma ora aggiungi addirittura che non hai un nome? Da dove salti fuori, da uno di quei romanzi harmony che si trovano in vendita a una manciata di cents nelle bancarelle dell'usato?


Lui non replicò immediatamente, ma la scrutò con uno sguardo indecifrabile, tanto che Tai dovette passarsi una mano sul collo e distogliere lo sguardo per il profondo disagio nel quale l'aveva fatta piombare in pochi istanti.

 

-Mi chiamo Eugene Aderley,- le rispose infine spingendosi le mani in tasca quando lei, finalmente, si voltò a guardarlo,- Ade.


Tai sentì il sorriso gelarsi sulle labbra, mentre un brivido ghiacciato le percorreva la schiena scuotendola fino alla punta delle dita dei piedi.

 

-Aderley come... Aderley Corporation?

 

Gli domandò con un filo di voce.


-Esattamente,- rispose lui fingendo un'aria soddisfatta, -ce ne hai messo di tempo. Grazie per avermi risparmiato lo strazio di dieci minuti di artifizi e convenevoli nei quali si supponeva che io avrei dovuto spiegarti le ragioni per cui non mi presento più a nessuno con il mio nome di battesimo da sei anni.

 

-Tu... Eri il migliore amico di Ben all'Università,- replicò lei, cercando nei suoi tratti le tracce di quel ventenne con i ricci scuri troppo lunghi che aveva incontrato in occasione del diploma di suo cugino, sette prima, al Trinity College di Cambridge.

Ade la lasciò fare, incrociando le braccia in un gesto impaziente, come se si aspettasse che da un momento all'altro lei gli domandasse altro, andando più a fondo di quella semplice constatazione. Poi però, dal momento che la ragazza continuava a studiarlo senza profferir parola, sbottò.

 

-Si, sono io, quello che ha rischiato di ammazzarsi in un incendio che ha ucciso metà dei nostri amici, venendo poi accusato di averlo provocato insieme a tuo cugino e che é quasi finito in prigione, sempre con lui. Ah sì, dimenticavo. Sono lo stesso Eugene Aderley che per questa ragione é stato diseredato dalla sua famiglia, che in questo momento con ogni probabilità si trova riunita là dentro a brindare alla tua salute e felicità. Vedi, è semplice. Non c'é bisogno di esitare così a lungo, Taigete.

 

-Quindi tu ricordi di me?- gli domandò meravigliata. Per quello che sapeva lei, a quattordici anni Eugene era stato mandato in un collegio inglese a studiare, quindi non aveva frequentato molto gli ambienti in cui, al contrario, lei e Ben erano cresciuti. Forse si erano incrociati da bambini quando lei, di quattro anni più piccola, non attirava certo la sua attenzione. L'unica occasione in cui si erano parlati era stato il giorno della laurea dei due ragazzi, anche se Tai doveva ammettere per onestà che non possedeva che ricordi molto vaghi di quella serata ed era pronta a scommettere che nemmeno lui ne avesse molti, considerando gli avvenimenti che si erano susseguiti nelle poche ore che avevano condiviso.

 

-Non sei poi cambiata così molto, in fin dei conti. A parte l'abito elegante e tutto il resto, ovviamente. Dimmi, eludi ancora la sorveglianza dei tuoi genitori per fumare canne e bere birra di nascosto con un branco di ventunenni che fanno a gara per portarsi a letto la cugina diciassettenne di Benjamin McDeer?- gli rispose lui, ricordandole con decisamente poco tatto il motivo per cui così pochi frammenti della serata le erano impressi nella testa.

 

Un pub fumoso, pieno di gente chiaramente più grande di lei. Tutti che la osservavano, domandandosi probabilmente cosa ci faceva una ragazzina della sua età in un locale brulicante di neo diplomati e loro amici.

Un biondo altissimo, con il viso magro e tirato che provava a baciarla, mentre lei gli sfuggiva sotto il naso con abile maestria.

Le risate ammirate di suo cugino che le offriva una birra per premiare tanta agilità.

Il fumo di una canna che le bruciava in gola, nelle narici, facendola lacrimare.

E infine, un paio di occhi che, per qualche istante, avevano incrociato i suoi: grandi e profondi, scuri a tal punto da non distinguere quasi la pupilla dall'iride, con le ciglia così lunghe e folte che davano quasi l'impressione che fossero truccati...

 

Fu solo allora che lo riconobbe davvero; portava i capelli corti sfumati sulla nuca al posto dei boccoli eccessivamente lunghi che allora gli ricadevano sulla fronte, mentre i tratti del ragazzino che ricordava si erano induriti dandogli un'aria più matura, ma che non riusciva comunque a celare l'espressione da eterno bambino insolente che gli conferivano le due profonde fossette che gli segnavano le guance.

 

-Certo che no,- gli rispose fissandolo con aria di sfida, colpita sul vivo dalle sue parole -Tu hai ancora l'abitudine di sniffare qualunque cosa ti capiti a tiro, polverina del té compresa? Se non sbaglio era l'attività favorita da quel branco di ventunenni.

Ade sgranò gli occhi, aprendo la bocca più volte, senza trovare le parole adatte per risponderle a tono. Sembrava che, per la prima volta da quando era iniziata quella conversazione, il giovane fosse rimasto senza niente da dire. 

 

-Io dovrei tornare dentro, si può sapere cosa vuoi?- gli domandò Tai con tono di sufficienza, spazientita dal suo silenzio.

 

-Ok, senti, non ha senso starci a girare troppo intorno,- le rispose lui senza perdersi dietro a inutili parole. -Credo che Ben sia vivo.

 

Fu come se qualcuno, improvvisamente, avesse abbassato il volume dei rumori intorno a loro. Per qualche istante Tai rimase impietrita, avvertendo solo il battito impazzito del sangue che le era schizzato nelle vene a quella rivelazione.

 

-Come lo sai? gli domandò tentando di nascondere il tremore che l'aveva colta.

 

-Le voci corrono,- rispose lui guardandosi intorno con aria vaga, -Ho bisogno di lui.

 

Tai sorrise amaramente, abbassando lo sguardo.

 

-Se é per questo anch'io, ma non vedo in cosa posso esserti d'aiuto. Non ho idea di dove possa trovarsi, ammesso che sia vero quello che dici.

 

Ade le si avvicinò lentamente. L'espressione impertinente che aveva mantenuto fino a quel momento era sparita; ora, pensava Tai, sembra davvero un ragazzino impaurito e insicuro.

 

-Ascolta, lo sai cos'é successo dopo l'incendio, no?- le chiese armeggiando nella tasca dei pantaloni, estraendovi infine un telefono cellulare.

 

-Ma mi credi scema?

 

Tai lasciò cadere le braccia per il disappunto.

 

-Poco tempo fa sono tornato nel nostro appartamento di Londra. Non vi mettevo piede da... Beh, da quando ci hanno rilasciato per mancanza di prove e i miei genitori hanno deciso di festeggiare diseredandomi,- le spiegò con tono piatto, che non tradiva alcun tipo di emozione.

 

-Comunque, dicevo, vi ho trovato il mio vecchio cellulare, che non usavo più dal giorno dell'incendio. Per curiosità l'ho acceso e dentro vi ho trovato questo video.

 

-Che cos'é?- gli domandò Tai, rapita dall'oggetto che continuava a rigirare nervoso fra le dita sottili e nervose.

 

Ade non rispose. Sbloccò lentamente la tastiera facendo correre le dita sullo schermo poi batté lievemente l'apparecchio sul palmo della mano sinistra, come se fosse ancora in dubbio sul mostrarglielo o meno e infine, glielo passò attendendo pazientemente che lei lo afferrasse e lo facesse partire.

 

-È la prova che io e Ben non abbiamo mai appiccato il fuoco che ha distrutto lo chalet dove eravamo in vacanza in cui sono rimasti uccisi più della metà dei nostri amici.

 

Sulle prime Tai non vide nulla, se non qualche bagliore sfuocato, delle luci tremolanti rosso giallastre con un sottofondo di musica martellante, il cui suono usciva dalle casse del telefono rotto e fastidioso. Ne dedusse immediatamente che doveva essere stato girato con un vecchio dispositivo e solo in seguito trasferito sullo smartphone che reggeva in mano.

D'improvviso, la telecamera cominciò a concentrarsi sui volti dei presenti: sudati, spettinati, con gli occhi semichiusi e le espressioni sconvolte, avevano tutti l'aria di chi fosse imbottito di alcol e sostanze stupefacenti di ogni tipo.


-Charlotte, vacci piano con quell'assenzio, l'ultima volta ho dovuto buttare via i pantaloni, dopo aver passato una notte a rianimarti.


Per tutta risposta, la ragazza, con una massa di capelli biondi e fluenti attaccati alla fronte imperlata, aveva lanciato un bacio alla telecamera e si era scolata un altro cicchetto, pulendosi la bocca lievemente sfumata di rosso con la manica della giacca matelassé di chiara foggia Chanel.
Altri visi confusi, smorfie rivolte all'improvvisato cineasta e finalmente l'obiettivo si posò su un tavolino, dove due coppie di mani maschili erano impegnate a tagliare quella che appariva inequivocabilmente come una dose di cocaina.


-Vedo che qui ci si diverte...


-Chuck, brutto coglione, vuoi spegnere quella telecamera?


Una mano che si avvicinava al dispositivo e questo puntò altrove, verso terra, inquadrando per qualche istante nient' altro che il vuoto.


Ade sfiorò lo schermo, bloccando l'immagine. Poi portò il video indietro di qualche secondo e avvicinò il cellulare al viso di Tai, indicandole un punto preciso dell'immagine.


-Guarda quelle mani. Non si vedono i volti, ma siamo io e Ben, lo si riconosce inequivocabilmente dai tatuaggi. Ora, la vedi la piccola fiamma, sullo sfondo? È il punto dove si è propagato l'incendio, il che testimonia che nessuno dei due può averlo appiccato, visto che eravamo impegnati a fare altro.


Il video ricominciò a scorrere, mentre le immagini si susseguivano, confuse, mostrando nuove inquadrature di presenti. Tre ragazzi in camicia chiara e bretelle, attorno a una brunetta con un foulard di seta che le cingeva la testa e le ricadeva morbido sulle spalle nude, ballavano passandosi una bottiglia di Keglevich, mentre una ragazza con un Panama che le copriva parzialmente il volto pallido rideva sguaiatamente, riversa su un divano scuro. Accanto a lei, quello che Tai riconobbe come la versione dei suoi ricordi di Ade, era evidentemente passato ad attività più stimolanti. Appoggiato al bracciolo, con le gambe lievemente divaricate distese davanti a sé, si passava un fazzoletto sotto il naso, mentre la bionda che prima beveva assenzio sedeva a cavalcioni di lui, baciandogli il collo.


-Basta così.

 

Ade le strappò di mano il cellulare bloccando nuovamente il video.


-Non c' è più nulla di interessante.

 

Ripose il telefono nella tasca, con studiata lentezza. Tai alzò lo sguardo al suo viso: tirato e pallido, teneva le labbra serrate, impietrite in un'espressione dura. Quello che la colpì, tuttavia, lasciandola ipnotizzata, furono i suoi occhi, quando lui si voltò finalmente a guardarla. Erano così scuri e impenetrabili che nemmeno la luce del lampione accanto a lui riusciva a sporcarli con un lieve bagliore; per un attimo Tai ne fu così spaventata che ebbe l’istinto di fuggire lasciandosi alle spalle quell’incontro e tutto ciò che ne era seguito. Fu un attimo, prima che il suo viso si contraesse in un sorriso vagamente imbarazzato e lui ritornasse l'uomo dai lineamenti di un ragazzino impertinente che l'aveva avvicinata pochi minuti prima. Sollevò il polsino della camicia, scoprendo il polso sinistro, dove in trasparenza si notava una lievissima cicatrice.


-Ce lo eravamo fatti dopo la laurea, Ben, Dwight e io. Stralci del monologo dell' Amleto, per ricordare il primo spettacolo in cui avevamo recitato insieme. Dopo che io e Ben siamo stati rilasciati me lo sono fatto cancellare, perché non volevo più avere nulla che mi ricordasse quella vita. Ora capisci perché ho bisogno di trovarlo? Non posso presentarmi alla polizia dicendo, Hey, liberatemi, quello con il tatuaggio sono io. Non posso provarlo perché l’ho fatto cancellare, ma le giuro che sto dicendo la verità.


Tai annuì, pensierosa.


-Continuo a non capire, in tutto ciò, cosa c'entro io. Se Ben è davvero vivo come dici e si è ricostruito un'identità altrove, facendo credere a tutti di essersi suicidato, niente e nessuno potrà convincerlo a tornare sui suoi passi.

 

-Niente e nessuno, tranne te. Ben ti amava, Tai, sopra ogni altra cosa. Sebbene vi foste allontanati, non ha mai smesso di parlare di sua cugina ed era evidente che ogni volta che si ricordava di come lei disapprovasse quello che era diventato, quelli erano gli unici momenti in cui si vergognava di sé stesso.

 

Attese qualche minuto, nel rendersi conto che, mentre parlava, la ragazza aveva cominciato a piangere silenziosamente.

 

-Allora, mi aiuterai a trovarlo? Ridarti tuo cugino mi pare un adeguato scambio, no?

 

-Eugene...


-Ade.


-Come vuoi. Senti la mia vita, in questo momento, è un casino. Sto per sposarmi, a giorni sarò ufficialmente integrata nell'amministrazione della Demeter, devo traslocare, pensare alle nozze. Alistair...


-Carino, il tuo principe consorte.- la interruppe lui, con un ghigno.


-Non è il mio principe consorte…- protestò lei di rimando.


Ade incrociò le braccia, sbuffando con aria di sufficienza.


-Tai, sei una Core. Voi siete le regine e, a meno che tu per prima non trovi il modo di toglierti quella corona… O meglio, collana,- disse rigirando il gioiello che ancora reggeva fra le dita sottili,- chi vi sposa sarà sempre e comunque legato al ruolo del principe consorte.


Tai lo osservò pensierosa.


-Comunque, dicevo, Alistair...


-Il principe consorte.


-La vuoi smettere?


Ade le rispose con un gesto scocciato della mano, sogghignando apertamente.


-Se il principe consorte ti ama, capirà. La domanda, a questo punto, è una sola: vuoi che Ben ti dia la sua benedizione per le nozze o vuoi restare qui, con il rimpianto di non aver fatto nulla di più trasgressivo di esserti ubriacata la sera del tuo fidanzamento con il ripudiato erede degli Aderley, in un angolo buio del giardino?


-Non sono ubriaca.


-Allora reggi l'alcol davvero bene,- le rispose sollevando la bottiglia ormai vuota di Moet Chandon che la ragazza aveva poggiato sulla panchina di marmo accanto a lei, dopo averla finita.


-Pensaci su,- continuò allungandole un biglietto ripiegato. -Se cambi idea, sai dove trovarmi.


Tai lo osservò allontanarsi, stropicciando pensierosa il biglietto fra le dita. Stava quasi per gettarlo a terra e tornare all'interno della sala quando, d'improvviso, Ade si bloccò, infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse la collana che vi aveva fatto scivolare sovrappensiero.


-Non dimenticarti della tua corona,- le disse lanciandole il gioiello, con il solito ghigno d'impertinenza dipinto sul volto.-Se poi decidi di venire con me, magari troviamo il modo di liberarcene e farlo sembrare un incidente.

 

Poi, detto questo, si allontanò sciogliendo il nodo della cravatta, se la sfilò con un gesto secco della mano e sparì infine alla sua vista, inghiottito dal buio del giardino.

 

Cosa leggi?

-Il diario di nonna Merope.

Un bacio sul collo, il viso di Alistair sulla sua spalla, le sue parole sussurrate.

-gli occhi poi… In origine dovevano essere di un insolito grigio… Ma in quel momento erano terribilmente arrossati e lucidi...Tua nonna sembra nascondere un passato decisamente poco noioso.-

-É strano, Al. Continuo a rileggere le prime pagine di questo diario, ma c'é qualcosa che mi sfugge. Questa non sembra la donna che ho conosciuto io...

-Tai, aveva ventiquattro anni e tutto il diritto di divertirsi.

-Non é quello che intendo. Dalle sue parole sembra davvero che nonna cercasse un modo per risplendere, ma che vi fosse sempre qualcosa che, alla fine, spegnesse il suo bagliore.

-Dovrei leggerlo meglio, per farmi un'idea. Ora dormi, che è tardi.

Le luci di New York, attraverso le persiane tirate, proiettavano ombre sinistre sul muro che sembravano muoversi, tremolanti, incerte.

Tai si strinse al fidanzato, chiudendo gli occhi.

-Posso chiederti una cosa, Al? Tu credi nei fantasmi?

-Non avrai esagerato con lo champagne?

-Sono seria. Ci credi o no?

-Io... No, certo, che domande sono! Perché tu sì?

-Non ne sono più tanto sicura...

 

 

 


 









Note delle autrici


Siete ancora vivi?


Ci auguriamo di sì, come ci auguriamo che la lettura vi sia piaciuta. Siamo giunti in fondo al primo capitolo; un capitolo particolare, perché sarà il primo e l'unico in cui le nostre protagoniste vivono lo stesso momento, le stesse senzazioni, dubbi e speranze.

Dunque, come vi sembrano le tre ragazze da cresciute? Ce n'è già qualcuna a cui vi sentite più affini?

Ognuna, come avete notato, vive questa occasione molto particolare a suo modo e sarà proprio per queste diversità che le tre svilupperanno poi caratteri completamente differenti e percorreranno cammini divergenti. 

E dei personaggi maschili, che ne pensate? Avete qualche preferenza? Noi (Emily e Lyra), ribadiamo il concetto fondamentale del "Tutte amano Duncan", che poi altro non é che lo slogan della nostra storia, quindi siamo ben felici di accogliere chiunque voglia unirsi al nostro club! Vi attendiamo, dunque, numerosi!

 

Per il resto, che dire...ringraziamo tutti per il calore con cui avete accolto questa storia: chi ha recensito, chi l'ha inserita fra le preferite/ricordate/seguite e chi, invece, capita qui per la prima volta. Scrivere Persefone ci entusiasma tantissimo, ma il vostro interesse é sicuramente un incentivo che riempie d'orgoglio tutte e tre. Grazie, davvero.


Per chi desidera seguirci anche fuori da EFP, per ricevere aggiornamenti, spoiler, o semplicemente per conoscerci e scambiare due chiacchiere, ci trovate qui:

- Pagina Facebok dedicata a Persefone.
- Gruppo facebook/Isoletta/ Regno di Emily Alexandre, Nearest my heart.
- Gruppo Facebook di Lyra, Sing and write for the wind, fear not for tomorrow.

Un abbraccio a tutti

Agnes, Emily e Lyra.

PS: Cos'é che dovete dire? "Duncan we love you". Ripetete...coraggio. Bravissimi! Alla prossima!






   
 
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