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Autore: okioki    05/10/2013    0 recensioni
A San Pietroburgo, da dove vengo io, quando incomincia a nevicare la temperatura cala drasticamente a trenta gradi sotto zero, e a quella temperatura tutti i batteri muoiono: nemmeno i perfidi Psicrofili possono resistere..
Genere: Introspettivo, Mistero | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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IV

Quando incominciai a frequentare la Scuola, il mio corpo si era ormai lasciato dietro gli effetti collaterali dell’Ospedale. Contrariamente a ciò che aveva temuto mia madre, crescendo, il mio aspetto era mutato in gradevole: avevo la pelle diafana, il fisico asciutto come quello di un giunco, le labbra rossissime e gli occhi di due colori differenti. Molti non riuscivano a congiungere l’immagine del bambino gracilino e rachitico con quella dell’adolescente prestante e magro. Anche io, mi muovevo come se il mio corpo fosse una bomba atomica a riposo, pronta a scoppiare alla prima scelleratezza compiuta, il poco passato da me ricordato era un fardello troppo oneroso, troppo duro perché lo potessi lasciare indietro. Nemmeno con Maša riuscivo ad essere me stesso in modo completo, ero sempre impacciato, affetto da un’insicurezza profonda ogni volta che le stavo vicino, e Maša non mi aiutava, fuggiva costantemente dal mio tocco, come poteva solo un essere freddo e impassibile come la neve. Dopo il discorso di Nadjeda era ritornato varie volte a trovarle, eludendo la sorveglianza ristretta di mia madre, ed ogni volta che me ne andavo portava con me la sconcertante inquietudine che derivava dai loro comportamenti assurdi. Sapevo che per quello che mi aveva insegnato mia madre il loro atteggiamento era assolutamente da condannare, inaccettabile per la società che San Pietroburgo era diventata. A me invece i comportamenti anomali di Maša affascinavano: era capace di strofinare una superficie almeno una cinquantina di volte e non riusciva a darsi pace finché non riteneva che ogni cosa fosse pulita e come doveva essere. All’apparenza sembrava trarre un gran piacere nel fare queste cose, così fiera delle sue fisime e nelle sue compulsioni… ma solo molto tempo dopo ho capito in realtà era molto debole, schiava delle sue paure. Allora non ero capace di amarla come meritava, e trascorrevo i miei giorni nell’agitazione, credendomi ancora il ragazzino malato e infetto che sentivo di essere in sua presenza. Maša nutriva grandi aspettative in me, invece non l’ avevo capita per niente. Non sapevo ancora che mi amasse profondamente , che mi amasse profondamente per il fatto di essere diventato suo amico, e quanto la mia presenza rendesse felici i suoi giorni freddi e asettici. Ho imparato solo poche cose di lei, e molto lentamente. Ogni volta, andare avanti con questo racconto è impegnativo: ho sempre paura di farla apparire un personaggio incoerente e per nulla reale. Forse è davvero assurdo pensare che esista una persona così. Quando incominciai a frequentare la Scuola, avevo ormai quattordici anni. Gli cygany si erano introdotti abbastanza a fondo nel sistema, per rendere l’istruzione una legge di costrizione. Tutti i ragazzi, dagli undici ai sedici anni erano obbligati ad andare alla Scuola. Mia madre prese malissimo questa nuova legge, avrebbe preferito non mandarmi, non voleva che gli insegnati mi mettessero in testa strani idee, quali la tolleranza e l’uguaglianza fra tutti gli essere - “Anche quelli non utili alla società” come disse. Con la promessa di non prestar troppo attenzione alle sciocchezze che avrebbero detto i miei professori e con qualche pressione da parte Pavel, il mio patrigno, si convinse a farmi frequentare le classi e si appurò di comprarmi anche un paio di lenti. Le giornate, in quel periodo, solevano passare così: tra scuola e studio ormai non avevo più molto tempo per andare a trovare Maša . Ogni tanto però, qualche mio pensiero ricadeva su di lei… con l’animo egoista e egocentrico mi domandavo del perché non venisse a scuola. Fu in quel periodo che scoprii che le volevo bene, prima d’allora, quando la sua presenza era una costante nella mia vita, non mi era mai passato per la mente, nemmeno per un secondo la parola amore. Erano passati anni prima che me ne accorgessi, e oggi, quando ormai con la solitudine che sento quasi mi riesce difficile parlare di lei non riesco a far altro che pensare al nostro scambio d’amicizia. Un giorno che nevicava andai a trovare Maša , invitandola ad uscire con me. Era la prima volta dopo tanti anni che metteva piede fuori casa sua. Mi seguì un po’ titubante, ma nei suoi occhi, nonostante metà del volto fosse coperto potevo riuscire a leggere il sorriso. Camminavamo, io non sapevo che dire, e lei nemmeno. Ero cresciuto, la distanza fra noi non poteva più essere compensata da una palla di neve o da una mela offerta: volevo assolutamente toccarla. Lei però custodiva in sé il segreto dell’eterna giovinezza e la sua figura restava ancora minuta, piccola, rispetto a come ero diventato. Dovevo trattenere le mie falciate per rimanere al suo passo, ma dopo un po’ non ne ebbi più voglia e andai avanti. Non capivo cos’era quella sensazione di disagio che permeava fra noi: che forse lei mi accusasse di qualcosa? Sapevo di aver rotto, per l’ennesima volta la promessa che mi era pervenuta con la richiesta del suo nome; non ero andata a trovarla e – cosa ancora più imperdonabile – non le ero stato affatto amico. Mi girai, credendo di vedere quegli occhi delusi puntati su di me, ma non era affatto così. Maša procedeva lentamente, e guardava con fare ascetico il volo di alcuni corvi che si erano radunati sopra di noi. Avevo già appreso la storia della sua vita, e mi ritornò in mente lo sciamano che aveva incontrato durante il suo viaggio.

«Maša !» urlai per farmi sentire.

Il vento era forte, ed era probabile che da lì a poco una bufera sarebbe esplosa. Non me ne curavo tanto, quello era l’unico momento in cui Maša poteva giocare con me all’aperto. Avrei voluto dirle che qualcosa sullo sciamano, ma non ne ebbi il tempo. Mi tirò addosso una palla di neve. Io incespicai, cadendo a terra. Ma ridevo, ero felice quasi quanto lei.

«Sasha!» mi disse ridendo.

E poi mi tirò un’altra palla di neve. Sasha era il vezzeggiativo con cui era solita chiamarmi, odiavo che mi chiamassero con il mio nome intero e soprattutto che mi dicessero “Aleksej, che bel nome!”, ma questo l’avevo confessato solo a lei. Io mi alzai, avevo percepito qualcosa di strano nella sua voce, una nota incrinata, aveva gli occhi lucidi.

«Mi ero dimenticata che la neve è così bella…» mi disse. Quando cercai di avvicinarmi però si ritrasse, cominciando a sfregarsi i guanti. « C’è stato un tempo in cui rischiavo di odiarla…» continuò, sempre con fare malinconico, stando ben attenta al fatto che io non cercassi di toccarla.

Dal tono con cui lo diceva, temevo si sarebbe messa a piangere. Raccolsi una manciata di neve, e anch'io gliela tirai addosso pensando che dovesse amare molto la neve, ma solo in seguito ho capito che ciò che la commuoveva profondamente quel giorno era il fatto di poter giocare con me, e il rinnovo di un’amicizia che credeva era stata dimenticata.

 

Alla Scuola mi era presa la passione per le astronavi ed era nato in me il sogno di diventare astronauta. Durante gli intervalli guardavo con il mio solo occhio vedente il cielo, e pensavo a quanto sarebbe stata bello fare un giro di tutto l’Est e arrivare anche nell’Ovest. Mia madre, Natal'ja Onegin, ne era felicissima, sperava che in me si fosse accesso l’antico spirito regale e ambizioso del suo sangue, che sembrava essersi sedato dopo l’anno in ospedale. Avrebbe fatto di tutto perché questo succedesse e arrivò a convincere Pavel a comprarmi un prototipo d’astronave molto antico e a pagare tutte le revisioni necessarie per metterlo a moto.Il giorno seguente a San Pietroburgo ogni abitante sapeva che io, Aleksej Schoning, possedevo un’astronave. Mi sentivo molto fiero, e nonostante non avessi nemmeno imparato bene come si guidasse e che me ne andassi a zonzo per la città volando ad appena tre metri da terra tutti ne erano entusiasti. Avrei voluto invitare Maša a fare qualche giro con me, ma non ne avevo il tempo, e gli agenti meteorologici non sembravano favorirmi l’impresa, speravo che ne sarebbe stata entusiasta e che almeno per una volta avrebbe acconsentito a toccarmi. In realtà, ora che ci penso, non credo di averglielo mai chiesto di toccarmi. Alla Scuola quello dell’astronave rimase l’argomento preferito di tutti per più di due mesi fino a che non arrivò una novità ancora più succosa. Un giorno di neve, nella nostra classe si presentò una ragazzina minuta ricoperta dalla testa ai piedi in tinta bianca: era Maša . Perfino io, che la conoscevo, rimasi sorpreso: mi sembrava assurdo vederla circondata da così tanta gente, addirittura in un ambiente che non fosse casa sua. Ma era stata la neve, come sempre in queste occasioni, a darle il coraggio, più la convinzione che vigeva nel suo essere: perfino gli Psicrofili muoiono quando cade la neve a San Pietroburgo. Per giustificare il suo essere così strana non disse niente, se non “Sono Mar’ja” e dopo aver strofinato con il disinfettante X-KJOY il suo banco e il suo posto ci si sedette. Non mi parlò, non mi rivolse nemmeno uno sguardo, tutte le sue attenzioni in quel momento era concentrate nel controllarsi dal strofinarsi i palmi guantati. Era molto difficile per lei stare lì, ma io non lo capii e rimasi offeso.

Durante l’intervallo andai a chiedergli spiegazioni, ma l’unica cosa che fece fu strofinarsi le mai una sull’altra, creando quel suono tanto fastidioso che odiavo. Tutti se ne tenevano lontani, e allora persa la pazienza le parlai ancora. Furono crudeli le parole che le rivolsi…

 

Perché non vieni lì, con me, dagli altri? Si è molto soli stando come te…

 

Si è soli anche con gli altri.

 

La sua voce era fredda, diversa dal solito. E allora preoccupato, mi accontentai di stare con lei… ma non riuscivo a capire che in quel momento la mia presenza non le era grata: era in ansia, temeva che qualcuno l’avesse in qualche modo “contaminata”. In città parlò a lungo di quella strana creatura, gli adulti ne erano i più indignati, non riuscivano a capacitarsi che una bambina del genere vivesse a San Pietroburgo e temevano che i loro figli avrebbero cominciato a comportarsi come lei. Il pericolo fu però evitato, perché Maša non venne più tanto spesso. Diventò una presenza rara nella nostra classe, era possibile scorgerla a lezione solo nei giorni di neve. Molte voci e leggende furono alzate su di lei: alcuni opinavano sul fatto che fosse un alieno delle nevi, altri un esperimento marziano. Ormai era nota quasi come un personaggio popolare e l’avevano anche rinominata “Maša dei giorni di neve” per questa sua particolarità di farsi vedere solo nei giorni di bufera. Quando dissi loro che era mia vicina e amica d’infanzia, i miei compagni di classe mi tempestarono di domande riuscendomi a strappare il vezzeggiativo “Maša”. Credevo che la cosa sarebbe finita lì, invece attraverso i loro genitori cygany mia madre lo venne a sapere e s’inalberò, strappandomi di bocca la promessa che avrei subito smesso di raccontare simili bugie. Ma non era una bugia, io di Maša ero veramente amico, ma Natal’ja non aveva la forza di crederci: mi aveva perdonato talmente tante stranezze continuando imperterrita ad amarmi, nonostante fossi stato così sbagliato in passato, accettare che fossi amico di quella creatura avrebbe significato per lei la cessazione di qualunque affetto. Ma come poteva pretendere che non fossi sbagliato? Mi avevano addormentato per un anno nell’Ospedale, era ovvio che avessi vuoti comportamentali che agli occhi degli adulti apparivano errati. Non erano dovuti al coma di un anno, le mie stranezze risalivano a qualcosa di antecedente e primordiale, ma a quell'epoca a quelle cose remote non pensavo mai. Solo Maša mi era una cara amica, nonostante l’avessi delusa più e più volte continuava a credere che io le fossi affine; questo non lo dimenticherò mai. Non avemmo più l’occasione di vederci per molto tempo, dopo d’allora, ma fu proprio quello il tempo in cui la sua figura mise radici salde nel mio cuore per poi germogliare pienamente nell’età adulta. Io continuavo ad esercitarmi con l’astronave, e a pensare alla mia Maša in modo talmente superficiale… il solo fatto che credevo alla storiella assurda che mi aveva raccontato Nadjeda ne era la prova. E pensare che lei mi avesse dato tanti dettagli per dubitarne, sempre inaspettatamente e a caso. Per esempio, un giorno nevicava e venne a scuola – non aveva ancora del tutto vinto la paura dell’essere contaminata, affatto, ma riusciva in qualche modo a controllarsi – durante una programmazione di un antichissimo “documento” su un’obsoleta televisione ai cristalli liquidi e tre d.

Era un filmato sgranato su un corso botanico in una terra illuminata fortemente dal sole e coperta dal verde. Sul video vedevamo il processo dei bruchi che si trasformavano in farfalle, e quasi tutte le femmine della classe ne erano rimaste commosse. Maša, invece, sedeva vicino a me con un’espressione di disgusto sul viso.

«Non ti piacciono le farfalle?» le chiesi.

«Io le odio le larve… il mio corpo ne era ricoperto. Escono da dentro forando la pelle e per quanto

ti pulisca e strofini fino a far male non vanno via… ma non hanno mai voluto credermi in ospedale»

«E quando?» le domandai, felice che avesse subito il mio stesso destino.

Ma lei tacque.

 

Mentre rincasavo con la mia astronave, un giorno, Maša si chiamò.

Nevicava, e le strade era già tutte ricoperte di bianco. Con il cuore in groppa, credendo che volesse fare un giro sulla mia astronave, scesi giù correndole in contro. A pochi metri da lei però mi bloccai, ricordando che non voleva essere toccata.

«Oggi non sono potuta venire» mi disse.

Io annui, tutto questo lo sapevo già, d’altronde non aveva nevicato. Ma ciò che lessi nei suoi occhi, l’unica parte del volto scoperto, mi portò a prestarle più attenzione. Contorceva le manine di lattice presa dall’ansia. «Nadjeda sta male, è stanca. Ho paura che si sia presa una qualche contaminazione e non riesco ad aiutarla» mi disse.

Preoccupato mi feci più vicino a lei, aveva gli occhi lucidi: sembrava sull’orlo del pianto. Nadjeda significava tutto per lei, era stata per molto tempo l’unico essere a non lasciarla affogare nella solitudine, ed era ora che stava male era corsa a cercare appiglio in me.

Ne ero orgoglioso, volevo dimostrarmi degno della fiducia che aveva riposto in me. «Fammi vedere come sta!» le risposi, un poco allarmato.

Maša continuava a torcersi le dita. «Non puoi entrare.» La sua voce aveva una tonalità stridula, cominciò a strusciarsi i guanti. «Non vedo l’ora che nevichi, così potremmo giocare insieme» continuò, poi rientrò dentro casa. Non seppi che fare di fronte a una situazione simile, non sapevo nemmeno che pensare. Deluso m’incamminai verso casa.

Pavel mi aveva visto parlare con Mar’ja Ivanovna dei giorni di neve e mi aveva aspettato all’angolo della strada per tornare a casa assieme. Di solito era sempre lì che parcheggiava la macchina, perché mia madre non voleva saperne di avere in casa sua un oggetto tanto rozzo. Tutti, me compreso, dovevamo sottostare ai suoi desideri: solo così era possibile che ci amasse. Fino a quel momento aveva provato affetto per me in tutto il tempo che ero stato un essere malaticcio e storto solo perché si sentiva oppressa dal senso di colpa. Con Pavel c’era sempre stata una certa affinità, entrambi, ognuno a suo modo cercava di guadagnarsi una fetta del cuore di una donna altezzosa e di sangue regale, e poi portavamo dei “correttori della vista”. Gli credetti senza sforzo quando mi promise che non avrebbe detto niente a mia madre, era solito concedermi tutto ciò che gli chiedevo se ero in grado di soddisfarlo. Non avrei dovuto – ai suoi occhi tutto ciò era apparso come qualcosa di equivocabile e non poteva sopportare una cosa simile. Non avrei dovuto credergli… Mia madre, quella sera stessa, parlò di lei come una disadattata – tremava mentre mi diceva queste cose, e se avesse potuto avrebbe voluto dire di più, usare parole più brute, ma la gentilezza del suo sangue glielo impediva. Mi disse che non si poteva permettere che in una città come San Pietroburgo vivesse una persona con deviazioni simili, così deviata, e che io, sangue regale dell’antica URSS trattenessi rapporti equivoci con quell’ essere. Usò proprio quella parola, si rifiutò di classificarla come un’ umana; i vizi di Maša sembravano farle accapponare la pelle. Non mi era difficile capire da chi l'avesse sentito.

«Aleksej, se continui a trattenere rapporti con quella Maša dei giorni di neve sarò costretta a rinchiuderti di nuovo dentro casa!»

A quelle parole la testa diventò incredibilmente pesante per me e qualcosa di simile all’odore di carne bruciacchiata invase le mie narici. Non riuscii a trattenere nemmeno i conati di vomito e ributtai tutto il cibo sintetico che avevo mangiato. Mi era appena passato davanti il più grande trauma della mia vita.

  
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