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Autore: Shadow_Walker    06/10/2013    2 recensioni
Ossessione, solitudine, paura. La realtà di un otaku in Giappone.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Otaku

 
Era un ragazzo schivo, freddo e asociale. Non si presentava quasi mai a scuola, e quando lo faceva era perennemente distratto. Non aveva amici, non usciva il pomeriggio, neanche per andare ad Akihabara o a Shibuya, che non suscitavano alcun interesse in lui. Rimaneva chiuso in casa, o più precisamente in camera sua, con la porta chiusa a chiave e le tapparelle delle finestre abbassate. Al buio. I suoi genitori avevano da tempo rinunciato a cercare di farlo uscire. La madre si limitava a portargli il pranzo e la cena su un vassoio, che poi poggiava davanti alla porta della camera del ragazzo. Lui lo prendeva dopo che lei se n’era andata, furtivo, mangiava quel che c’era e poi lo rimetteva al suo posto, aspettando il prossimo giro. Il padre, dopo i primi tentativi di buttare giù la porta e convincerlo a vivere una vita come si deve, si era limitato a ignorarlo; ormai non lo considerava più neanche suo figlio, era un disonore per lui. Quando qualcuno gli chiedeva quanti figli avesse, rispondeva sempre “uno”, ma parlava del primogenito, il suo orgoglio, un ragazzo dai sani principi, che si era fatto strada, e adesso dirigeva un’importante azienda, si era sposato con una donna rispettabile e aveva un figlioletto educato e intelligente. Del giovane chiuso in camera, nessuno parlava. Perché tutti lo disprezzavano. Fingevano che non ci fosse, ma sentivano dolorosamente la sua presenza silenziosa.
Lui era un otaku.
Otaku.
Si era sentito spesso sentito apostrofare così. Otaku. Un insulto, ecco cos’era. Ma per lui non era così. Lui lo riteneva un complimento, o quasi. Per lui, essere appassionati fino all’ossessione di qualcosa era la normalità. Spesso si chiedeva come facessero i suoi compagni, i suoi coetanei, a condurre una vita normale. A uscire là fuori, incontrare gente normale, a non avere passioni di nessun tipo. Era giunto alla conclusione che le esistenze delle persone diverse da lui dovessero essere profondamente noiose, banali e senza scopo alcuno. Non era lui quello strano, erano loro. Loro che si impegnavano nello studio, per poter diventare adulti dediti al lavoro, con una vita piatta e dura. Come suo padre, come suo fratello.
Takeji Nakajima era felice di essere un otaku. Si sentiva speciale. Gli piaceva condurre quella vita, perennemente chiuso in camera, con il viso a cinque centimetri dal monitor del computer, a guardare il nuovo episodio del suo anime preferito, o a leggere i commenti nei forum gestiti da gente come lui, i suoi veri fratelli. Altri otaku.
Però presto sarebbe dovuto uscire dalla sua camera. La sua bellissima camera, buia, con le pareti gialle ricoperte da poster di band, idol e ragazze di anime, i manga poggiati ordinatamente sugli scaffali, le riviste porno sul letto disfatto, i vestiti sparsi disordinatamente per terra, la playstation buttata in un angolo e, infine, la cosa più importante, il suo computer. La sua camera, il suo rifugio. E presto sarebbe dovuto uscire. Doveva comprare un nuovo manga. Ne parlavano tutti su Internet, sui forum, sui social network. I suoi “amici” virtuali glielo avevo consigliato ripetutamente. E lui doveva averlo. Voleva averlo. E voleva averlo tra le mani, poter accarezzare la copertina lucida, e sfogliare e odorare le pagine in bianco e nero, guardare i disegni e ammirarlo. Perciò doveva uscire. Sarebbe stata dura. Era da un mese che non usciva di casa. E adesso avrebbe dovuto affrontare quella marea di persone... Takeji però desiderava ardentemente quel manga. All’inizio aveva pensato di farselo spedire a casa, ma c’era sempre il rischio che suo padre vedesse il pacco e lo buttasse nella spazzatura, come aveva già fatto una volta. Quando era venuto a sapere di quel che aveva fatto, Takeji era uscito furente dalla propria camera e gli aveva urlato dietro, chiamandolo in tutti i modi possibili e insultandolo. Per tutta risposta, il padre gli aveva dato due schiaffi energici, e lui era tornato in camera sua con la coda tra le gambe. Il giorno dopo, la mattina presto, si era appostato alla finestra della sua camera, che dava sul marciapiede dove i suoi genitori mettevano la spazzatura, e aveva osservato il camion della spazzatura che schiacciava più volte il pacco contenente il suo manga. Takeji non aveva intenzione di rivivere il momento.
Il manga sarebbe uscito quel giorno stesso. Takeji non sapeva come vestirsi. Non che gli importasse più di tanto. A Tokyo c’era un sacco di gente strana, e nessuno avrebbe badato a lui. Però i suoi vestiti erano sporchi. Fino a quel momento non ci aveva badato tanto. Per la maggior parte del tempo restava in mutande e canottiera o, quando faceva più freddo, in pigiama. Certe volte si metteva la divisa della scuola, ma raramente. Odiava quel posto. Sua madre non entrava nella sua stanza a ritirare i vestiti sporchi. Be’, in realtà lei avrebbe anche voluto, ma lui glielo impediva. Nessuno poteva entrare nel suo tempio sacro.
Takeji prese a rovistare nell’armadio, alla ricerca di abiti puliti. Trovò una camicia troppo piccola per lui (“Cosa ci faceva qua dentro?”), un’action figure di Gatsu (“Credevo di averla persa!”), qualche rivista porno che aveva rubato a suo padre (“Vecchio porco!”), una t-shirt di Super Mario sbiadita (“Accidenti, questa me l’avevano regalata secoli fa”), pantaloni di varie fogge e colori, altre magliette di cui non si ricordava, o troppo piccole o troppo grandi, un vestito di sua madre (“Ma che cazzo...”), scarpe e calzini spaiati. Insomma, nulla di utile. Cominciò a pensare che sarebbe dovuto uscire in boxer e canotta, e rise. Poi però cominciò a scoraggiarsi: forse, in fondo, era meglio non andare a prendere il manga. Avrebbe potuto leggerlo online, no? A cosa serviva uscire di casa? Aveva tutto quello che poteva desiderare, là dentro.
Entrò su Internet, ormai completamente sicuro: non sarebbe uscito. Avrebbe letto il manga online. A cosa servivano le scan, se non a questo?
Nel suo forum preferito parlavano ancora di quel manga. Un ragazzo diceva di esserselo fatto spedire, un altro si vantava di essere uscito di casa a comprarselo. Takeji ne fu infastidito. Insomma, non c’era veramente bisogno di vantarsi, o no? Decise di commentare, inacidito.

_:takejiotaku1209:_: Secondo me non vale la pena di acquistarlo.

Immediatamente alcuni ragazzi risposero, furiosi.

_akirakira1993_: ma che ne sai? L’hai letto?

_clevermonkey: Be’, questa è la tua opinione, _:takejiotaku1209:_! Ci sono molte persone che dicono che questo sia un bel manga. A chi dovremmo credere?

Takeji andò offline. Non aveva proprio voglia di discutere con quei ragazzi. Li avrebbe lasciati a leggere il loro nuovo manga, a sfogliare le pagine ancora fresche, mentre lui lo avrebbe visto attraverso lo schermo di un computer e...
Takeji si alzò di scatto. No! Non poteva mollare così! Voleva quel manga, e lo avrebbe ottenuto a tutti i costi. Certo, sarebbe stato difficile uscire, era da tanto che non lo faceva (e comunque aveva sempre avuto un po’ di timore della gente), ma si sarebbe sforzato. Avrebbe comprato quel manga e, magari, anche qualcos’altro. Una action figure, per esempio. Qualche giornaletto hentai. Cuscini a forma di ragazze degli anime. Aveva sentito dire che poco lontano dal suo quartiere era stato aperto un negozietto che vendeva roba del genere. Si eccitò al solo pensiero.
Si infilò un giubbotto lungo appartenuto a suo fratello, dei jeans estremamente attillati, le vecchie scarpe di suo padre e un berretto di lana regalatogli da sua nonna, occhiali da sole e mascherina bianca.
Aveva parecchi risparmi, e in quel momento ne fu felice. Non avrebbe mai avuto il coraggio di andare a chiedere un prestito ai suoi genitori, e non avrebbe mai e poi mai iniziato a lavorare. Lavorare significava stare a contatto con la gente, faticare. A lui non piaceva nessuna delle due cose.
Prese una parte dei soldi. Era pronto. Aprì lentamente la porta, facendo attenzione a non emettere alcun suono. Sentiva sua madre che rovistava in un cassetto, al piano di sotto. Suo padre dormiva nella stanza accanto, e lui non voleva assolutamente svegliarlo. Gli avrebbe fatto mille domande. Stai uscendo? Dove stai andando? Cosa devi fare? Cosa devi comprare? Ancora quegli stupidi manga?! Metti la testa a posto, ragazzino!
Takeji sbuffò, infastidito. Chiuse la porta a chiave e scese in punta di piedi le scale. Era ormai arrivato alla porta d’ingresso, quando sua madre uscì dalla cucina, lì vicino, e lo vide. Takeji vide lo stupore e la sorpresa farsi largo sul volto della donna.
-Sto uscendo.- biascicò, aprendo la porta. Entrò una folata di vento gelido, ma lui non vi badò. Aveva il cappotto allacciato sino al mento, e un compito importante da svolgere. Uscì senza aspettare la risposta della madre, chiudendosi la porta alle spalle, quasi sbattendola.
Poi si mise a correre. Non sapeva perché lo stesse facendo. Forse aveva paura che lei lo seguisse, o che chiamasse suo padre. Qualunque fosse il motivo, continuò a correre, e a correre, scansando i vecchietti che stringevano sacchetti della spesa, le donne e gli uomini che si dirigevano o tornavano dal lavoro. Quando fu abbastanza lontano dalla sua casa, rallentò il passo, ansante. Si infilò le mani in tasca, s’ingobbì tutto per dare poco nell’occhio, e abbassò la testa. Alcune ragazze che stavano tornando da scuola lo guardarono, poi distolsero lo sguardo, intimorite. Takeji non capiva il perché. Era lui ad avere paura. Alzò lo sguardo proprio mentre passava davanti a una vetrina. Il suo riflesso era lì. Il ragazzo rimase sconcertato. Era da tempo che non si guardava allo specchio, perciò non sapeva come fosse fatto. Non si era mai reso conto di essere cresciuto così tanto. Era alto, più alto degli uomini che gli passavano al fianco, più alto dei suoi coetanei. I capelli gli erano cresciuti sino alle spalle, mossi, neri, disordinati e piuttosto sporchi. Tirò su gli occhiali da sole, e due occhi a mandorla, stanchi e rossi lo fissarono di rimando. Si abbassò la mascherina, che gli copriva naso e bocca. Sembrava un barbone. Un rapinatore. Una persona pericolosa, per niente affidabile. Un pervertito qualunque, qualcuno da cui stare alla larga. Ora capiva perché quelle ragazze lo avevano evitato, spaventate. E loro avevano notato solo l’altezza. Se avessero visto i suoi occhi, la sua espressione triste, la bocca curvata verso il basso, le occhiaie violacee e gli occhi rossi e irritati... Probabilmente avrebbero chiamato la polizia. Takeji provò un vago disgusto verso sé stesso. Poi abbassò gli occhiali da sole e si rimise la mascherina sul viso. Un uomo seduto su una panchina lo stava osservando circospetto. Forse pensava fosse un ladro. Takeji sorrise amaramente. Tornò a ingobbirsi e riprese a camminare, cercando con gli occhi una fumetteria qualunque...
Alla fine la trovò. Vi entrò, a disagio, e vide che era gremita di persone di ogni età. Una bambina lo guardò con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Takeji arrossì, e ringraziò la mascherina che copriva quel rossore imbarazzante. Andò dritto verso lo scaffale dedicato agli shonen, dove c’era un enorme cartello giallo che diceva “NUOVE USCITE”. Sotto il cartello c’era una pila di copie del manga che aveva tanto desiderato. Ne afferrò una, proprio mentre una ragazza allungava il braccio. Le loro mani si scontrarono, e lui si ritrasse, lasciando cadere il manga.
La ragazza si portò le mani alla bocca, mortificata. – Mi scusi!- esclamò. Raccolse il manga e glielo porse.
Takeji lo prese, ancora più a disagio. Quella ragazza... l’aveva toccato. Gli aveva toccato la mano. Certo, l’aveva solo sfiorato, ma era stato fantastico. Lei aveva una mano così... morbida, delicata. Con le unghie smaltate di un rosa pallido. Takeji annuì seccamente, borbottando un ringraziamento. La guardò di sottecchi mentre prendeva il nuovo manga. Una ragazza che leggeva shonen? Nella sua scuola non ce n’erano, ragazze del genere. E questa era davvero carina. I capelli neri, lisci, erano raccolti in una treccia lunga; una frangetta ordinata le copriva la fronte. Indossava ancora la divisa, e aveva una cartella poggiata ai suoi piedi. Era una studentessa. Takeji deglutì. Voleva parlarle. Voleva toccarle le mani. Voleva abbracciarla. Era il suo primo contatto umano da un mese. Era una bella ragazza che leggeva shonen. Avrebbe tanto voluto conoscerla. Il ragazzo era bloccato. Non riusciva a spiccicare parola, e comunque lei sembrava essersi dimenticata della sua presenza. Sfogliava rapida il manga, concentrata, e ogni tanto sorrideva. Aveva un sorriso bellissimo. Takeji pensò che potesse essere una ragazza-manga. Era troppo bella per essere vera. Gli sembrava di essere in un manga. Lo sfigato otaku che incontra la bellissima e dolce protagonista, e i due si innamorano a prima vista... Ma quello non era un vero manga. Se lui non si fosse dato una mossa, lei se ne sarebbe andata... Non l’avrebbe più vista. Pensò di chiederle se volesse andare a prendere un tè assieme. O un gelato. Non faceva tanto freddo, in fondo. Takeji deglutì un’altra volta.
E poi lei si girò e se ne andò.
Pagò il manga e poi uscì dalla fumetteria, senza degnarlo di uno sguardo. Si era già dimenticata di lui.
Takeji rimase a guardare la porta, imbambolato, mentre uno strano sentimento gli invadeva il cuore. Si sentiva davvero male. Perché non le aveva chiesto se voleva uscire? Era stato un vero idiota. Non che avesse delle vere possibilità con lei... Lei era così carina e dolce... Non avrebbe mai accettato un invito da un tipo losco come lui, un tipo che sembrava un pervertito di trent’anni, anche se in realtà se aveva solo sedici...
Takeji andò a pagare il manga, ancora sofferente. Voleva rivedere quella ragazza così carina. Voleva tornarsene a casa. Prese a girovagare, occhi bassi, goffo e impacciato. Si scontrò contro un ragazzo truccato pesantemente che gli diede dell’idiota, e poi successivamente con una giovane donna che scappò impaurita e un gruppetto di ragazzette in divisa che lo insultarono a voce alta, ripetutamente. Lui ignorò tutti. Una macchina per poco non lo investì, ma lui non ci fece caso. Stava ancora pensando alla ragazza della fumetteria.
Alla fine decise di tornare a casa. Non era mai stato fuori così a lungo, i suoi genitori avrebbero potuto pensare che fosse morto (o forse “sperare”).
Rifece la strada al contrario, e quando arrivò a casa, vide sua madre all’ingresso, che parlava con la vicina, preoccupata. Le due donne lo videro, e sua madre corse verso di lui, abbracciandolo e singhiozzando. Takeji la scansò e corse dentro, chiudendosi immediatamente in camera. Si spogliò, ansante, poi si buttò sul letto, abbandonando a terra il manga così tanto agognato. Ma ormai non gli importava più di quel volumetto. Lui voleva solo rivedere la ragazza-manga...
Passò il resto della giornata sotto le coperte.
Dopo un paio di giorni, decise di tornare alla sua vita normale. Riprese a frequentare i forum, lesse il manga che aveva comprato e lo lodò in tutti i modi possibili, guardò i nuovi episodi dei suoi anime preferiti.
Non dimenticò mai completamente quella ragazza che aveva incontrato, ma non tornò più a cercarla. Ormai era persa per sempre.
Non uscì più da quella casa, tranne in qualche rara occasione. Riprese la sua vita da otaku.
In fondo, lui era questo.
Otaku.
E per questo si disprezzava e si sentiva speciale al tempo stesso.

 

Grazie per aver letto!

Piccolo vocabolario delle parole:

Otaku: è un termine della lingua giapponese che dagli anni ottanta indica una subcultura giapponese di appassionati in modo ossessivo di manga, anime, e altri prodotti ad essi correlati.
Akihabara: conosciuta anche come Akihabara Electric Town è un famoso distretto di Tokyo. 
Shibuya: è uno dei 23 quartieri speciali di Tokyo. Shibuya è senza dubbio una delle zone più dinamiche della città. Il quartiere è illuminato da megaschermi, presenti su tutti i palazzi della zona, e vi si trova una grande varietà di negozi (soprattutto d'abbigliamento e musica) e ristoranti e love hotel. I giovani di Shibuya si esprimono attraverso l'arte del cosplay e le mode ganguro e kogal, rendendo così il quartiere ancor più colorato e particolarmente caratteristico.
Hentai: è una parola giapponese che significa in questo caso "anormalità", "anormale", o "pervertito", ma anche, in altro contesto, "metamorfosi". In Giappone si utilizza soprattutto con il significato di "sessualmente perverso" e ha una connotazione molto negativa, in quanto indica forme di "perversione sessuale". Al di fuori del Giappone viene usato per riferirsi a opere a sfondo pornografico, divise principalmente tra hentai anime, hentai manga e videogiochi contenenti riferimenti sessuali (Eroge) o espliciti (H game).
Shonen: Gli shōnen sono una categoria di manga ed anime indirizzati a un pubblico maschile, generalmente dall'età scolare alla maggiore età. Gli shōnen si focalizzano principalmente sull'azione, e la trama si snoda tipicamente in una serie di prove (duelli, prove sportive, ecc...) in cui i protagonisti vengono continuamente messi a dura prova.
Action figure: (letteralmente "modellino in azione") è un'espressione della lingua inglese che si riferisce alla categoria di giocattoli che comprende giocattoli quali ad esempio G.I. Joe o Big Jim, ma anche le riproduzioni in scala di personaggi di film o serie televisive come Guerre stellari o Star Trek, di campioni del wrestling, di cantanti, di militari e così via. Ma anche a partire da manga.
Gatsu: (dalla frase “un action figure di Gatsu”) – sto parlando di Gatsu dell’anime/manga Berserk, di Kentaro Miura. 
  
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