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Autore: everlily    06/10/2013    14 recensioni
Damon ed Elena si conoscono quando sono solo adolescenti.
Non hanno niente in comune, se non i casini e la confusione che entrambi si portano dentro. E' un'amicizia improbabile la loro, in cui i confini si confondono, a volte sofferta, ma di cui nessuno dei due riesce a fare a meno.
Anni dopo, entrambi si sono costruiti una propria vita lontani l’uno dall’altra: ma l'inatteso ritorno di Damon a Mystic Falls può ancora mandare all’aria molti piani e finire per rimettere tutto in discussione.
Dalla storia. “Per tutto ciò che ha spinto, e forse spinge ancora, me e Damon ad avvicinarci, c'è sempre stato anche qualcos'altro, più nascosto e latente, una forza contraria sempre pronta ad esplodere e ad allontanarci con la stessa intensità. E non so se, adesso che entrambi siamo cresciuti e andati avanti con le nostre vite, anche questo sia cambiato. Forse, il vero quesito a cui è più difficile rispondere è se io voglia davvero scoprirlo oppure no."
AU/AH
Genere: Angst, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Damon Salvatore, Elena Gilbert, Un po' tutti | Coppie: Damon/Elena
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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5.

Somebody I don’t know


- I don’t remember, were we wild and young
All that’s faded into memory,
I feel like somebody I don’t know,
Are we really who we used to be
Am I really who I was

(Ryan Adams – Lucky Now)

Damon


La casa è avvolta in un luce fredda ed un silenzio quasi irreale quando scendo in cucina a prepararmi abbastanza caffè per rimediare alle tre ore scarse di sonno che sono riuscito a mettere insieme.

Mentre attendo che la bevanda finisca di prepararsi, mi dirigo ad aprire dal suo involucro il piatto posto in bella vista sul ripiano di marmo grigio. Scanso il bigliettino che lo accompagna, sul quale leggo distrattamente un paio di frasi abbinate ad una C svolazzante, ed addento uno degli invitanti croissant salati che si trovano al suo interno, iniziando a leggiucchiare il giornale di ieri che ho trovato abbandonato su un angolo del tavolo.

“Buongiorno, Stef,” esordisco ad alta voce poco dopo aver buttato giù l’ultimo boccone, quando i passi alle mie spalle mi annunciano l’entrata di mio fratello nella stanza. “Caroline manda tutto il suo amore,” gli faccio sapere porgendogli il bigliettino che lui mi strappa bruscamente dalle dita.

“Quella era la mia colazione,” replica irritato.

Mi stringo nelle spalle e sfoglio un’altra pagina.

“La prossima volta dovrebbe mandare una razione doppia.”

“Quella era una razione doppia.”

“Caffè?” domando offrendogli la caraffa con un sorriso.

Mi lancia un’altra occhiataccia mentre me la prende dalle mani e, in silenzio, inizia a versarsi il liquido bollente in una tazza.

“Cosa ci faceva Elena qua, ieri notte?” domanda talmente di punto in bianco da farmi irrigidire.

Mi concentro su un interessantissimo articolo riguardo ad un progetto per migliorare l’afflusso di traffico sull’interstatale, e rispondo in tono asciutto, “Non ne ho idea.”

Sorprendentemente, non sto neanche mentendo, ma il “mmh” scettico di mio fratello, insieme al movimento della testa con cui alza lo sguardo verso di me, mi suggerisce che non mi crede neanche per un istante.

“Se hai qualcosa da dire, dilla e basta, Stef.”

Stefan serra le labbra in una linea sottile, ma dopo un attimo di esitazione scuote la testa e torna al suo caffè come se niente fosse.

“No, niente.”

“Bene,” ribatto chiudendo il giornale e posando la mia tazza ormai vuota. “Volevo avvisarti che domani parto e starò via almeno qualche giorno,” lo informo, “Ho bisogno di tornare ad occuparmi di alcune cose insieme a Ric.”

“Non puoi partire domani,” protesta subito squadrandomi accigliato, “C’è l’inaugurazione della mostra per l’anniversario della Fondazione.”

“Dovrebbe importarmi?” domando sarcastico.

“Sì che dovrebbe,” risponde deciso. “Ti avevo detto che alcuni azionisti sono preoccupati per la situazione. Sei stato via così a lungo che non sanno neanche chi sei, vogliono rassicurazioni, e tu avevi promesso che saresti venuto per incontrarli. Non puoi tirarti indietro all’ultimo momento.”

Cazzo. Avevo completamente dimenticato. Ric mi avrebbe ucciso.

“Ok, cercherò di spostare il volo e partire tra un paio di giorni,” concedo con un sospiro, sempre più fermamente convinto che prima mi libero di tutta questa storia, meglio è per tutti. “Qualcos’altro?”

Quando vedo che mio fratello tentenna incerto, capisco che non è ancora finita e lo incito con lo sguardo a sputare il rospo. Si passa una mano tra i capelli e mi invita a seguirlo nello studio.

Si dirige con sicurezza verso la scrivania attraversata da un fascio di luce che entra dalla finestra alle sue spalle, si siede sulla poltrona e si china per aprire un cassetto. Per un attimo, vedo così tanto di mio padre nelle sue movenze da sentire un peso scendermi sullo stomaco.

“Stavo mettendo a posto le cose di papà ieri … E ho trovato questa.”

Mi porge una busta bianca, dal taglio orizzontale, sopra la quale, in una calligrafia che riconosco fin troppo bene, c’è scritta solo una parola: il mio nome. Lo guardo confuso, mentre la prendo e me la rigiro tra le mani qualche secondo. Il lembo superiore è richiuso, infilato con attenzione in quello inferiore, ma non è sigillato.

“L’hai letta?” mormoro, pur conoscendo già la risposta.

Stefan si limita a scuotere la testa.

Quel peso fastidioso ritorna a farsi sentire, quando infine la apro e ne tiro fuori due fogli, anch’essi scritti a mano, che dispiego quel che tanto che basta per leggere soltanto la data, risalente a circa due mesi fa, e di nuovo il mio nome come prima parola.

Tutto il resto, lo ignoro. Con la bocca inaridita come se mi ci avessero buttato del cemento a presa rapida, ripiego tutto e lo rimetto dentro così come lo avevo trovato, quindi con un lancio secco e preciso la getto nel cestino.

“Che cosa fai?” esclama Stefan stupefatto alzandosi in piedi per andare a recuperarla. “Non la leggi?”

“No.”

“Papà l’ha lasciata per te. Non vuoi sapere cosa aveva da dire?”

“No.”

Stefan mi lancia uno sguardo colmo di shock e disapprovazione, ma quando apre la bocca per parlare, lo precedo senza pensarci due volte.

“Voglio essere chiaro, Stef. Ci sarò domani ad incontrare questi azionisti, e prometto che farò tutto quello che posso per aiutarti ad uscire da questa situazione. Non appena le cose andranno meglio, ti venderò tutte le mie partecipazioni e mi tirerò fuori da tutta questa faccenda, completamente.”

“Damon, non puoi-”

“Se tu ci tieni tanto, avanti, fai pure,” lo esorto con un gesto in direzione della lettera che tiene stretta tra le mani come se fosse un preziosissimo cimelio o la custode di importanti verità nascoste. “Leggila, tienila, bruciala, facci gli origami. Non potrebbe importarmene di meno.”


***


Deluso. Incazzato. Imbronciato. Anzi, una magnifica combinazione di tutte e tre cose, come solo lui sa fare. Questo è lo Stefan con il quale il giorno seguente metto piede sul prato addobbato a festa di villa Lockwood, dal che ne deduco che forse l’incidente della lettera non gli passerà tanto facilmente.

“Torno subito,” mi annuncia in tono asciutto non appena scorge la sua ragazza in lontananza.

Lo guardo quindi allontanarsi in direzione di Caroline, che tutta indaffarata scompare e riappare ad intermittenza tra la folla, quasi seguendo il ritmo cadenzato ma vivace del quartetto d’archi impegnato ad offrire una musica d’ambiente.

In effetti, solo una ricca vedova con un lungo curriculum in organizzazione eventi, diventata sindaco più per popolarità che per effettive competenze, poteva fare di una cosa tanto banale come una mostra storica un avvenimento così sfarzoso ed importante per l’intera cittadina.

Mentre mi guardo intorno per valutare esattamente la portata di a che cosa sto andando incontro, non posso fare a meno di chiedermi se anche Elena sia presente. La risposta mi balza davanti agli occhi quando la intravedo nel suo vestitino da cocktail color blu notte, intenta a parlare con la sua amica Bonnie. Ma prima che io abbia il tempo di capire se ciò comporti anche la presenza di un esemplare di impeccabile fidanzato nascosto da qualche parte nei dintorni, vengo fermato ed incastrato da una coppia di mezza età che si presenta come Douglas e Honoria Fell.

Per i successivi venticinque minuti è tutto un susseguirsi di commenti di circostanza sulla bella persona che era mio padre, inframmezzata da non troppo casuali domande personali che eludo distribuendo monosillabi e sorrisi tirati. Quando infine riesco a congedarmi e penso di essere sopravvissuto, faccio a malapena in tempo a voltarmi che, per puro caso, vengo raggiunto dal commento sussurrato da Honoria a quell’altro coglione del marito, “Non mi stupisce che per tutto questo tempo se ne sia andato senza porsi alcun problema, probabilmente è perché è identico a sua madre. Ancora non mi capacito di come quella donna abbia potuto lasciare così due bambini ancora piccoli …”

Vedo un bicchiere pieno di bollicine dorate e non ci penso due volte ad afferrarlo e buttarlo giù in un sorso, tanto per costringermi a non voltarmi e contro ribattere.

“Ehi!” mi sento richiamare, “Quello era il mio bicchiere.”

Lascio il bicchiere ormai vuoto su un tavolo lì vicino e giro lo sguardo sulla donna accanto a me che, con le braccia incrociate in una posa sinuosa, mi scruta con un divertito accenno intimidatorio negli occhi castani.

“Desolato,” le sorrido osservando la sua figura, decisamente attraente, “Posso offrirtene un altro per rimediare?”

“I drink qua sono gratuiti,” scuote appena la testa, anche se la leggera piega delle sue labbra mi suggerisce che è più che compiacente di stare al gioco.

Mi avvicino di un passo e replico in un fare più allusivo, “Non ho mai detto di volertelo offrire qua.”

Lei ride piacevolmente della mia proposta.

“Wow, di sicuro non perdi tempo, signor … ?”

“Damon Salvatore,” mi presento, piegando appena la testa a simulare un inchino.

“Beh, Damon, io sono Andie,” sorride di rimando, “Andie Starr.”

“E cosa mai ti porta in questo posto, Andie Starr?”

Si guarda intorno e sospira con fare rassegnato. “Sono una giornalista. Sono qua per un servizio sulla mostra.”

“Mmh, sembra …”

“Da suicidio?” finisce lei per me. “Esattamente. Ma sai come vanno queste cose … Una ragazza va a studiare giornalismo sognando la Casa Bianca ed invece si ritrova a coprire mostre di antiquariato.”

“E’ terribile, davvero, hai tutta la mia solidarietà,” le faccio sapere partecipe. Proseguo sporgendomi verso di lei in tono complice, “Ma se vuoi posso rivelarti tutti gli sporchi segreti dei membri che l’hanno organizzata.”

“Sono tutta orecchie.”

Mi avvicino a lei fino quasi a sfiorarle i capelli biondo scuro mentre, indicando un punto a qualche metro da noi, le sussurro vicino all’orecchio, “Vedi quella donna, Honoria Fell … In questo momento, si sta vantando di tutti i complimenti che riceve per il suo rinomato chili, che ogni volta vince tutte le competizioni culinarie. Solo che non lo fa davvero lei, ma viaggia di nascosto per andare a prenderlo in una rosticceria di Whytheville.”

Andie mi guarda con aria grave. “Ma è scioccante.”

“Lo so, vero?”

Si distende in un sorriso divertito. “Te lo sei appena inventato, non è vero?”

Mi stringo nelle spalle, e rispondo con un sogghigno ambiguo.

“E cosa porta te, in questo posto, Damon Salvatore?”

“Direi un karma con un pessimo senso dell’umorismo,” rispondo con una leggera smorfia.

“Miss Starr!” Entrambi ci voltiamo in direzione del galoppino vestito a festa che è arrivato alle nostre spalle. “La signora Lockwood è pronta per quell’intervista e la sta aspettando.”

“Arrivo subito,” annuisce Andie, prima di tornare a rivolgersi verso di me, ““Beh, Damon, è stato un vero piacere, ma sfortunatamente il dovere mi chiama. In ogni caso …” tira fuori un piccolo blocco dalla borsa e ci scribacchia sopra qualcosa, lo piega e quindi me lo porge tenendolo tra due dita. “… qua è dove puoi trovarmi. Sai, se hai altri scoop da rivelarmi, o se vuoi fare ammenda per il drink che mi hai rubato.”

Accetto il foglietto con un sorriso ed un cenno del capo e me lo infilo in tasca.

Non appena Andie si allontana spostandosi dalla mia visuale, è Elena a comparirvi di nuovo. Bonnie le sta ancora parlando, ma il suo sguardo è adesso fisso su di me, le sopracciglia appena increspate in un’indecifrabile espressione. La vedo interrompere la sua amica posandole una mano sul braccio e, per un fugace attimo, ho l’impressione che stia per venire verso di me.

Non lo saprò mai, perché proprio in quel momento mio fratello mi si para davanti accompagnato da un tizio calvo e con i baffi si presenta come Peter Cartwright, azionista n.1.

Afferro un altro bicchiere da un cameriere di passaggio. Il circo è soltanto appena cominciato.


“Mi aspetto di vederti qui dalle tre alle otto ogni pomeriggio, il sabato dalle dieci. La cosa più importante da tenere d’occhio sono i taccheggiatori, quelli ti fregano in tutti i modi, e se fregano qualcosa sotto al tuo naso io te lo tolgo dallo stipendio. Per il resto, se qualcosa è fuori posto basta che la rimetti dove deve stare, secondo il genere e ordine alfabetico. E’ abbastanza a prova di stupido. Tutto chiaro?”

Il mio nuovo capo si voltò verso di me dopo aver finito di illustrarmi sbrigativamente ciò che mi sarei dovuto aspettare dal mio nuovo lavoro nel suo negozio di musica. Distolsi in fretta lo sguardo dal suo sedere, perfettamente racchiuso in un paio di stretti pantaloni di pelle.

“Chiarissimo, Rosemarie,” replicai prontamente con un sorriso.

Quando si allungò sopra il bancone che fungeva da cassa per sporgersi nella mia direzione, dovetti fare ricorso a tutta la mia concentrazione per non far cadere lo sguardo sul ghirigoro di un tatuaggio che sporgeva dalla sua scollatura, vicino alla linea della clavicola. Rimasi invece inchiodato sul posto dai suoi occhi verde chiaro.

“E non chiamarmi mai più Rosemarie, o ti rompo tutte le dita ad una ad una,” mi ammonì in uno tono basso e minaccioso che trovai assurdamente eccitante. “Rose va più che bene.”

In risposta, le sorrisi di nuovo, questa volta cercando di risultare un po’ più accattivante, ma tutto ciò che ottenni fu una risata divertita.

“Hai il tuo fascino, bel faccino, ma non saresti mai capace di reggere con una come me. Riservalo per la clientela, magari ne attiri un po’ di più. Questo mercato fa schifo.”

Rose aveva ragione, quel mercato faceva schifo e quelli che entravano in negozio per comprare davvero qualcosa non erano altro che una ristretta cerchia di fedeli appassionati, facilmente individuabili. Il resto della gente che andava e veniva era composta per lo più da curiosi che frugavano, passavano lì una buona mezzora, lasciavano tutto fuori posto e se ne andavano senza aver concluso niente.

Di conseguenza, di cose da fare ce ne erano ben poche. Il che non era poi così male, se si considerava che mi permetteva di passare buona parte del mio tempo a cazzeggiare, ascoltandomi sempre qualcosa, giocando a poker su internet, o, se proprio mi sentivo in vena e Rose non era nei paraggi, andando a strimpellare un paio di note su un vecchio pianoforte a muro in fondo alla sala che nessuno si filava di striscio.

I soldi pure non erano molti, ma ne avevo più che mai bisogno da quando un’altra litigata con mio padre sulla annosa questione college, più violenta delle precedenti, mi aveva portato in un impeto di rabbia ad andarmene di casa, spergiurando che non ci sarei più tornato. Giuramento purtroppo durato ben poco, dal momento che, solo due giorni dopo, quell’altro idiota del mio amico Mason mi aveva fatto sapere neanche troppo gentilmente che era il caso di sloggiare da casa sua, io avevo scoperto che l’affitto di un qualsiasi buco di monolocale si sarebbe mangiato l’intero stipendio di un lavoro part-time, e Stefan era infine riuscito a mediare un compromesso tra me e mio padre che mi aveva convinto a ritornare prendendo dimora nella dependance ai margini della villa.

Mio padre aveva comunque preteso che gli pagassi un piccolo affitto, ma almeno quello potevo permettermelo e, se non altro, mi evitava di incrociarlo su basi giornaliere, cosa che già di per sé mi sembrava una grande vittoria.

Ma ogni volta che passavo davanti al Mystic Grill, c’era sempre quel nodo alla bocca dello stomaco che non c’era alcun modo di far andare via.


Azionista n.4 è il momento in cui decido che contare sui bicchieri di champagne di passaggio non è più abbastanza per poter arrivare alla fine della giornata. Fortunatamente non è poi così difficile distrarre un’addetta al catering quel tanto che basta per procurarsene una bottiglia piena, direttamente dal secchiello del ghiaccio, ed approfittare di un momento di disattenzione da parte di Stefan per ritagliarmi un più che meritato momento di pausa da tutta quella manfrina.

Trovo il posto perfetto sul retro della villa, accanto ad un’entrata secondaria riservata dalla quale passano solo camerieri e altro personale di servizio. Alcuni di loro mi gettano occhiate incuriosite quando mi allento la cravatta, butto a terra la giacca e mi siedo direttamente sul prato a sorseggiare dalla bottiglia che ho sgraffignato. E’ comunque troppo poco alcolico rispetto a ciò che avevo in mente, ma in mancanza di altro decido di farmelo andare bene.

Ciò che conta è che il resto del ricevimento è abbastanza lontano da permettermi di restare indisturbato a godere di un po’ di santa pace.

“Ecco dov’eri finito.”

Riapro gli occhi che avevo socchiuso per ripararli dalla luce e sollevo di un poco la testa dal muro contro il quale l’avevo appoggiata. In controluce, Elena è in piedi di fronte a me, ad osservarmi con le braccia conserte come una maestrina che ha appena sorpreso un suo alunno a fare qualcosa di sbagliato. Peccato per lei che quell’espressione di vago rimprovero sul suo viso sia troppo adorabile per poter davvero mettere in soggezione chiunque.

“Stefan ti sta cercando ovunque,” aggiunge.

“Ed ha mandato te?” domando diffidente.

“No, io …” scrolla le spalle, “L’ho solo sentito parlare con alcune persone. Qualcuno che dovresti incontrare?”

“Lascia che ti riveli un segreto …” le dico abbassando la mia voce per imitare un tono cospiratorio. “E’ esattamente questo il motivo per cui me ne sto qui.”

Scuote la testa e si lascia scappare un accenno di sorriso.

Sono però del tutto impreparato quando, d’un tratto, si alliscia la gonna e si siede sull’erba accanto a me. Il vestito le si solleva un po’ di più sulle cosce nude quando rannicchia le gambe di lato incrociando le caviglie, ma il momento che veramente rischia di confondermi la testa già un po’ annebbiata dagli effetti dell’alcol frizzantino è quello in cui, complice un soffio di vento, vengo raggiunto da una traccia del suo profumo. Non ho mai incontrato nessun’altra in grado di rendere così sensuale con un semplicissimo e delicato profumo di fiori.

Continuo ad osservarla sconcertato mentre distende le braccia all’indietro per sorreggere il busto, del tutto incurante, come solo una ragazzina potrebbe esserlo, di sporcarsi con l’erba il suo bel vestito. E, per un attimo, penso che forse è proprio ciò che ancora siamo entrambi, a dispetto degli abiti più ricercati e di tutto ciò che c’è stato tra quel momento e le memorie che mi riporta alla mente.

“Il tuo piano di mimetizzazione include anche la necessità di berci sopra?” mi domanda indicando la bottiglia al mio fianco con un cenno della testa.

“Abbastanza direi, sì.”

“L’ubriacatura diurna non è il tuo look più attraente.”

“E sentiamo, qual è il mio look più attraente?” la provoco con un mezzo sorriso mentre poso un gomito sul ginocchio e mi allungo un po’ di più verso di lei.

“Guarda che non sto dicendo che ne hai uno …” replica accennando un altro leggero sorriso, “Solo che questo non è quello che preferisco.”

Giusto, penso appoggiandomi di nuovo all’indietro contro il muro con lo sguardo fisso davanti a me, mentre mi do mentalmente del coglione. Scommetto qualsiasi cosa che il perfetto Elijah non si sarebbe fatto trovare ubriaco dalla ragazza con il padre con una storia di alcolismo. Ma, del resto, ci deve essere un motivo se lui se la sta per sposare ed io spreco il mio tempo a nascondermi da un gruppo di azionisti durante una stramaledetta mostra di antiquariato.

“Damon …”, mi richiama, “… Stai bene?”

“Una favola, Elena, grazie per averlo chiesto.”

“Tuo padre è morto da poco e tu ancora ti comporti come se niente fosse successo. Non stai bene.”

Questa volta accuso il colpo e torno a guardarla. La luce pomeridiana le crea un riflesso leggermente ramato sui capelli castano scuro, una cui ciocca le è appena sfuggita dalla treccia laterale. Resisto all’impulso di allungare le dita per scostarla dietro al suo orecchio e, tre secondi dopo, è lei a farlo da sola al posto mio.

“E tu pensi di sapere come sto perché …” la incalzo quindi sarcasticamente.

“Ti conosco,” ribatte convinta, ma capisco che l’ha detto d’istinto e che probabilmente se ne è pure pentita, perché distoglie lo sguardo nell’attimo in cui i nostri occhi si incontrano e subito aggiunge, “E perché Caroline non ha ancora imparato a tenere per sé le sue opinioni.”

“Chissà perché non mi sorprende,” commento, ed entrambi facciamo finta che la prima parte della frase non l’abbia neanche pronunciata.

“Ascolta …” prosegue dopo qualche attimo di silenzio, “Mi dispiace per l’altra sera. E’ stato sbagliato da parte mia presentarmi a casa vostra in quel modo, nel mezzo della notte, non so cosa stessi pensando di ottenere.” Con una mano sta adesso torturando un filo d’erba, torcendolo a suo piacimento. Un’ombra le passa sul volto quando questo infine le si spezza tra le dita. “Ma mi piacerebbe davvero se riuscissimo ad essere in buoni rapporti. Insomma, voglio che tu sappia che, anche se è passato tanto tempo, vorrei ancora esserti amica e che, se hai bisogno di qualcuno con cui parlare … sai dove trovarmi.”

Raddrizzo la schiena e mi sporgo verso di lei. Questa volta i suoi occhi rimangono fermi nei miei, probabilmente proprio perché vuole che io vi legga la sincerità dei suoi buoni propositi. E quasi sicuramente è colpa dell’alcol che mi ha già dato alla testa e mi fa immaginare cose che non ci sono, ma, sfortunatamente per lei, vedo qualcos’altro nella sua gentile proposta.

“Sei felice?”

Elena corruga le sopracciglia per la sorpresa e si ritrae, come presa alla sprovvista dalla mia domanda sbucata dal nulla. Non impiega molto a mettere su un altro sorriso e ad annuire stringendosi nelle spalle.

“Non ho alcun motivo per non esserlo.”

“Non è quello che ti ho chiesto.”

Esita per un breve attimo. Infine scuote la testa e si alza, scrollandosi di dosso la conversazione con la stessa tenacia con cui si scuote i fili d’erba dal vestito.

“Dovresti tornare da Stefan. E’ preoccupato per te.”

Mi alzo anch’io facendo leva contro il muro che mi aiuta a non vacillare. Elena mi sta già precedendo di un paio di passi, quando infine raccolgo la mia giacca e la seguo senza aggiungere altro.

Facciamo appena in tempo a risbucare nel prato principale che Stefan ci punta subito come un falco cacciatore.

“Io dovrei andare,” mormora Elena, mentre mio fratello inizia a venirci incontro a passi decisi. “Ma Damon … Intendevo quello che ho detto.”

Mi getta un ultimo sguardo e mi saluta con un breve cenno. La osservo allontanarsi finché non vengo raggiunto dalla voce di Stefan, che mi scruta con un’espressione ancora più seria del solito.

“Cosa significa?” mi domanda indicando Elena con la testa.

“Niente.” Scrollo le spalle. “Andiamo a fare quello che c’è da fare.”

Ma mio fratello mi blocca la strada con un braccio e mi si para davanti, costringendomi ad alzare lo sguardo su di lui.

“Non farlo,” mi ammonisce.

“Fare cosa?” domando irritato.

Stefan porta il volto a pochi centimetri dal mio e mi guarda dritto negli occhi, mentre risponde scandendo bene ogni parola, come per assicurarsi che io stia afferrando bene il concetto.

“Sta per sposarsi.”

“Lo so perfettamente,” commento con una smorfia.

“Ne sei sicuro?” mi chiede alzando sarcasticamente un sopracciglio.

“Cosa stai cercando di insinuare?” sbotto, più che mai infastidito da quel suo insopportabile atteggiamento passivo-aggressivo, “Hai per caso paura che io possa rovinare le cose con il tuo prezioso Elijah, visto il suo coinvolgimento nell’azienda? E’ questo che ti preoccupa?”

“No, idiota, mi preoccupi tu,” replica seccato, “Non c’è bisogno che ti dica come diavolo è andata a finire l’ultima volta. Non voglio vederti sparire per altri otto anni a causa sua.”

“Non è Elena il motivo per cui me ne sono andato da qua, e lo sai benissimo. Se papà non avesse …” mi blocco quando una coppia ci passa a fianco e ci squadra interessata, rendendomi conto di aver iniziato ad alzare troppo la voce. Scuoto la testa e decido di lasciar perdere vecchie questioni che tanto se ritirate fuori non possono far bene a nessuno. “Piuttosto, non c’era qualche altro azionista da conquistare con il mio indiscusso fascino?”

“Tu non incontri proprio nessuno. Sei ubriaco, non pensare che non me ne sia accorto. Anzi, dammi subito le tue chiavi, la macchina la porto a casa io. Due passi non dovrebbero farti male.”

Controvoglia, frugo le tasche della giacca per tirarne fuori le chiavi della Camaro. Faccio per porgergliele, ma all’ultimo secondo le sottraggo dalla sua portata e lo guardo minaccioso.

“Se ci trovo anche solo un graffio, giuro che ti taglio i capelli durante il sonno.”

“Tu provaci ed io dico a Caroline che l’hai richiesta per portarti a fare shopping.”

Gli rivolgo un’altra occhiata torva. “Non lo faresti mai.”

“Mettimi alla prova.”

Stefan allunga la mano e, con un ghigno vittorioso, mi strappa infine le chiavi dalle dita.


Quando voleva, Stefan sapeva sempre come essere una vera seccatura. Soprattutto quando si trattava di passare al vaglio e pronunciarsi su ogni mio comportamento.

Quella volta, però, era stato semplicemente una seccatura con la mononucleosi che, tra rantoli e occhioni febbricitanti, era infine riuscito a convincermi a tornare a scuola fuori orario soltanto per recuperargli dall’armadietto la sua copia de Il Grande Gatsby, sua personale coperta di Linus senza la quale apparentemente non poteva sopravvivere al decorso della malattia. E chi ero io per negare tale consolazione ad un sedicenne per cui essere costretto a saltare mezzo trimestre rappresentava la più grande tragedia della sua vita?

Mi infilai il libro nella tasca interna della giacca e richiusi l’armadietto con un clack metallico che risuonò nel corridoio deserto, seguito subito dopo da un leggero singhiozzo soffocato.

Corrugai la fronte perplesso e rimasi qualche secondo immobile, in ascolto.

Pensando di essermelo immaginato, mi incamminai per andarmene, così da poter portare quel benedetto libro a Stefan e riuscire ad arrivare a lavoro prima che Rose decidesse di dare per davvero seguito ad un’altra delle sue fantasiose minacce.

Ma, arrivato neanche a metà del corridoio, un altro singulto mi arrivò all’orecchio.

Quando mi voltai nella direzione da cui l’avevo sentito provenire, attraverso il vetro della porta di un aula vuota, intravidi Elena singhiozzare piano davanti ad un mucchio di roba sparsa sopra uno dei primi banchi della fila.

Mi bloccai sul posto, preso alla sprovvista.

Non avevo più parlato con Elena dal giorno in cui avevo mollato il lavoro al Grill una settimana prima. Non che lei me ne avesse dato veramente modo: se mi ero trovato nei paraggi di casa sua per passare a prenderla come ormai mi ero abituato a fare, non si era più fatta trovare; se l’avevo incrociata per caso, si era affrettata a cambiare strada.

Odiavo la tenacia che metteva nell’evitarmi, ma dopo qualche giorno ero arrivato alla conclusione che forse fosse davvero meglio lasciar perdere. Voglio dire, cosa diavolo avrei mai dovuto fare?

Nessuno, a parte forse mio fratello, si era mai affidato a me per qualsiasi cosa ed il fatto che quella ragazzina avesse invece dimostrato di volermi dare anche solo un po’ della sua fiducia era così sbagliato sotto così tanti punti di vista. Tutta quella situazione, in fin dei conti, era soltanto colpa sua. In particolare, di quel suo brutto vizio, che aveva preso fin troppo in fretta, di guardarmi in un modo in grado di farmi attorcigliare dentro e confondermi le idee. Perché, quando mi guardava in quel modo, doveva per forza vedere qualcun altro, qualcuno che non ero io. Perché io, di quello sguardo e di quella fiducia, non avevo idea di cosa farci.

Ma poi, eccola lì, in grado con niente di trasformare in aria fritta qualsiasi ragionamento e qualsiasi buon senso.

Lentamente, posai una mano sulla maniglia e spinsi la porta in avanti.

Elena sussultò nel sentirmi entrare e, di scatto, si voltò nella mia direzione. Per alcuni lunghi attimi restammo entrambi immobili a fissarci, anche se dai suoi occhi lucidi non avrei saputo dire se la mia presenza in quel suo momento così personale fosse di conforto oppure di fastidio.

D’un tratto distolse lo sguardo, si asciugò le lacrime con il dorso della mano, e cominciò, in tutta fretta, a rimettere dentro la borsa tutto ciò che era ancora rovesciato sopra il banco.

“Cos’è successo?” le domandai con una neanche troppo nascosta preoccupazione nella voce, iniziando ad incamminarmi cauto verso di lei.

Si fermò in ciò che stava facendo, tentennando un paio di secondi.

“Ho perso una penna,” disse infine scuotendo la testa, senza voltarsi a guardarmi.

“Una penna?”

“Ce l’avevo fino all’ultima ora, ero sicura di avercela, ma non riesco più a trovarla, così sono tornata qui e ho provato a cercarla ovunque …” la voce le si smorzò prima di arrivare alla fine della frase. “L’ho persa.”

In un impeto improvviso, scagliò la borsa a terra e si lasciò cadere a sedere contro il bordo esterno della cattedra con un lungo sospiro frustrato. Posò un gomito sulle ginocchia piegate e si passò una mano tra i capelli, che quindi le ricaddero in avanti come una cascata scura in fronte al viso.

Mi piegai per inginocchiarmi accanto a lei, tenendomi in equilibrio sui talloni.

“Vuoi che ti aiuti a cercarla?” domandai incerto, pieno di dubbi su cosa diamine avrei dovuto fare in quella situazione.

Sollevò lo sguardo arrossato su di me e, inclinando la testa di lato, mi scrutò con una tale intensità da farmi quasi sentire un completo idiota.

“Non sei costretto a farlo.”

“Non è poi tutta questa gran cosa,” scrollai le spalle.

“Intendevo …” proseguì in tono leggermente più fievole, “Fingere che ti importi.”

Non riuscii a trattenere un mezzo sorriso. “Credimi, anche se lo volessi, non sono affatto bravo a fingere una cosa del genere.”

“In ogni caso, è solo una stupida penna,”scosse di nuovo la testa con una smorfia amara.

“Deve essere una stupida penna molto importante.”

“L’avevo trovata tra le cose di mia madre,” spiegò corrugando le sopracciglia. Si portò il dorso della mano contro le labbra, ed i suoi occhi tornarono ad inumidirsi. “E’ solo che mi manca. Mi manca davvero tanto.”

Non so bene chi dei due iniziò la cosa, se fu colpa del mio braccio che andò a circondarle la schiena o della sua mano posata sulla mia spalla, ma un solo secondo dopo il suo viso era seppellito nel mio collo ad inumidirmi il colletto della maglietta, mentre con le dita appena esitanti le sfioravo i capelli. Non so bene neanche quanto tempo restammo in quella strana posizione, prima che se ne sciogliesse delicatamente ed io mi offrissi di riaccompagnarla a casa.

Anche se non parlammo mai di ciò che era successo qualche giorno prima, a partire da quel momento Elena smise di evitarmi ed io scoprii che c’era una parte di me che intendeva dimostrarle nei fatti quello che non le dissi mai a parole: che iniziava a piacermi ciò che Elena aveva visto in me.


Quando mi risveglio, fuori è già buio.

Con le membra un po’ rattrappite per la scomoda posizione ed un vago stordimento ancora in testa, mi rialzo dal divano della sala sul quale avevo finito per crollare appena tornato a casa e vado a buttarmi sotto la doccia, tanto per togliermi di dosso anche gli ultimi residui dell’alcol e della inaspettata conversazione avuta con Elena.

Non dubito la sincerità delle sue intenzioni e forse è proprio lì che risiede il problema. Lei in qualche modo mi ha offerto una porta aperta per poter rientrare nella sua vita, e cosa farne adesso dipende solo da me.

Sto scendendo le scale verso il piano di sotto per recuperare qualcosa da mettere nello stomaco, quando dei fari dall’esterno illuminano la sala semibuia e mi fanno sapere che anche Stefan infine è tornato.

Quando il portone si apre, però, noto subito che non è tornato da solo. Anzi, in verità, Stefan neanche lo vedo, ciò che vedo è solo un lampo di lunghi capelli biondi in mezzo ad un groviglio di mani e gambe, appena prima che scompaiano a rotolarsi oltre il divano. Ma li sento fin troppo bene, sia i risolini di lei che le mezze parole sussurrate, in mezzo al rumore di zip che si abbassano.

A quel punto, non ho altra scelta che afferrare la mia giacca ed attraversare spedito il corridoio di ingresso dritto verso la porta.

“Prego, continuate senza fare caso a me e ai traumi che rischiate di provocarmi!”

La testa di mio fratello sbuca da dietro la spalliera del divano, con i capelli così scarmigliati che neanche il suo gel a presa rapida sembra aver retto all’urto.

“Ritorni … presto?” mi domanda con il fiato corto. Dalla sua intonazione, il suggerimento che spera tutt’altro non è neanche troppo sottile da intuire.

“No, se sono fortunato.”

Una mano piccola e perfettamente curata sale ad afferrarlo per la cravatta che gli pende sfatta intorno al collo e, un attimo dopo, è sparito di nuovo.

“Ciao ciao, Damon!” sento gridarmi dietro dalla voce di Caroline, mentre richiudo il portone alle mie spalle.

Mi infilo le chiavi in tasca e qualcos’altro mi capita in mano.

Tiro fuori il foglietto ripiegato e, mentre me lo rigiro tra le dita, è come se avessi di fronte due scelte precise. Lo rimetto via in fretta, dato che tanto so di non avere davvero bisogno di rifletterci sopra più tanto.

Apre la porta al secondo squillo, ed i suoi occhi si illuminano in un’espressione di piacevole sorpresa quando si fermano su di me.

“Damon …” Il vestito elegante del pomeriggio ha lasciato il posto ad un cardigan ed un abbigliamento più casual, ma ciò non la rende minimamente meno bella. “Questo significa che hai preso in considerazione quello che ti ho detto oggi?”

“Qualcosa del genere.”

Un sorriso si fa strada sul suo volto, mentre si scansa dalla porta per invitarmi a entrare. “Sono felice che tu lo abbia fatto.”


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Spazio autrice.


Buona domenica sera ^^

Volevo riuscire a pubblicare oggi pomeriggio, poi ahimè non ci sono riuscita, però piuttosto che rimandare a domani ho pensato che chissà, magari, anche la sera c’è qualcuno che aveva voglia di leggerselo …

Un grande grazie va a Bloodstream che ha fatto questa bellissima fan art ispirata da Stubborn Love. Non ho parole per dire quanto sono commossa dalla cosa. (Un’altra cosa che è bellissima sono le sue storie, se non l’avete mai fatto andate a darci un’occhiata, e non perchè ha creato questa immagine, ma perché meritano. Tanto.)


Come sempre, un grazie infinito va a chi mi dedica un po’ del proprio tempo per leggere e lasciare un commento. So che, tra studio e lavoro, con la fine delle vacanze il tempo libero è drasticamente ridotto per tutte qua, ecco perché sappiate che lo apprezzo ancora di più.

Prossimo aggiornamento tra due settimane.


A presto! Un bacio


   
 
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