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Autore: andromedashepard    07/10/2013    3 recensioni
“Speravo dormissi, almeno tu”, disse Thane quando lei ebbe aperto il portellone. Le sembrò esausto. Coprì con due brevi falcate la distanza che li separava, uno sguardo che lei non seppe interpretare. “Dammi un buon motivo per andarmene”, aggiunse, appoggiando la fronte contro la sua. Lei trattenne il respiro, mentre le sue dita si intrecciavano ai suoi capelli. Se c’era davvero un buon motivo, lei non lo conosceva.
#Mass Effect 2 #Shrios
Genere: Avventura, Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Comandante Shepard Donna, Thane Krios
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Andromeda Shepard '
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“Can imagine the moment, breaking out through the silence,
 
All the things that we both might say
 
And the heart it will not be denied till we’re both on the same damn side
 
All the barriers blown away”

(Come Talk to Me – Peter Gabriel)

[x]

 
 


La Normandy era in rotta verso la Cittadella da ormai qualche ora. Questo per Thane significava che avrebbe avuto l’occasione di rivedere suo figlio, probabilmente per l’ultima volta prima di attraversare Omega 4. Tale possibilità avrebbe dovuto renderlo felice, ma erano troppe le domande che gli impedivano di rilassarsi di fronte a quella prospettiva. Cosa gli avrebbe raccontato? Sarebbe riuscito a spiegargli che quella missione la stava combattendo anche e soprattutto per preservare il suo futuro da ogni possibile minaccia? E lui come avrebbe preso il fatto che suo padre stava per abbandonarlo di nuovo?
Aveva registrato un breve videomessaggio per chiedergli se avesse avuto voglia di vederlo. Kolyat aveva risposto in un modo che a lui era sembrato vagamente gentile, ma forzatamente misurato. L’aveva informato dei suoi orari di lavoro e gli aveva lasciato l’indirizzo del suo appartamento, invitandolo a raggiungerlo lì.
Fra i tanti errori che Thane credeva di aver commesso ultimamente, il prossimo incontro con suo figlio sarebbe potuto diventare l’ennesimo. Si rivolse ad Arashu, in una preghiera silenziosa, chiedendole di vegliare sulle sue prossime scelte come una madre avrebbe fatto col proprio figlio. A volte gli era semplicemente impossibile non fare affidamento su qualcuno di onnipresente, onnipotente… era l’unica goccia di invisibile certezza nel suo mare fatto di dubbi, sensi di colpa, scelte sbagliate e ragionamenti sofferti.
E a tal proposito, il pensiero di Shepard non aveva smesso di dargli il tormento da quando lei era andata via, la sera prima. Le sue parole riuscivano a fargli male ogni qual volta la sua mente gli presentava quel ricordo, con la stessa, immutata intensità. Aveva cercato mille significati nascosti dietro quella frase, tentando di capire che cosa l’avesse spinta a pronunciarla. Era stata una semplice presa di coscienza, si era trattato di un modo subdolo di fargli del male, era stata dettata dalla rabbia o dall’angoscia? Era stato solo un modo poco carino per chiudere definitivamente quel rapporto o, al contrario, una strana richiesta d’aiuto?
Avrebbe potuto chiederle spiegazioni sul momento, o chiedere un colloquio in seguito, ma qualunque fosse stato il responso, lui non era sicuro di sapere come avrebbe reagito. Ogni gesto, ogni parola di Shepard sembrava dimostrargli che lei non l’avesse compreso affatto o che stesse deliberatamente ignorando le sue giuste motivazioni. I discorsi che avevano fatto non erano stati altro che un modo contorto di parlarsi attraverso un pretesto. Il Geth, pensò, non era stato la sua principale preoccupazione, tant’è vero che quella mattina gli era giunta voce che l’avesse riattivato; era stato solo l’ennesimo pretesto per ricevere delle risposte. Quali? Semplice. Tutto ciò che aveva voluto sentirsi dire era che sì, ne vale la pena di correre dei rischi, anche quando questi potrebbero mettere in pericolo altre persone. E lui aveva scelto di non risponderle, ben sapendo che quel discorso non era altro che una lama a doppio taglio. Si sentì offeso, offeso e irritato da quel modo di risolvere la questione, mascherandola da qualcos’altro. Se solo lei gli avesse fatto una domanda sincera, lui le avrebbe risposto altrettanto sinceramente, così come aveva sempre fatto. E invece, alla fine, entrambi avevano finito per complicare le cose, incapaci di affrontare la situazione come due adulti.
 
 
 
Tali si sentiva in fermento quella mattina. Aveva assistito alla riattivazione del Geth e alla fine aveva ammesso di sentirsi più tranquilla. Non si fidava, certo, ma le parole di quel sintetico le erano sembrate sincere, e lei sentì di non avere la forza necessaria per cercare il male anche dove non c’era. Aveva anzi accettato di collaborare con quella fetta di Servitori pronti a schierarsi per la loro causa, sperando che quello potesse essere uno dei tanti passi in avanti verso un futuro migliore, per sé, per la propria gente e anche, in ultimo, per quella specie di sintetici che fino a qualche anno fa era riuscita a vedere solo come nemici da combattere.
Sorridendo da dietro la sua maschera violetta, attivò il factotum e si mise in comunicazione con Garrus.
“Allora, ce l’hai fatta? Siamo su un canale protetto?”, domandò il Turian, con un certo entusiasmo.
“A prova di EDI!”
“Ottimo… Dunque, qual è il piano per stasera?”
“Tu fai come ho detto. Io andrò a parlare con Shepard fra una decina di minuti”.
“Va bene…”
Ci fu un breve silenzio, poi Garrus parlò di nuovo.
“Sei sicura che sia una buona idea? Voglio dire… non vorrei rimetterci l’amicizia…”
“Oh, per così poco?”, ridacchiò la Quarian. “Senti… ho parlato con Kasumi e sono sicura che questa sia la cosa migliore da fare, a questo punto. Fidati di me”.
“Se lo dite voi donne…”
“Ecco, bravo. Mai sottovalutare l’istinto femminile”.
Garrus sbuffò divertito, poi si lamentò di avere ancora alcuni lavori da fare e lasciò Tali libera di mettere in atto il piano stabilito la sera prima.
 
 
“Shepard, disturbo?”. La Quarian si affacciò da dietro il portellone della sua cabina, trovandola visibilmente turbata. Lei non si aspettava visite, soprattutto da Tali… credeva fosse l’ennesima persona ad avercela attualmente con lei e per un attimo ebbe timore che la Quarian volesse semplicemente criticare di nuovo la sua scelta.
“Entra pure”, le disse. Tali si accomodò sul divanetto, notando nel frattempo le profonde occhiaie del Comandante e un rossore diffuso sulle guance. Non conosceva bene l’intera gamma delle espressioni umane, ma avrebbe creduto che avesse pianto, se solo l’avesse ritenuta capace di lasciarsi andare a certe debolezze.
“Qualche problema, Tali?”
“No, niente del genere… Avevo solo pensato che dato il nostro arrivo alla Cittadella, avremmo potuto mangiare un boccone insieme, stasera…”
“Io e te?”, Shepard non poté trattenersi dal sollevare un sopracciglio, scettica.
“Certo. E’ un problema? Ho sempre desiderato di ripagarti per ciò che hai fatto per me… e attualmente posso solo offrirti una cena degna di questo nome”, sorrise Tali, intrecciando le dita fra di loro.
“Senti… ti avrei sicuramente detto di sì in un’altra occasione, ma oggi proprio non posso. C’è troppo lavoro da fare e non me la sento di lasciare la Normandy”, protestò lei, accarezzandosi i capelli.
“Sai meglio di me che stiamo per tentare un’impresa impossibile… credo possa farti solo bene staccare un po’ la spina”.
Shepard piegò la testa di lato, puntando gli occhi sul pavimento mentre un sorriso rassegnato si dipingeva sulle sue labbra.
“Andiamo!”, la incitò Tali, sfiorandole un braccio con una mano. “Conosco un posto carinissimo”.
“Sulla Cittadella? E come l’avresti trovato?”
“Oh, una volta avevo un amico di nome Jack, mi ha fatto conoscere molti posti interessanti”, ammiccò lei.
“Solo una cena, poi ritornerò a bordo”, rispose Shepard, perentoria.
“Solo una cena”.
 
 [x]
 
Agglomerato Tayseri, diceva l’indirizzo che Kolyat gli aveva spedito. Il prossimo trasporto partiva in una decina di minuti. Thane si prese quel tempo per osservare la zona, memorizzando ogni orario sulla tabella delle partenze e quella degli arrivi, ogni nome. Non era mai stato in quel quartiere, non sapeva cosa aspettarsi, ma a giudicare dai punti d’interesse che vi si trovavano, non poteva essere tanto male.
Fu sorpreso non appena arrivò alla fermata stabilita, rendendosi conto che la zona sembrava non solo pulita e tranquilla, ma anche piuttosto benestante. L’appartamento di Kolyat, tuttavia, spiccava come una macchia nera su un foglio immacolato. L’edificio da fuori sembrava vecchio, a tratti fatiscente, nonostante fosse di evidente fattura moderna. Fece le scale - ovviamente non c’era nessun ascensore - e arrivò dietro alla porta dell’appartamento. Digitò il codice d’ingresso sull’interfaccia olografica sul muro ed entrò. Un particolare odore lo investì non appena varcò la soglia… sembrava fosse quello di vernice, o di colori a tempera… e un ricordò seguì immediatamente quella sensazione, spaventosamente vivido.
 
Un’altra delle tue opere d’arte?, le chiedo scherzosamente. Lei si gira, il suo naso è sporco di blu scuro e io sorrido di fronte a lei, mentre tenta di coprire la tela con le mani. Non voglio che lo vedi prima che sia finito, mi risponde imbronciandosi, ma sa già che non mi arrenderò… così alla fine cede al mio abbraccio e, mentre la stringo a me, oltre la sua spalla vedo la creatura più bella del mondo prendere forma sulla tela bianca. Nello stesso momento, qualcosa scalcia dentro la sua pancia… è la prima volta che sento mio figlio.
 
Era uno dei ricordi più belli che possedesse, e ogni volta che provava di nuovo quell’emozione, quella meraviglia, non riusciva a trattenere una sincera lacrima di gioia. Erano passati più di vent’anni, ma quella memoria sarebbe stata sempre una delle più preziose. Irikah non era mai stata così bella, così felice come allora… era così giovane e determinata, e la sua mente creativa riusciva a sorprenderlo ogni volta. Quel piccolo Drell che sorrideva dalla tela sarebbe stato solo l’inizio di alcuni anni di pura gioia. Neppure il suo lavoro era riuscito a scalfire la perfezione di quel periodo. Aveva sciolto il Contratto, aveva creduto di poter dare loro la stabilità e la sicurezza di una vera famiglia, ma dopo alcuni anni si era reso conto che per quanto potesse provarci, era impossibile cambiare totalmente se stessi. Non sarebbero potuti andare avanti solo con i suoi risparmi o con l’arte di sua moglie, non se avevano intenzione di dare a Kolyat il futuro che meritava, e giorno dopo giorno era diventato sempre più difficile rifiutare le proposte che riceveva. Iniziò ad accettare contratti semplici, veloci, per cui sarebbe stato via al massimo un paio di giorni, poi aveva scoperto della Kepral e tutto era cambiato…
“Padre”. La voce di Kolyat lo fece sobbalzare, immerso com’era nei suoi pensieri. Si voltò e incontrò il viso di suo figlio. Aveva i suoi occhi, i suoi colori… Era dimagrito molto, ma non era deperito. Indossava l’uniforme degli addetti ai lavori civili e sembrava visibilmente imbarazzato.
“Ciao Kolyat”, rispose lui, senza sapere bene se abbracciarlo o tendergli una mano. Nel dubbio restò immobile, aspettando una sua mossa.
“Entra”, gli disse lui, abbandonando il borsone all’ingresso. “Vuoi qualcosa da bere?”
“Dell’acqua andrà bene”, rispose Thane, seguendolo in cucina. Era piccola, c’era solo il minimo indispensabile. Quando Kolyat aprì il frigorifero, non riuscì a fare a meno di sbirciare. Era praticamente vuoto, ad eccezione di un paio di frutti troppo maturi e una lattina di birra.
“Senti, se hai bisogno di denaro, di qualsiasi cosa, non devi fare altro che chiedere…”, gli offrì istintivamente.
“No, non ho bisogno di nulla”, tagliò corto lui, versando dell’acqua in un bicchiere. “Me la cavo benissimo da solo”.
“Non intendevo sminuirti, però può fare sempre comodo un aiuto…”
“Ho tutto quello che mi serve, grazie lo stesso”, replicò Kolyat bruscamente. “E per favore, non fare caso al casino che c’è in giro… non ho avuto tempo di occuparmene”, aggiunse poi, indicando sommariamente la sala.
Thane si voltò d’istinto, notando che in effetti la parola “casino” fosse decisamente appropriata. Lattine di birra sparse ovunque, tele ammassate dietro al divano, cartoni della pizza impilati sul tavolinetto e tubetti di vernice ad ogni angolo… Si schiarì la voce, cercando le parole esatte per rispondergli.
“Non preoccuparti”, disse semplicemente, “…hai voglia di farmi vedere i tuoi lavori?”
“E’ solo spazzatura… niente d’interessante”.
“Lascia che siano gli altri a giudicarlo…”
“Tanto tu non ci capiresti niente. E’ roba astratta… un mucchio di colori e basta”.
Thane chinò il capo, posando lo sguardo sul bicchiere di fronte a lui, ormai vuoto. Non poteva biasimarlo per essersi fatto una così povera opinione di lui, neppure se quell’atteggiamento fosse  dettato solo dal rancore. Decise di incassare il colpo e passare oltre.
“Ho notato che qua vicino c’è la scuola d’arte Auxau, hai mai pensato di iscriverti ad un corso?”
Kolyat sbuffò, ridendo nervosamente. “Neanche se diventassi un detective dello C-Sec potrei permettermelo… e poi è pieno di figli di papà e Asari che si credono chissà chi…”
“Per la retta non preoccuparti, ci penserò io”.
“Ho detto di no. Non lo voglio il tuo aiuto”, rispose lui con rabbia.
“Voglio solo darti una mano, Kolyat”.
“Non puoi pensare di riapparire dopo dieci anni e sistemare tutto con un assegno. Non li voglio quei soldi… mi fanno schifo”.
Kolyat lasciò la sua postazione dopo quella frase, andando ad affacciarsi al balcone che dava sulla strada di sotto. Sapeva di essere stato duro, forse fin troppo, ma non riuscì a frenare la lingua. Era difficile perdonarlo, era difficile tradire in questo modo la memoria di sua madre. Perché di questo si trattava… loro due erano vivi e lei era morta, per colpa di suo padre. Come poteva dimenticare?
Thane, dal canto suo, non riuscì più a dire una parola. Si era preparato per questo, ma la realtà faceva male dieci volte di più. Sapere che suo figlio pensava a lui come un assassino senza cuore, sapere che lo credeva possibile di voler comprare il suo affetto… come poteva dimostrargli che si stava sbagliando?
“C’è un motivo particolare per cui sei venuto fin qui?”, gli domandò poi Kolyat, senza voltarsi.
“Sarò in licenza per un paio di giorni, avevo voglia di vederti”, rispose, prima di fare una lunga pausa. “Kolyat, qualunque domanda tu voglia farmi…”, aggiunse poi, esitante.
“Per chi lavori? Fai sempre la stessa cosa?”
Thane si affrettò a scuotere il capo, raggiungendolo sul balcone. “No, ormai quel capitolo è chiuso”.
Gli sembrò di averlo visto sbuffare, mentre si voltava dall’altra parte per evitare il suo sguardo. “Sto lavorando per un’organizzazione che si occupa di alcune colonie scomparse nei Sistemi Terminus”.
“Quella donna… è il tuo capo?”
“Shepard? Sì…”, rispose, tendando di mascherare il disagio, “ricordi l’attacco della Sovereign alla Cittadella?”
“So chi è, non sono stupido”.
Calò di nuovo il silenzio fra i due, interrotto solo dai rumori del traffico in lontananza e dai lamenti del frigorifero che sbuffava a distanza di una manciata di secondi, poi Kolyat si voltò di nuovo verso di lui, in procinto di parlare. Dischiuse appena le labbra, poi le serrò nuovamente.
“Kolyat…”
“E’ pericoloso?”, si affrettò a chiedere lui, approfittando di quell’attimo di coraggio.
“E’ rischioso, sì, ma Shepard sa quello che fa”.
“E’ un Umana… come puoi fidarti di lei?”, chiese con una smorfia.
“Non dovresti vivere nel pregiudizio, Kolyat. Non tutti gli Umani sono malvagi o sciocchi…”, tentò di argomentare.
“Noi Drell facciamo parte della comunità galattica da molto più tempo… hai mai visto un consigliere o uno spettro Drell?”
“Siamo in pochi, Kolyat. Gli Umani sono più di undici miliardi…”
“Non mi interessa. Io non mi fido… due umani lavorano con me, sono due imbecilli. Non fanno altro che pensare a mangiare o alla prossima pausa. E’ una specie di idioti”.
“Non ti sei fatto nessun amico qui?”, provò a chiedergli lui.
Kolyat scosse il capo, passando distrattamente una mano sulla ringhiera. “Sembrano tutti terrorizzati all’idea di avere a che fare con me…”, confessò a voce bassa.
“Non si vedono molti Drell in giro, è normale”. Thane avrebbe voluto aggiungere che forse era la sua aria perennemente cupa e arrabbiata a fare allontanare le persone, ma di sicuro l’avrebbe offeso e non voleva assolutamente ottenere quell’effetto. “Prova ad attaccare bottone, sono sicuro che troverai qualcuno che voglia…”
“Non me ne frega niente, sto bene da solo”.
No, non sarebbe stato bene da solo. Lui sapeva perfettamente com’era vivere in solitudine, lottare giornalmente contro la voglia di abbandonarsi ai ricordi e perdersi nell’intangibile. Per un Drell era forse la cosa più efficace per arrivare alla più totale autodistruzione.
“Lo sai bene che non è così. Non voglio che ti isoli, Kolyat. Non è salutare”.
“Tu l’hai fatto… perché io non posso?”
“Sono tuo padre, ho il dovere di impedirti di farti del male… e l’isolamento porterà inevitabilmente a questo”.
“Eri mio padre anche prima, hai presente? Non ci sei mai stato e ora vuoi dettare legge?”
“Non ti sto rimproverando, Kolyat. Voglio solo il tuo bene…”
“Allora lasciami in pace”, berciò lui.
Thane si prese del tempo per riflettere. L’incontro stava andando proprio come lui aveva sperato che non andasse, ogni parola usata sembrava quella sbagliata, ogni risposta di Kolyat mirava a ferirlo. A quel punto, pensò, solo la sincerità avrebbe potuto fare la differenza.
“Non chiedo il tuo perdono, Kolyat”, gli disse fermamente, cercando il suo sguardo, “so di non meritarlo. Voglio solo che tu capisca che il mio affetto è immutato nei tuoi confronti. Se ho deciso di prendere parte a questa missione è perché voglio regalarti un futuro migliore, un posto sicuro dove vivere la tua vita, lontano dal pericolo”.
“Cosa me ne faccio del futuro? Avresti dovuto esserci nel passato, quando avevo bisogno di un padre…”
Thane ebbe l’impressione che suo figlio fosse sull’orlo delle lacrime. Lacrime di rabbia, di dolore, che sapevano di abbandono.
“La mia presenza ti avrebbe arrecato solo sofferenza”, disse mestamente.
“Allora perché sei arrivato adesso? Perché proprio ora che stai morendo?”
Ed ecco tutte le sue paure, tutti i suoi dubbi condensati in una sola frase.
“Kolyat, se è quello che vuoi, io mi farò da parte”, si costrinse a rispondere, rinunciando a qualunque forma d’egoismo.
Il ragazzo non rispose subito, ma dalla tensione che si percepiva chiaramente da ogni suo minuscolo gesto, doveva essere terribilmente confuso.
“No”, disse poi, voltandosi finalmente a incontrare il suo sguardo. “Vederti sparire di nuovo non mi restituirà mia madre”.
In quello stesso istante, una lacrima rigò la sua guancia e Thane non riuscì a seppellire l’istinto di abbracciarlo, per lenire in minima parte quel dolore.
“Sei la cosa migliore che ho fatto in tutta la mia vita”, affermò, mettendogli in mano il suo cuore. “Anche se non riceverò mai il tuo perdono, sappi che sono disposto a dare la mia vita per te, e lo sarò sempre”.
Si allontanò, lasciando a Kolyat lo spazio di cui aveva diritto. Lui annuì, asciugandosi una guancia.
“Grazie”, rispose… e quella singola parola fu molto più di quanto avrebbe mai sperato di sentire.
 
 
 
Shepard si guardò allo specchio, poi diede un’altra occhiata ai vestiti che giacevano sul letto. Un paio di jeans sgualciti e una semplice canotta nera. Erano gli unici abiti da civile che era riuscita a recuperare tra una sosta e un’altra, senza preoccuparsi minimamente del fatto che forse le sarebbe servito qualcosa di più formale, per altre evenienze. Chi pensa a vestirsi in modo elegante quando là fuori intere colonie vengono inghiottite nel nulla?
“Un posto carinissimo”, le aveva detto Tali. Carinissimo quanto il Flux o quanto l’hotel su Telmum?
“Dannazione…”, sospirò lei, respingendo con forza quell’ultimo pensiero. L’ultima cosa di cui aveva bisogno, era ricordare quella notte. Si lasciò cadere sul letto, passandosi una mano fra i capelli ribelli. Non era proprio riuscita a dire di no a Tali, forse anche per un inconscio senso di colpa derivante dal recupero del Geth, ma più l’orario dell’appuntamento si avvicinava, più sentiva di pentirsene profondamente. Gli unici momenti passati da civile, dal momento della sua ricostruzione, erano stati quei pochi spesi con Thane… ma con lui era diverso. Non importava il contesto, non importavano le motivazioni, c’era solo la volontà di due persone di condividere un momento, lontano dal solito mondo… mentre il solo pensiero di dover cercare argomenti di conversazione con Tali le faceva venire il mal di testa. Oppure semplicemente avrebbero finito per ricordare le imprese di due anni prima, toccando i soliti tasti dolenti, cose che lei non aveva intenzione di rivivere. Erano cambiate troppe cose da allora e lei non aveva intenzione di farsi sopraffare ancora dalla nostalgia. Una nostalgia che, inevitabilmente, le avrebbe ricordato l’abbandono da parte dell’Alleanza e non solo. Si sentì di nuovo la ragazzina impegnata a rincorrere le stelle, che preferisce passare una serata a guardare attraverso l’obiettivo di un telescopio anziché uscire a farsi una bevuta con gli amici. Ma, e questo lei lo sapeva bene, non ci si può sempre sottrarre dalla compagnia altrui, specialmente quando ci si sta per lanciare in una missione suicida. Decise di andare a fare una passeggiata per sgranchirsi le gambe e schiarirsi i pensieri… e chissà come, diversi minuti dopo, si ritrovò in un negozio d’abbigliamento femminile.
“Posso aiutarla, signora?”, squittì una commessa. Shepard si voltò con l’aria di chi aveva appena visto un fantasma… come previsto, si trattava di un’Asari.
“No, grazie, do un’occhiata in giro”, rispose riluttante.
“Si ricordi che in questo negozio è a disposizione di tutti i clienti un dispositivo di ricostruzione corporea digitale in grado di evitarle una lunga fila ai camerini, se vuole provare un abito”, aggiunse velocemente la commessa, col tono meccanico di chi ha già ripetuto l’informazione un milione di volte.
“Grazie”, ripetè Shepard, allontanandosi alla velocità della luce.
Passò in rassegna l’intero reparto “basic”, per poi passare a quello “casual”, senza trovare nulla che catturasse la sua attenzione. Fece un’abbondante scorta di tute nel reparto sportivo e poi si decise finalmente a sbirciare in quello formale, attirandosi un paio di sguardi curiosi e vagamente sconcertati da parte di due Umane che, a differenza sua, indossavano qualcosa di femminile ed elegante abbastanza da giustificare la loro presenza lì. Fu seriamente tentata di mandarle al diavolo, ma in realtà l’effetto che ebbero su di lei fu opposto… si trattava di una questione d’orgoglio ormai. Anche lei poteva ancora essere femminile, e se aveva bisogno di indossare un fottutissimo vestito per riuscirci, l’avrebbe fatto. Prese la prima cosa che le capitò a tiro e decise di usare quel dannato aggeggio per la ricostruzione olografica.
“Pensavo di essere più magra…”, mormorò, mentre osservava l’immagine che le restituì la piattaforma. Era un abito lungo monospalla, di un verde che dava quasi sul blu, con un lungo spacco sulla coscia destra, abbastanza discreto da poter essere considerato un dettaglio di classe e non volgare. Non aveva idea del coraggio che ci sarebbe voluto per costringersi effettivamente ad indossarlo, ma quando le due donne di prima si avvicinarono all’ologramma, affascinate e compiaciute dalla sua scelta, decise immediatamente di prenderlo.
Tornò sulla Normandy e passò la restante parte del tempo a guardarsi allo specchio e a ripetersi che doveva pensare a quella serata nei termini di una missione. Solo in quel modo riuscì a convincersi di potercela fare.
 
 
 
Thane lasciò l’appartamento di Kolyat che era ormai buio sulla Cittadella. Ci sarebbero state troppe cose su cui rimuginare dopo quell’incontro, ma la prospettiva di svagarsi per qualche ora gli sembrò al momento più allettante. Avrebbe avuto fin troppo tempo, poi, per riflettere su ogni singola frase che si erano detti, cercando di capire in cosa avesse sbagliato e cosa invece, avesse detto di buono.
Non avrebbe mai pensato di poter ricevere una proposta come quella che Garrus gli aveva fatto quel pomeriggio. “Una cena fra uomini”, l’aveva chiamata, assicurandogli che non se ne sarebbe pentito. Accettò più perché si sentì lusingato dal fatto che un compagno d’armi avesse chiesto la sua compagnia, che per effettiva voglia. Mentre camminava a passo svelto, dirigendosi verso il locale stabilito, si rese conto che forse, dopotutto, non era una cattiva idea. Una serata diversa l’avrebbe tenuto lontano dai troppi problemi che affollavano la sua mente, consentendogli per un attimo di riposare davvero. Quando arrivò davanti al ristorante restò per un attimo sconcertato. Tutto si aspettava da Vakarian, tranne che una scelta così di classe. Quello non era decisamente un posto adatto a due persone che hanno intenzione di passare la serata chiacchierando di fucili di precisione. Entrò riluttante, cercando il Turian con lo sguardo, ma l’unica cosa che riuscì a notare, in quella maestosa sala dalle pareti di vetro, furono coppie di tutte le specie. Garrus doveva essersi sbagliato, non poteva davvero aver avuto intenzione di cenare con lui a lume di candela.
Un cameriere gli venne incontro, sorridendo gentilmente. “Buonasera signore, vorrebbe dirmi il suo nome di prenotazione?”
“Vakarian”, azzardò lui, guardandosi intorno.
Il cameriere esaminò il registro digitale, poi scosse il capo, assumendo un’espressione mortificata. “E’ sicuro? Non abbiamo nessun Vakarian in lista”.
“Krios?”, domandò lui, ancora più perplesso.
“Ma certo! Si accomodi pure…”
Lo condusse ad un tavolo di modeste dimensioni, riparato da un separé di vetro oscurato, proprio davanti ad una cascata d’acqua illuminata da led violetti. Sulla tovaglia, una piccola candela finta proiettava le ombre di un paio di bicchieri finemente decorati. Garrus doveva essersi totalmente sbagliato e avrebbero finito per ridere di quell’inconveniente davanti a una bottiglia di birra, ne era sicuro. Decise comunque di aspettarlo per cortesia e si accomodò, sperando di non essere notato.
 
 
 
Shepard si sentiva ridicola ai massimi livelli, mentre percorreva le strade illuminate della Cittadella. Il tassista l’aveva lasciata a qualche isolato di distanza dal locale, affermando che si trattava di una zona a traffico limitato, per cui lei si ritrovò costretta a lottare contro la forza di gravità e un paio di odiosissimi tacchi. Quando lesse l’insegna del locale si sentì per un momento sollevata, salvo poi restare a bocca aperta davanti all’entrata. Quel posto era decisamente fuori dai suoi standard, nonostante l’abito che aveva scelto, rivelatosi decisamente all’altezza. Avrebbe voluto chiamare Tali e disdire l’incontro, ma non riuscì a trovare una scusa abbastanza sensata, anche perché dopo tutta quella fatica, valeva la pena godersi almeno una buona cena. Fece il suo ingresso titubante, senza avere neppure il coraggio di guardarsi intorno. Non voleva sentire gli occhi di nessuno puntati addosso, voleva semplicemente scomparire e riapparire comodamente seduta ad un tavolo, evitando tutta la parte intermedia. Riusciva già a vedersi inciampare su qualche tappeto, nel tentativo di raggiungere la sedia.
Un cameriere le si avvicinò, l’aria odiosamente riverente.
“Salve, signora. Vuole dirmi il nome di prenotazione?”, domandò.
“Shepard”, rispose lei, certa che Tali avesse fatto il suo nome, visti i soliti pregiudizi nei confronti dei Quarian.
“Ah, certo. Venga da questa parte, la stanno già aspettando”, comunicò quello con un sorriso a trentadue denti, facendo un ampio gesto del braccio.
Due secondi dopo, lei si sentì morire. 



 

Ah, finalmente... adesso riuscirò a rimettermi in pari con la storia su dA *festeggia* E allo stesso tempo, mi rendo conto che boh... sono quasi alla fine. Nooonononono (cit.), non voglio neanche pensarci. Fortuna che ho un'altra storia da continuare e due one-shot in cantiere, il che mi porterà a infestare questa sezione ancora per un pò, chiedo perdono. 
   
 
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