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Autore: rosie__posie    07/10/2013    7 recensioni
Sherlock e John si conoscono e si innamorano in Paradiso. Il primo è un'anima non ancora nata, il secondo è l'anima di un soldato rimasto ucciso in guerra. Sul tetto del Bart's, scesi sulla Terra, Sherlock non è capace di salvare la vita a John, che muore e torna nuovamente in Paradiso. Ma John non accetta di rimanere separato da Sherlock e fa un patto con Jim, il Diavolo: riceverà 5 vite in cui reincarnarsi. Se alla fine di queste vite non riuscirà a ritrovare Sherlock, la sua anima diventerà di proprietà di Jim. Per l'eternità.
Note: reincarnation!AU, da teen!lock a retirement!lock, wing!lock – Crossover con Sherlock Holmes Gioco di ombre, Dr House, Elementary
Due occhi grandi, incantevoli, d’una sfumatura indefinita che correva dal grigio medio all'azzurro più chiaro, quasi di ghiaccio. Erano occhi pieni di vita, quelli, come non ne aveva mai visti. Brillavano come due piccoli, grandi soli attorno ai quali ruota ogni cosa. Sul volto di quel ragazzino era dipinto un broncio delizioso. John stentava a crederci: aveva tra le mani un'anima.
Genere: Angst, Fluff, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Jim Moriarty , John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes , Victor Trevor
Note: AU, Cross-over | Avvertimenti: nessuno
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UN ANNO PRIMA DELLA NASCITA
 
 
 
John non avrebbe saputo dire se da quando era asceso in Paradiso fossero trascorsi mesi o, addirittura, anni. Ciò che, tuttavia, avrebbe potuto affermare con certezza era che la sua nuova non-esistenza non aveva subito radicali modifiche dal primo giorno.
 
Trascorreva gran parte del tempo sulla nuvola che era divenuta la sua dimora, in cima alla quale aveva immaginato la sua casa. Ovvero la tenda sotto la quale aveva dormito durante le ultime notti prima della sua morte.
 
Quando non se ne stava seduto a gambe incrociate davanti alla tenda, si avventurava in qualche passeggiata, che solitamente non durava mai molto poiché temeva che, se si fosse allontanato troppo, avrebbe smarrito la via di ritorno in tutto quel candido bianco accecante.
 
Un giorno, l’unico in cui s’era azzardato a camminare per ben venti minuti, si era trovato di fronte a qualcosa di sorprendente. Le soffici nuvole avevano lasciato il posto a una piccola piazzetta, al centro della quale si ergeva un bel pozzo antico, fatto di mattoni.
 
John si era guardato attorno, non senza una buona dose di sorpresa, fino a quando a un angolo della piazzetta non era apparso un bistrot [1]. Un ristorantino come quelli che colorano di sovente i paesini nella costa della Francia meridionale.
 
John non sapeva granché della Francia meridionale. A parte la sua amata Inghilterra e l’Iraq, non aveva messo il naso in nessun altro Paese, ma il caro nonno Watson l’aveva riempito, quando ancora portava i calzoni corti, di storie sulla Seconda Grande Guerra. Degli anni trascorsi in Francia e in Italia, con un fucile in spalla e gli scarponi fatti di cartone nei piedi [2].
 
Ecco, quello che John aveva di fronte pareva proprio aver preso vita da uno dei ricordi di suo nonno. Quasi quasi avrebbe addirittura potuto giurare di sentire La Marseillaise canticchiata da qualche parte poco lontano.
 
Forse era soltanto la sua immaginazione. Magari aveva finalmente imparato a far buon uso dei suoi ricordi, come aveva cercato d’insegnargli la cara Mrs. H.
 
Ma poi la porta del bistrot si aprì e, pian piano, ne uscirono diverse persone (o anime, per meglio dire) del tutto sconosciute al biondo capitano. Alcune erano giovani, altre anziane. C’erano delle coppie, che si guardavano negli occhi. E questi occhi sussurravano d’amore come nella più bella delle favole. Ma c’erano anche anime solitarie, che alla compagnia altrui preferivano quella di un quotidiano o di un buon sigaro.
 
John rimase a osservarle tutte stupito, mentre si attardavano a scambiarsi qualche parola prima di separarsi in direzioni diverse. Ma poi qualcosa accadde, che lo fece trasalire.
 
“John? John, sei tu, caro?” disse un’anima passandogli accanto. Era una vecchina ordinata e pulita, dai capelli color argento raccolti in uno chignon e agghindata in un bell’abito a fiori di seta. Aveva un’aria vagamente familiare agli occhi di John, cosa che non si poteva dire dell’uomo che passeggiava accanto a lei e che le reggeva amichevolmente il braccio.
 
La osservò per qualche attimo, poi un barlume di consapevolezza balenò nei suoi occhi. “Nonna. Nonna Watson...” biascicò alla fine, con un fil di voce.
 
“Mio caro! Quando sei arrivato? Non mi è stato detto nulla!” ribatté la vecchina, con l’anziano viso addolcito in un sorriso che conferiva una certa giovinezza ai suoi lineamenti. Ma John non rispose.
 
Non lo fece perché semplicemente era terrorizzato. Un conto era incontrare l’anima di persone decedute a lui sconosciute. Tutto un altro paio di maniche era interfacciarsi con qualcuno che lui conosceva. Qualcuno di cui era consapevole fosse realmente morto. Poiché si trattava della conferma che anche lui lo era.
 
Allora John fece l’unica cosa che era in grado di compiere, in quel momento; l’unica cosa che, da vivo, il soldato che era in lui non avrebbe mai fatto: darsi alla fuga. Senza proferir parola, strizzò gli occhi, lasciandosi avvolgere dal pensiero dell’unico luogo, in quel Paradiso, che gli ispirasse un qualche senso di protezione: l’ufficio di Mrs. Hudson.
 
Quando li riaprì, ogni cosa davanti ai suoi occhi era impegnata a vorticare rovinosamente su se stessa. Provò una fitta allo stomaco e un forte senso di vertigine. Trattenne a fatica un conato di vomito e, mentre abbassava nuovamente le palpebre, si accasciò a terra.
 
“Trasporto brusco?” Una voce femminile simile al ronzio emesso da una radio fuori frequenza gli penetrò nella testa. A fatica, aprì nuovamente le palpebre e cercò di mettere a fuoco il più possibile.
 
Era sprofondato in una poltrona di pelle. Morbida, accogliente. Una di tante tutte uguali in quella che aveva l’aria di una sala d’aspetto. Sopra la sua testa, un ventilatore a pale cercava pigramente di smuovere un po’ d’aria nella stanza, senza tuttavia fare un buon lavoro.
 
Poco più in là si trovavano una scrivania e una modesta schiera di schedari che a John parevano usciti dal più tipico dei telefilm anni Ottanta. Accanto a lui, invece, se ne stava una ragazza che lo stava osservando con aria preoccupata.
 
“Prova a pensare a uno dei tuoi ricordi preferiti. Potrebbe farti sentire meglio!” Questa volta la voce della ragazza (capelli corti, biondi e un trucco sobrio) risuonò meno stridente di prima. Era quasi piacevole.
 
“Mi sento meglio, adesso...” iniziò John, cercando di tirarsi in piedi. Ma la testa girava ancora, al punto che mise un piede in fallo e la biondina dovette sorreggerlo al volo per un braccio in modo da impedirgli di cadere di nuovo a terra.
 
“Se ti fa piacere, potremmo prendere un the assieme...” azzardò la giovane.
 
“No davvero, sto bene adesso” si scusò John mentre si accomodava nuovamente sulla poltrona, palesando un sorriso imposto dall’educazione. Non voleva perder tempo con quella donna, per quanto carina fosse: la sua unica urgenza era quella di parlare con Mrs. Hudson. Con qualcuno che lo capisse.
 
“Sono venuto per Mrs. H. È in ufficio?” domandò poi andando finalmente al sodo, mentre si guardava intorno. “Oh, sono desolata!” esclamò la biondina, con aria dispiaciuta. “È scesa sulla Terra giusto giusto stamattina all’alba” gli comunicò, sedendosi sul bracciolo destro di quella stessa poltrona e accavallando le gambe.
 
Gli occhi di John fecero del loro meglio, ma proprio gli fu impossibile non scivolare sulla coscia lunga e sinuosa messa in mostra dalla minigonna attillata. La ammirò. La contemplò. E si sentì un perfetto imbecille.
 
“Dunque Mrs. H... Mrs. H è diventata la nuova bambina di qualcuno...” balbettò, continuando a umettarsi le labbra con la lingua, divenute improvvisamente aride.
 
“Oh, no!” cinguettò giuliva la ragazza. “È solo giù a fare un giretto di controllo!” spiegò, inclinando il capo da un lato. La rivelazione fu così una sorpresa da riuscire a convincere gli occhi di John a staccarsi da quella gamba per tornare sulla sua proprietaria. “Un giretto di controllo?” ripeté.
 
“Già!” La ragazza strinse con decisione al petto la cartelletta che teneva tra le mani, dandosi un’importanza che non aveva. “Ogni tanto scende giù a controllare che vada tutto bene. Che le nuove anime siano state bene accolte, che gli angeli guardiani facciano il loro dovere e non mostrino le loro ali a sproposito... Cose così, insomma!”
 
John annuì e sorrise, fingendo di capire di che cosa stesse parlando la biondina. “E quanto pensi che dureranno questi controlli?” La ragazza si fece pensierosa, guardò per un attimo verso il soffitto, poi schioccò la lingua. “Tre o quattro giorni, credo. Può anche essere di meno... Questa volta è scesa con Gabriel!”
 
John evitò di chiedere se Gabriel fosse in realtà il famoso arcangelo, poiché già solamente il pensiero fu sufficiente a fargli tornare le vertigini. Non era d’aiuto nemmeno l’idea di dover trascorrere tre o quattro giorni senza poter confidare il suo disagio a qualcuno, in verità.
 
“Se hai bisogno di qualcosa, qualunque cosa, puoi chiedere a me!” aggiunse lei, sbattendo maliziosamente le ciglia. Alle parole qualunque cosa lo sguardo di John si era precipitato come un razzo laddove si trovava poco prima, mentre la mente si preoccupò di chiedersi se mai esistesse il sesso, in Paradiso.
 
“Credo..” Deglutì. “Credo che...” Deglutì nuovamente. “Che aspetterò Mrs. Hudson” concluse finalmente, gli occhi costantemente incollati all’orlo della gonna.
 
La ragazza sospirò. “Concluderà il suo giro di controllo a Londra, come fa sempre! Come la invidio...” un altro sospiro. “Londra...” mormorò poi John a se stesso.
 
La sua città. Gli mancava terribilmente. Il sol pensiero lo riscosse dall’incantesimo che quel paio di gambe aveva lanciato al suo indirizzo.
 
“Tu sei mai stata sulla Terra?” chiese poi John facendosi serio e tornando a guardare la ragazza negli occhi. “Oh sì!” Le labbra di lei si atteggiarono a un sorriso radioso, ma che si spense immediatamente. “Ma anni, anni e ancora anni or sono. Ero a Londra nella più gloriosa delle epoche...” Il suo sguardo si perse via, in ricordi che avevano ancora il potere di scaldare quell’anima come se risalissero a poche ore prima. “L’epoca vittoriana...”
 
John si sentì attratto da quel pensiero e si avvicinò di più a lei, sfiorandole il braccio nel mentre. Senza malizia, tuttavia. “Davvero? E chi eri, se posso chiedere?”
 
“Facevo la governante. Era un lavoro interessante, viaggiavo spesso. Ho sempre viaggiato, anche da bambina. Con mio padre. Una volta aveva addirittura trovato un tesoro!” [3]
 
Alla parola tesoro, la ragazza strinse il braccio di John, in un guizzo d’entusiasmo che contagiò l’altro. “Wow...” fu il di lui commento, mentre si sistemava meglio sulla poltrona, incantato da quel racconto che prometteva d’essere davvero avventuroso.
 
“Mio marito era medico di professione, un ex soldato. Un tipo coraggioso. Ma non era quasi mai a casa. Anche lui viaggiava spesso. Sempre in giro con il suo migliore amico, a rischiare la pelle in un modo o nell’altro...” continuò la ragazza, sempre più coinvolta nel racconto della sua vita precedente. “Persino durante la luna di miele, ci credi? Se ne è fuggito a Parigi – a Parigi! – con il suo amico, parcheggiandomi a casa di quello svitato del fratello. Dietro a quel tizio lì, che si credeva il Napoleone del crimine…” concluse la ragazza, con un gesto stanco e annoiato della mano. “Lasciare una donna bella come te... Io non credo che ne sarei mai capace!” esclamò John con trasporto. La biondina gli sorrise, le gote lievemente imporporate di malizia.
 
“E poi? Cos’è accaduto?” Lei corrugò la fronte. “E poi... Sono morta. Ma non ricordo proprio come o quando...” “Oh, mi spiace...” “Anche a me...”
 
Poi la giovane notò che la sua mano era ancora stretta al braccio di John. “Se vuoi, puoi venire con me!” gli propose. Lui la guardò senza comprendere. “Che cosa vorresti dire? Venire con te dove?” “Rivivere alcuni dei miei ricordi, assieme. Se ci teniamo per mano e io penso intensamente a un ricordo, potrai viverlo anche tu, come se fosse anche tuo!”
 
La proposta della sconosciuta era seducente. Estremamente seducente. John guardò la mano sul suo braccio e poi lei direttamente negli occhi. Dischiuse le labbra per comunicarle la sua decisione quando un boato violento riecheggiò nella stanza, facendo tremare le pareti come se fossero state di cartapesta. I due si voltarono all’unisono verso la porta, che si era spalancata lasciando entrare un fiume di pioggia e foglie.
 
Un attimo dopo, da quella stessa porta fece capolino un uomo più largo che alto, che indossava un impermeabile grigio e teneva tra le mani un ombrello nero, bucato in più punti.
 
“Quando si dice tuoni e fulmini! Che tempaccio c’è sulla Terra, oggi!” disse l’uomo, aprendo e richiudendo più volte l’ombrello per far scivolare via tutta la pioggia. Si guardò un po’ in giro accigliato, notando l’assenza del portaombrelli. “Mrs. H, Mrs. H! Ma come fai quando piove?” chiese a se stesso. Allora strizzò gli occhi e, come per incanto, un portaombrelli in ottone apparve accanto all’attaccapanni di fronte alla porta. “Ecco, così va meglio!” gongolò l’uomo, liberandosi dell’oggetto fradicio.
 
Poi posò gli occhi prima sulla ragazza, quindi su John, squadrandolo in un attimo da capo a piedi come la più avanzata delle macchine per imaging radiologico. “Sta disturbando forse il nostro ospite, signorina Morstan?”
 
A quel richiamo ufficiale, le gote della giovane che rispondeva al nome di Morstan si tinsero di un’accesa sfumatura di viola. “No, Mr. H!” “Lo sa, vero, che non sta bene importunare le anime non ancora completamente integrate, signorina Morstan?” “Certo, Mr. H! Gli stavo solo tenendo compagnia in attesa che lei arrivasse” farfugliò, scivolando via dalla poltrona con aria colpevole.
 
“Non ha nulla di più urgente da fare, Mary?” insistette ancora il nuovo arrivato, togliendosi il soprabito bagnato e facendolo volare (letteralmente) sull’attaccapanni.
 
“Signorsì!” rispose lei, mettendosi sull’attenti e sparendo dietro la scrivania. L’uomo passò accanto a John, aprì la porta dello studio di Mrs. Hudson e vi sparì dentro, con un “Vieni, ragazzo, ti ascolto!”
 
Il giovane si alzò in piedi, confuso e indeciso sul da farsi. Guardò la signorina Mary Morstan, nella speranza che gli potesse dare qualche suggerimento utile. “È il principato Siger! Della stirpe degli Holmes!” bisbigliò, scandendo bene sia principato che Holmes. John lo osservò come per dire E dunque?
 
“Una delle figure più alte in carica, qui dentro” disse ancora lei. “Ragazzo?” gridò Siger dall’ufficio. Allora Mary fece a John un segno con la mano, a indicargli di sbrigarsi, e il ragazzo alla fine obbedì.
 
Mary Morstan lo osservò sparire nell’ufficio di Mrs. Hudson e, mentre la porta si richiudeva per magia dietro alle sue spalle, mormorò a se stessa: “Ricorda tutto ciò che puoi sulla mia vita precedente, John Watson, poiché ti sarà utile quando la tua anima tornerà sulla Terra…”
 
John si guardò attorno spaesato quando mise piede dentro l'ufficio di Mrs. H, ora di tal Mr. Siger Holmes: niente più buio bar di L'Havana, niente più accogliente tea room inglese. Attorno a lui c'era un salotto, di modeste dimensioni ma a cui non mancava nulla: i suoi occhi notarono due poltrone (diverse tra loro), un divano di pelle, un camino (acceso e scoppiettante), una scrivania (sotto due finestre ampie e luminose), un bello e grande specchio (nel quale John ebbe timore a specchiarsi) e una libreria carica di libri d'ogni genere (su una mensola, il ragazzo notò anche un teschio, ma evitò di far domande).
 
"Accomodati pure dove preferisci, ragazzo!" disse il principato Siger, soffiandosi sulle mani e strofinandole tra loro alla ricerca di un po' di calore.
 
"Io... Dove siamo? Se mi è permesso..." domandò poi John, muovendo un paio di passi verso le finestre. "Oh, a Londra!" Una sola parola e il soldato si bloccò dov'era. Avrebbe giurato di aver sentito il suo cuore sussultare e il suo sangue pompare al massimo nelle vene. Un solo nome e a John Watson parve d'essere tornato vivo. "Londra..." mormorò, affacciandosi speranzoso a una delle finestre.
 
Ed eccoli laggiù, i marciapiedi innevati. Eccolo lì, un taxi nero che sfilava nella strada. Eccoli là, i passanti perennemente di corsa. Il cuore del ragazzo galoppava e faceva le capriole al centro del petto. John schiacciò ancor di più il naso contro il vetro, ansioso di divorare con gli occhi ogni angolo di ciò che riuscivano a scorgere.
 
E laggiù cos'altro c'era? La fermata della tube. Baker Street, gli parve di leggere. “È davvero Londra, questa?” mormorò a fior di labbra. “Oh, no, ragazzo! È solo una proiezione dei miei ricordi!”
 
Una grigia tristezza indurì i lineamenti di John. "Ti manca, non è vero?" la voce rassicurante del principato gli giunse a un orecchio. "Più di qualsiasi altra cosa..." rispose, lo sguardo ancora incollato sulla strada. A malincuore, si staccò dalla finestra e raggiunse Siger, che si era accomodato sulla poltrona di pelle nera. John prese posto nell'altra.
 
"Non l'hai ancora superato, vero?" proseguì il principato, con un sorriso. John notò che nella mano destra dell'angelo era apparso un bicchiere di cristallo. Al suo interno, due dita di ciò che gli parve brandy.
 
Il soldato scosse la testa, tamburellando nervosamente le dita sul bracciolo. "Già, la tua divisa ancora sporca di sangue lo urla a chiare lettere..." bisbigliò Siger, dando fondo al suo brandy in un sol sorso. John ebbe l'impressione che anche lui portasse un grosso peso sulle spalle. O sulle ali...
 
"Mi abituerò mai?" chiese John, il respiro che moriva nell'aria, in attesa di una risposta. "Alcuni si abituano in meno di un'ora. Per altri, beh... Sono necessari anni" Uno schiocco di dita e il bicchiere si riempì. "Vuoi favorire?" John rifiutò educatamente. "Mi piaci, ragazzo" commentò Siger, prima di avvicinare le labbra al bicchiere.
 
"Ho incontrato... Ho incontrato mia nonna oggi. È morta." Una pausa. "Beh, ovvio che lo era..." aggiunse, sentendosi alquanto stupido. Siger annuì, incitandolo a proseguire. "Sono scappato. Mi sono sentito sopraffatto e sono scappato via, finendo qui." John tacque, nella speranza che il principato dicesse qualcosa al suo posto.
 
Siger terminò il suo secondo bicchiere di brandy e, con uno schiocco di dita, il bicchiere sparì esattamente com'era apparso. Poi si chinò in avanti, chiuse gli occhi e appoggiò la mano destra, a palmo aperto, proprio nel centro del petto di John. Il ragazzo sussultò: la testa prese a girare, le gambe a farsi molli, così tanto da rallegrarsi d'esser seduto, poiché altrimenti sarebbe finito a terra. Di nuovo.
 
Per un attimo, gli parve di riuscire a sentire il suo cuore battere, amplificato nell’aria, come se fosse seduto su una terza sedia accanto a loro. Percepì una sensazione di tepore che si espanse rapidamente in tutto il corpo. E, soprattutto, si sentì in pace. Con se stesso, con il cecchino iracheno che aveva posto fine alla sua vita, con sua nonna, con suo padre nel cui nome s’era arruolato.
 
Quando Siger ritrasse la mano, il ragazzo temette che la piacevole sensazione che aveva provato scomparisse da un secondo con l'altro, ma non fu così. Si sentiva ancora bene.
 
"Il tuo cuore è puro, John Watson. Non devi temere nulla. E nulla deve temere te" disse Siger, aprendo gli occhi. John si sentì trasalire, quando si trovò di fronte a quegli occhi. Così belli, così puri. Gli parve d'averli già visti, d'averli già ammirati.
 
"Prenditi tutto il tempo di cui hai bisogno, John. Anche se questo dovesse dire diventare un po' egoista. Non puoi amare gli altri se prima non ami te stesso" continuò il principato, sfregandosi ancora le mani e alzandosi in piedi. "Dovresti sceglierti un hobby. Chissà, la pesca, il bridge, la scrittura... Basta che non provi a volare... Le ali non crescono da un giorno con l'altro. Devi compiere un'azione meritevole, come mettere la tua vita in gioco per salvare quella di qualcun altro... Altrimenti rischi di ritrovarti spiaccicato a terra, come è capitato al mio piccolo Sherlock!" sentenziò il principato, parlando tutto d'un fiato.
 
"Oh, certo... Mi aveva già redarguito Mrs. Hudson appena giunto qui" commentò John, alzandosi in piedi. "Povero ragazzo..." continuò Siger accorato, "ha così voglia di scendere sulla Terra, ma non lo reputo ancora pronto." Il principato fece schioccare le dita e, accanto a lui, apparve uno schedario non troppo in buono stato. "Da qualche mese invece è fissato con gli aquiloni..." borbottò, mentre iniziava a scartabellare.
 
Un barlume di consapevolezza passò attraverso gli occhi del ragazzo. "Gli occhi! I vostri occhi, sono uguali!" esclamò. Siger si voltò a osservarlo, incuriosito. "Credo di aver incontrato suo figlio Sherlock” spiegò, lievemente imbarazzato. “Aveva in mano un buffo aquilone a forma di ape. Mi ha detto che andava a testare qualcosa su una montagna..."
 
"Per la barba di giosafatte!" esclamò il principato, accalorandosi. "Hai parlato con Sherlock? Proprio mio figlio?" Siger era così stupito che, per reazione, di colpo mostrò a John le ali in tutta la loro magnificenza.
 
L'apertura alare del principato Holmes era così maestosa che il giovane soldato indietreggiò di qualche passo, intimorito. "Oh, scusa, ragazzo!" farfugliò l’angelo, nascondendo immediatamente le bianche piume.
 
“Sai, ragazzo, mio figlio non parla mai con nessuno. Parla a malapena in generale...” La voce del principato si affievolì sino a divenire appena più di un sussurro, mentre abbandonava lo schedario e tornava a sedersi. Se già solo pochi minuti prima il giovane John appariva una creatura deliziosa ai suoi occhi, dopo quella rivelazione lo era diventato ancor di più. “Devi essere un’anima davvero interessante se mio figlio ha voluto parlarti” disse poi, lo sguardo pieno di ammirazione.
 
John arrossì. “Beh, in realtà si è trattata di una circostanza fortuita. Ci siamo... scontrati. Lui ha intercettato il mio cammino!” spiegò. Siger rise divertito. “Sono certo che, se lo domandassimo a lui, Sherlock direbbe che eri tu ad aver intralciato il suo!” Il giovane sorrise, sentendosi un po’ meno imbarazzato. “Abbiamo solo parlato per qualche minuto. Di aquiloni. E del fatto che fossi appena... morto.”
 
Gli occhi del biondo si tuffarono a contemplare la punta dei suoi scarponi militari, pregni di nostalgia. “Credimi, ragazzo mio, è già stato molto. E te ne sono grato!” “Ma non ho fatto nulla di che, davvero” ribatté John, tornando a guardare il principato in volto. “Oh, lo è stato! Lo è stato...” Poi Siger si ammutolì, mettendosi a riflettere. Per un attimo, le sue grandi ali fecero di nuovo capolino sulla sua schiena, in segno della sua eccitazione, ma l’angelo si preoccupò di tornare immediatamente a celarle.
 
“Dimmi, John. Ti andrebbe di provare a fare amicizia con mio figlio?” domandò, la speranza insita in ogni lettera. Il ragazzo dischiuse le labbra senza tuttavia dir nulla, soppesando la proposta. “Avere qualcuno di speciale con cui parlare potrebbe finalmente aiutarlo a prepararlo per quando verrà al mondo” continuò Siger. “Ma io non sono così speciale!” Di nuovo quel sorriso che illuminava tutta la stanza. “Se Sherlock ti ha concesso se stesso per qualche minuto, significa che ti considera così, ragazzo mio!” []
 
Allora John annuì, distogliendo lo sguardo mentre rifletteva ancora sul compito ricevuto. “Non è detto che vorrà ancora parlare con me, però...” “Qualunque cosa andrà bene. In un solo minuto, in una sola frase detta tra due anime, in un sol sguardo scambiato da due persone può essere racchiusa una vita intera” spiegò Siger con tutta la dolcezza tipica di un padre. E di un profondo conoscitore dell’animo umano.
 
“Va bene, lo farò. Parlerò di nuovo con Sherlock” proferì il giovane, questa volta con più decisione. Il principato si alzò in piedi: era evidente che non stava più nella pelle. “Cosa devo fare, ora?” “Adesso chiudi gli occhi e concentrati sul suo ricordo” spiegò Siger, imponendo le mani sulle sue tempie. “Rilassati e pensa a lui molto intensamente” continuò, massaggiandole molto lentamente. “Stai pensando a lui?” Un mhm di piacere e conferma sgattaiolò dalle sottili labbra di John. “Bene...” Il ragazzo si morsicò con insistenza il labbro inferiore: sentiva che era pronto a partire, a essere proiettato fuori di lì.
 
“E ora John Watson può riunirsi a Sherlock Holmes...”
 
 
 
 
 
 
 
Angolo dell’autrice:  perdonate il ritardo con cui aggiorno, ma vi confesso che sono un po’ dubbiosa nei confronti di questa storia; è davvero complicata e richiede moltissime energie da parte mia. Mi auguro continuerete ad apprezzarla ugualmente!
 
[1] il bistrot vuole omaggiare sia Il ristorante al termine dell’Universo di Douglas Adams, sia il film Una buona annata con Russell Crowe. [2] dai racconti di mio nonno sulla campagna di Russia: i nostri soldati portavano davvero scarpe fatte di cartone. [3] la mia Mary sarà un miscuglio tra quella di Doyle e quella di Ritchie.
 
 
   
 
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