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Autore: suni    03/04/2008    4 recensioni
A padre Jack gli sfruttatori non piacciono, e quando arriva in paese non ha paura di farlo sapere. Mariù, invece, è sfruttata in silenzio. Sullo sfondo di una lotta all’abuso senza quartiere i loro percorsi si intrecciano, cambiando in tronco le rispettive vite.
Per l'Original Fest di Fanfic Italia.
Genere: Generale, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Padre Jack

Per l’Original Fest di Fanfic Italia.

Prompt: Generale - [Prete, Prostituta] - "Allora perché sei qui?" - Non si tratta di una confessione, di una predica o di un'elemosina

 

In teoria l’avrei messo su lj, ma era troppo, troppo lungo e non ci stava in un solo post nemmeno lì. Spero di non contravvenire a regole di sorta (ma sicuramente lo sto facendo).

Che dire, spero di non annoiarvi, dispiacervi, ecceterarvi.

Ciao a tutti

suni

 

 

 

 

 

Devi  stare al tuo posto

 

 

 

“Padre Jack?”

Giacomo sollevò appena la testa per spostare gli occhi dal Vangelo. Non erano ancora le sette e mezza di mattina e in sacrestia c’era soltanto lui, con addosso ancora i pantaloni della tuta e il maglione di lana di sua nonna, che indossava solo perché evidentemente la Divina Provvidenza così voleva, dal momento che il coriaceo indumento resisteva a tutti i violenti lavaggi cui lui lo sottoponeva nella speranza che si disfacesse.

Di fronte a lui c’erano due uomini. Sui trent’anni, poco più giovani di lui. Il primo aveva gli occhiali da sole sul naso, era ben vestito, con pantaloni stirati con la piega e una camiciola azzurra. Immediatamente alle sue spalle c’era il secondo visitatore, avvolto in appariscenti jeans pezzati e una larga felpa da rapper. Creavano un bizzarro contrasto.

“Sono io,” rispose cordialmente, nonostante l’intrusione inattesa del duetto fosse stata poco educata, chiudendo il volume e tenendo il segno col dito.

“Saluti da Antonio,” annunciò l’uomo elegante con un sorriso compiaciuto.

Don Giacomo, o Jack o Giacomino come lo chiamava ancora sua madre, e a volte suo fratello, nonostante avesse trentatre anni, riuscì appena a sussultare di sorpresa e lanciare uno sguardo consapevole e disperato verso la porta d’uscita, comunque irraggiungibile a causa dei due uomini frapposti ad essa. Non fece nemmeno in tempo ad iniziare ad alzarsi dalla sedia. Il rapper sollevò il braccio armato e gli svuotò contro il caricatore, sette colpi in rapida sequenza. Rimbombarono nell’ampia sala come violente esplosioni mentre il corpo del prete si accasciava sulla sedia e da lì scivolava morbidamente a terra, senza un gemito né un lamento.

Il sangue iniziava appena ad allargarsi a macchia d’olio sul pavimento, quando i due uomini sparirono com’erano arrivati.

 

La chiamavano Mariù perché il suo vero nome, Maruska, sembrava troppo difficile da pronunciare.

Aveva ventidue anni ed era rumena, arrivata lì, in quel posto qualsiasi, a sedici per fare la puttana, anche se lei naturalmente non aveva in mente proprio quel progetto. Ma Antonio Adeschi gestiva, insieme al cementificio più attivo della provincia e all’outlet di abiti firmati, un discreto giro d’affari legato alla prostituzione, che espandeva qualche propaggine anche nel capoluogo.

Finita in mano sua, Maruska non aveva avuto molte valide alternative.

Era la ragazza più bella che si fosse vista in paese a memoria d’uomo: aveva lunghi capelli meravigliosamente ondulati, d’un biondo sfumato nel rosso, e la pelle chiarissima, leggermente spruzzata di efelidi. Gli occhi, azzurri e così chiari da sembrare quasi trasparenti, conservavano sempre una tristezza impossibile da evitare, ma mascherata di spavalderia le poche volte che si faceva vedere in pubblico. Perché quasi tutti, in paese, sapevano che Mariù faceva la vita.

Luciano, il gestore del bar del centro, diceva che aveva mani d’ avorio, così sottili che pareva non potessero reggere nemmeno la tazzina del caffè. E naturalmente si faceva un gran commentare di gambe come cosce di lepre, di una vita sottile come una canna di bambù – una canna di bambù l’avevano vista dal vero, a dir tanto, in quindici; ma il paragone rendeva l’idea e veniva utilizzato senza economie -  e di una scollatura che ci si perdeva dentro.

Delle ragazze di Antonio, Mariù era l’unica che abitasse in paese. Perché era la prediletta del dirigente, la punta di diamante della sua scuderia e la voleva tenere vicina, non perderla d’occhio.

Lei non dava mai confidenza a nessuno, perché tanto sapeva perfettamente quel che pensavano di lei, sapeva di essere soltanto una baldracca straniera in un paese di mille e cinquecento anime nella cintura esterna del capoluogo, in cui il principale polo comunitario era la parrocchia di don Mauro. Il quale sacerdote, peraltro, non mancava di omaggiarla con lo sguardo del massimo sprezzo ogni qualvolta lei capitasse a portata d’occhi.

Mariù era nata in un villaggio poco lontano da Bistrita di sane tradizioni cristiane e da bambina andava sempre a messa, ma in paese nemmeno osava avvicinarsi alla chiesa, né le importava più. Col tempo, s’era abituata a considerare sé stessa come la depravata che era divenuta nell’immaginario comune. E se qualcuno, per caso, le rivolgeva la parola, Maruska ormai replicava con le rituali espressioni sprezzanti e volgari che le avevano appreso le colleghe e gli sgherri. A guardarla si sarebbe detto che fosse persino contenta, che provasse disprezzo per la gente comune.

Maruska Bielovcenko da bambina sognava di sposare un bravo ragazzo e abitare in una cascina in campagna, tenere le oche e persino i maiali, anche se puzzavano: perché avevano tanta carne e le piaceva la festa che si faceva nelle borgate il giorno del macello.

Invece la sua vita aveva preso un’altra piega e lei aveva smesso di credere nella sua bellezza; niente di moralistico, niente di trascendentale o filosofico: Maruska viveva vendendo se stessa e per questo, del mondo, riteneva di sapere abbastanza.

Che era un posto da schifo, basilarmente.

Era in paese da quattro anni quando don Mauro, oltrepassata abbondantemente la sessantina, venne trovato un mattino stecchito nel letto, stroncato da un infarto improvviso. Ci fu un grosso funerale, le beghine piangevano e si strappavano i capelli. Le urla le sentiva persino lei, chiusa nel suo monolocale malamente arredato.

Il nuovo parroco arrivò la settimana dopo. Maruska non lo vide ma Claudia, la cuoca di casa Adeschi, le raccontò dell’atteso evento con minuzia di particolari, ché non disdegnava le chiacchiere nemmeno se l’interlocutrice era una troia.

C’era una delegazione di vedove e assessori ad aspettare il sacerdote il giorno previsto per il suo arrivo. Quel che si sapeva di lui era che si chiamava don Giacomo Oderni, era originario di un altro paese della cintura distante una cinquantina di chilometri, era abbastanza giovane e aveva studiato a Roma. Aveva fama di  prelato colto e intelligente e avrebbe potuto aprirsi molte porte e far carriera in Vaticano, invece alla prima occasione s’era fatto assegnare a una qualunque parrocchia della sua regione d’origine.

Quando arrivò la macchina e già Anna Rolfi, beghina maxima della comunità, si sistemava il foulard sui capelli, ne scesero due ragazzi in blu jeans e giacca a vento, uno sulla trentina, l’altro un po’ più giovane, che iniziarono a svuotare il baule. Ci fu un momento di ragionevole perplessità e poi Mario Maldersi, assessore all’urbanistica, si fece avanti con baldanza.

“Don Giacomo Oderni?” chiese a nessuno in particolare.

“Sono io,” rispose amabilmente il più adulto dei nuovi arrivati, posando a terra un borsone e tendendo la mano con un movimento franco e un sorriso aperto. “Grazie per l’accoglienza, parrocchiani,” proseguì, allargando a tutto il capannello il suo sorriso luminoso.

Vennero immediatamente fatte le presentazioni – il ragazzo che l’accompagnava venne introdotto come suo fratello Andrea, laureando in legge - e don Giacomo si fece accompagnare, sotto l’egida del sacrestano Nicola, a visionare la sua diocesi e gli appartamenti del parroco, con una parola gentile per tutto quel che vedeva, tanto che alla fine della visita la conclusione fu che era un ragazzotto amabile e simpatico, per carità, ma non aveva proprio la stoffa per l’autorità e il fatto che al momento del suo arrivo ufficiale non indossasse l’abito talare destò più d’un sospetto. 

Don Giacomo s’installò senza clamore. La domenica tenne la sua prima messa e piacque per la dolcezza ferma delle sue parole e l’impeto della predica appassionata, anche se il suo discorso parve un po’ laico nei toni pratici di quotidianità e schiettezza. Unendo questo fatto ai suoi blu jeans, la giacca a vento – rossa, un colore davvero poco consono – e l’aspetto fresco e accattivante, non convinse del tutto i parrocchiani.

Antonio Adeschi, che a causa di improrogabili impegni aveva mancato alla funzione, drizzò le antenne quando gli fu riferito che durante la sua prima predica il don aveva pronunciato le parole oppressione e sfruttamento. Avrebbe avuto altre valide ragioni per inquietarsi, perché nei dieci mesi successivi il nuovo parroco mise immediatamente in chiaro la propria posizione riguardo alla sua politica di spadroneggiamento delle risorse, schierandosi nell’ordine:

- contro il suo nuovo piano di allargamento edilizio e costruzione di un secondo outlet appena fuori il paese

- contro il progetto di ampliamento della proprietà del dirigente e di aggiunta di un terzo piano alla sua magione, adducendo il futile pretesto di mancato rispetto verso la legge di costruzione edilizia e arrivando ad accusarlo pubblicamente di abuso

- contro la petizione per l’apertura di una centrale termoelettrica in società con la Termoforce Spa, impiantata nel capoluogo.

In particolare su quest’ultimo punto il prete e l’affarista si scontrarono bruscamente. Giacomo svolse accurate indagini, grazie al contributo del fratello Andrea, arrivando a dimostrare che la Termoforce era legata tramite vari prestanome all’Adeschi stesso. Una volta entrato in possesso della preziosa informazione non si limitò a rendere noto ad Antonio che conosceva i suoi maneggi, non iniziò trattative di accordo private, ma affisse direttamente dei volantini alle porte della chiesa e pubblicò la notizia sul bollettino della parrocchia. Antonio era furibondo.

I parrocchiani a quel punto erano divisi nei confronti del modo di agire del sacerdote: da una parte gli entusiasti, sollevati oltre ogni dire dall’evidenza di avere finalmente un curato che osasse utilizzare i poteri di cui era investito in loro autentica difesa, convinti che l’aria stesse finalmente cambiando e che l’onnipotenza di Adeschi fosse ormai agli sgoccioli; dall’altra, invece, i più pavidi e i più anziani preferivano non esprimersi e omaggiavano il pievano di un distaccato, educato rispetto misto a una benevola condiscendenza, perché una dispersorio nulla poteva contro la potenza di un kalashnikov. I pessimisti affermavano tetri che don Giacomo non sarebbe durato a lungo.

Lui, dal canto suo, sembrava provvisto di un’energia senza fine. Marciava da un lato all’altro della diocesi, consolava vedove, confortava ammalati, rimproverava i ragazzini che davano troppa retta agli adescani e, naturalmente, monitorava l’azione di Antonio senza perdersi una mossa.

Riportò in auge il club calcistico della parrocchia e coinvolse il maggior numero di ragazzini nelle sue attività, con lo scopo nemmeno troppo velato di tenerli il più lontano possibile dall’influenza degli affaristi. Fu Pietro Corlotti, anni nove, che prese a chiamarlo alla maniera in cui, peraltro, lo interpellava anche suo fratello Andrea, padre Jack. Il soprannome gli s’incollò addosso istantaneamente e il curato, che d’altra parte insisteva con tutti i fedeli per farsi dare del tu e farsi chiamare semplicemente Giacomo, per avvicinarsi a loro, non poté che esserne lieto.

E padre Jack man mano acquistava popolarità. Piaceva per i modi semplici e diretti, per la pazienza e la comprensione e, anche, sebbene non fosse esattamente nei suoi desideri, per i grandi occhi cerulei e per la figura slanciata. Non che fosse precisamente un uomo molto attraente, Giacomo: un po’ troppo dinoccolato, con un viso leggermente asimmetrico e il naso inequivocabilmente a patata; ma rispetto al pingue e anziano don Mauro era comunque un cambiamento epocale, le ragazzine andavano a messa come a una sfilata e Andrea si faceva delle sacrosante sghignazzate quando le vedeva entrare in confessionale sbattendo le ciglia come davanti a George Clooney.

Giacomo lo aveva coinvolto nella sua lotta alla centrale termoelettrica e l’apprendista avvocato si presentava settimanalmente alla messa, cui assisteva dal fondo della chiesa – era un fervente ateo, ma nessuno lo venne a sapere – per poi discutere col fratello privatamente delle azioni che poteva compiere e della legislatura di cui avvalersi. Fu tramite Andrea e i suoi colleghi che Giacomo si mise in contatto con quasi tutti i suoi futuri collaboratori, sparsi sull’intero suolo nazionale: Roberto Merles, attivista contro il depauperamento criminale organizzato delle risorse umane ed economiche, Matteo Vinchi, giornalista impegnato e militante dalle mille risorse, il gruppo Arcas, associazione di recupero delle vittime di sfruttamento, e così via nella creazione di una fitta rete di partecipazioni mirate all’arresto delle azioni illecite.

Destava ancora qualche contrarietà la sua giacca a vento rossa fiammante, ma per il resto i consensi fioccavano.

Fu Giacomo a proporre la petizione cittadina contro la centrale e vagabondò personalmente di porta in porta per raccogliere le firme, parlando chiaro e accusando apertamente Adeschi. Antonio lo venne a sapere nel giro di mezza giornata. Giacomo fu avvicinato da Giuseppe Imparsi, suo braccio destro, mentre continuava la sua insolita questua.

“Padre Jack, buongiorno,” lo apostrofò con deferenza.

“Buongiorno a lei,” fu la secca risposta.

“Le porto gli omaggi di Antonio Adeschi,” espose l’uomo, con tono d’intesa.

“Ricambio la gentilezza,” replicò padre Jack, senza nemmeno rallentare il passo. “Mi voglia scusare, vado piuttosto di fretta.”

“Padre, padre,” lo rallentò Giuseppe scuotendo la testa. “Antonio è molto costernato. Non si spiega tanta avversione da parte sua, che le abbiamo mai fatto?” interrogò bonario.

Giacomo era paziente e comprensivo, di norma, ma possedeva un caratterino facilmente infiammabile, e solitamente bastava la visione di certe facce perché la miccia prendesse fuoco.

“Senta,” iniziò brusco, poggiandosi i fogli della petizione contro il petto come un’armatura, “non mi venga a prendere in giro. Lo sappiamo tutti e due cos’ha fatto il suo amico Adeschi, non a me ma a tutto il paese, e cos’ha in mente di continuare a fare. E’ inutile che perdiamo tempo in convenevoli,” affermò risoluto.

“Ma padre, non c’è bisogno di tanta astiosità. Possiamo metterci d’acc…”

“Io non sono sul vostro libro paga,” ringhiò Giacomo sollevando la testa. “E non ci sarò mai. Vada a raccontare queste cazzate in comune, che lì sono tutti amici suoi.”

Non gli lasciò nemmeno il tempo di rispondere: girò i tacchi e marciò via come un soldato alla carica, testa alta e passo fermo. Testimoniava alla scena Luigi Camarso, anni settandadue, che scrollò la testa con un sorriso ammirato ma mesto: il nuovo parroco aveva di sicuro fegato in abbondanza, ma non era un campione di diplomazia.

Antonio accusò il colpo senza inizialmente addolorarsene, prendendo semplicemente atto del fatto di avere un nemico. Dapprima tentò di screditarlo, sparse dubbi sulla sua integrità, ipotizzò intrallazzi poco consoni alla sua carica. Ma in pochi mesi l’onestà di Giacomo gli aveva creato un muro intorno e Adeschi dovette rendersi conto che ci sarebbe voluto ben altro per liberarsi di quel problema.

Tutto questo, ad ogni modo, Maruska lo seppe soltanto tempo dopo. Claudia le aveva raccontato dell’arrivo del parroco e qualche ragazzino, ogni tanto, ciarlava rumorosamente degli allenamenti della squadra – in cui padre Jack militava come terzino. Per il resto, le cose ecclesiastiche non erano affar suo, lei stava nel ramo mondano; ricordando don Mauro si tenne a debita distanza.

La sua situazione si faceva via via più intollerabile. Aveva tentato di manifestare ai ragazzi di Antonio il desiderio di lasciare il giro e il risultato erano stati due giorni di ospedale, una costola incrinata e un labbro tumefatto per una caduta dalle scale. Si sottometteva alla sua triste situazione senza più nutrire la minima speranza: soldi per andarsene non ne aveva, e anche se avesse tentato la fuga sarebbe stata ribeccata in un amen, e allora altro che costola incrinata. La si vedeva deperita, mesta, meno bellicosa e altera del solito, più mite e priva della consueta aggressività.

Era stanca, Mariù. Stanca da morire.

Non vedeva vie d’uscita, piangeva di nascosto e si piegava ai suoi odiosi doveri con sempre maggior orrore, quasi non dormiva, non usciva mai se non fare un po’ di spesa. I suoi aguzzini le lasciavano qualche soldo per tirare avanti e a lei piacevano i pomodori e le arance.

Quel martedì ne aveva preso un grosso sacco, belle arance rosse e tiepide di sole. Mentre lasciava la bottega del fruttivendolo urtò un ragazzino che correva via con una bibita in lattina e la sue arance rotolarono a terra, sparpagliandosi sul selciato. Soffocò un’esclamazione a mezza voce nella sua lingua e sospirò, chinandosi a raccoglierle. Si sorprese molto nel notare altre mani impegnati nella medesima attività e un corpo chino a terra, indaffarato: nessuno raccoglieva niente a Mariù, la donnaccia.

“Grazie,” mormorò col suo accento straniero allo sconosciuto, che riversò una bracciata di agrumi nel suo sacchetto con un sorriso amichevole. Lo scrutò di sbieco, senza osare guardarlo apertamente: alto e biondo, giovane.

“Spero non fosse una bestemmia,” osservò lui vago, riferendosi alla sua interiezione sussurrata.

Maruska fu tanto sorpresa nel sentirsi rivolgere amichevolmente la parola che non seppe cosa rispondere, scrollò soltanto la testa.

“Meglio così,” fu il noncurante commento. “Io sono Giacomo.”

E allora lei focalizzò la giacca rossa, il sorriso cordiale e le maniere aperte, sgranò gli occhi e mormorò una risposta incomprensibile, affrettandosi a raccogliere le ultime arance.

“Grazie. Io…io…” balbettò intimorita.

“Tu sei Maruska. No?”

Questa volta si voltò apertamente verso di lui, anche per la sorpresa di sentir pronunciare il suo vero nome. In un anno non s’erano mai incontrati né visti. Ma non era davvero sorprendente che lui sapesse chi era, ma piuttosto che lo affermasse con tanta inoffensività.

“Sì…sì. Ma mi chiamano Mariù,” mormorò, guardandosi nervosamente intorno.

“Lo so.”

Mariù inghiottì la bile e l’amarezza, e si strinse contro il sacco della spesa.

“Se lo sa allora perché sta qui a parlare con me?” rispose fredda.

“Perché no?” fu l’innocente risposta.

“Perché sono una p…” iniziò fiera.

“Lo so,” si affrettò a zittirla lui.

Rimasero entrambi in silenzio. Simone, il fruttivendolo, li fissava sfacciatamente dalla soglia del negozio, con l’aria di chiedersi esterrefatto se il parroco avesse deciso di darsi alla bella vita. Giacomo accennò un sorriso cordiale nella sua direzione e Simone rispose con un cenno di saluto e una smorfia colpevole, colto in flagrante invadenza, prima di tornare alla cassa.

“Da quanto tempo sei qui?” chiese Giacomo, infilando le mani in tasca.

Maruska sbatté gli occhi, quasi incredula per quel tono da chiacchierata. All’angolo della via i ragazzini li guardavano e sghignazzavano apertamente, ma Giacomo pareva non badarci.

“Cinque anni,” borbottò indecisa.

“Mai visitata la chiesa?” continuò lui, gentile. Lei scosse più volte la testa, a sguardo basso.

“Allora, se ti capita, vieni. Se vuoi fare due parole o sentire una messa.”

Maruska lo scrutò sospettosa, domandandosi se i dubbi di Simone non fossero fondati. Ma Giacomo era serio e composto, l’aria assolutamente non equivoca. Voltò la testa, imbarazzata.

“Antonio Adeschi si arrabbia se qualcuno parla con me,” annunciò, ben conscia del controllo cui era sottoposta.

Giacomo, spiazzandola, scoppiò a ridere.

“Credo sia già molto arrabbiato con me in ogni caso,” osservò ironico, con fare innocente. “E comunque io rispondo a un’altra autorità,” aggiunse fermo.

Lei lo guardò senza celare lo stupore.

“Quale?”

Il prete si strinse nelle spalle.

“Quella della fratellanza, immagino,” rispose vago. “Quella di Dio, qualunque cosa tu voglia vederci.”

Parlava lentamente, per farsi capire bene, e Maruska se ne accorse.

“Ma Antonio è ricco e…”

“La sai la storia della cruna dell’ago?” la interruppe Giacomo con fare quasi ameno.

“Cruna?” ripeté Maruska senza capire.

“E’ più facile per un cammello…” iniziò lui, muovendo appena la mano estratta dalla tasca.

“…passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno dei Cieli,” concluse Maruska, illuminata da una subitanea comprensione.

“Allora lo sai, il catechismo,” osservò Giacomo con un sorriso. “Se cambiassi idea per quella messa…” ipotizzò cordiale, e lei annuì scioccamente. “Ciao, Maruska,” terminò, allontanandosi.

“Buona giornata, padre Jack,” rispose lei istintivamente.

Lo vide sorridere un’ultima volta e poi avviarsi spedito verso la piazza. Quando lui passò accanto al gruppetto di ragazzini li vide iniziare a parlare vivacemente, ridendo maliziosi e attorniandolo rumorosamente, finché il sacerdote non tirò un sonoro scappellotto sulla nuca a Pietro, che sghignazzò di gusto, e li disperse con una risata e qualche ammonizione, il dito sollevato verso l’alto con rimprovero.

Maruska non ci andò, alla messa. Né quella settimana, né mai.

Però le parole del parroco l’avevano toccata e la dolcezza spontanea del suo sorriso aveva riscaldato qualcosa dentro di lei, abituata com’era a non nutrire più la minima fiducia nel prossimo.

Iniziò ad informarsi su di lui, complice l’attitudine al pettegolezzo di Claudia. Venne a sapere della sua opposizione ai progetti di Antonio e si spiegò così la sua affermazione relativa alla rabbia dello speculatore nei suoi confronti. Scoprì che aveva trentadue anni, un fratello e due lauree, una in teologia e una in scienze politiche, che raccoglieva le firme e aveva allontanato Giuseppe Imparsi in malo modo.

Si tenne aggiornata, per quanto poteva, sulla prosecuzione della sua attività. Giacomo coinvolse un giornalista, fece scrivere un servizio sul piano di costruzione della centrale, raccolse mille firme, avviò una pratica in comune pur scontrandosi con l’avversione del sindaco. Senza rassegnarsi, si diresse direttamente agli uffici del capoluogo. Andrea lo venne a prendere in macchina e padre Jack si curò di fare in modo che fosse ben chiaro a tutti quel che andava a fare.

A quel punto, Antonio decise che era tempo di fare qualcosa.

Giacomo era rientrato da due ore quando Giuseppe si presentò nella sala riunioni della parrocchia in tenuta formale.

“Padre Jack, buonasera,” salutò con l’usuale rispetto.

“Buonasera,” fu l’altrettanto usuale, freddo saluto. “Posso aiutarla?”

“Il signor Adeschi le vorrebbe parlare, se ha un momento. Faccia a faccia, come tra uomini, senza agire alle spalle,” aggiunse, riferendosi evidentemente alle sue mosse per ostacolarli.

Giacomo lo fulminò con un’occhiata sdegnosa.

“Non sono certo io a fare sotterfugi. Lo sapevano tutti dove sarei andato oggi, anche i bambini. Comunque accetto volentieri, mi dia solo un momento,” affermò con dignità, lasciando la stanza.

Si premurò di vestirsi per una volta come gli si confaceva, indossando l’abito talare per intero e infilandosi persino la cotta bianca, nonostante gli paresse oltremodo ridicolo, ma con lo scopo preciso di sbandierare chiaramente la sua ubicazione sociale.

Giuseppe lo scortò senza una parola fino al ristorante, stranamente quasi deserto. In un tavolo d’angolo stava Antonio Adeschi, placido ed elegante. Giacomo gli rivolse un rapido cenno di saluto, piantandosi a gambe larghe accanto al desco.

“Buonasera, don Giacomo. Si sieda,” lo invitò l’affarista benevolmente.

“Senz’altro,” fu la ferma risposta del prelato, che prese posto senza perdere tempo mentre Giuseppe faceva altrettanto.

I due uomini si squadrarono guardinghi per qualche secondo, nonostante si fossero già incontrati pubblicamente più volte perché Antonio andava quasi sempre a messa. Adeschi era un uomo facoltoso e non temeva di mostrarlo. I capelli brizzolati erano sempre composti in un taglio perfetto, gli abiti cuciti su misura, scarpe impeccabili, accessori costosi. Sembrava emanare la sicurezza del suo potere con la sola prossemica e la sicurezza dei gesti e delle espressioni.

“Padre Jack,” iniziò, con vaghissima ironia nel pronunciare il suo soprannome, “la sua visita in città è stata proficua?”

Giacomo si umettò le labbra e prese fiato.

“Estremamente. Lei non costruirà quella centrale. Il piano regionale ne contempla già una a una distanza troppo ridotta per giustificarne una seconda. Inoltre la sua villa è costruita abusivamente su un territorio di proprietà dello stato e lei pagherà per questo,” aggiunse, combattivo e trionfale.

Antonio assottigliò gli occhi, irritato.

“La mia villa?” sibilò sorpreso. “Cosa cazzo c’entra casa mia con la centrale? Tu vieni qui a impicciarti di casa mia, delle mie cose?” aggiunse minaccioso. “Ma chi credi di essere, Dio? Il problema della centrale mi poteva stare anche bene, ma tu ora stai mettendo il naso nelle mie cose personali e questo…non mi piace,” affermò iroso, sbattendo lievemente la mano sul tavolo. “Forse non ti darebbe fastidio se lo facessi io?” aggiunse gelido.

“Io non ho niente da nascondere nelle mie cose,” fu la placida risposta del curato, per niente impressionato dal passaggio alla seconda persona.

Antonio annuì fosco, con tranquillità.

“Tuo fratello viene spesso in paese, non è vero?”

Giacomo s’irrigidì all’istante sulla sedia, serrando la mascella. Il cuore gli accelerò il ritmo mentre inspirava rumorosamente.

“Cosa c’entra mio fratello?” chiese a bassa voce.

“Sì, viene spesso. Tutte le domeniche, arriva per la messa delle dieci, non è vero? Si chiama Andrea, giusto? Andrea Oderni,” continuò Antonio senza nemmeno dargli retta.

“Mi sta minacciando?” sibilò Giacomo con un fremito.

“Io?” domandò Antonio con affettato stupore. “Io ti minaccio? Sei tu che parli delle mie cose, di casa mia. E allora io parlo di tuo fratello. Non posso?”

Giacomo sbuffò con scherno, stringendo i pugni e sporgendo appena il busto in avanti.

“Non si azzardi,” intimò furente, “a tirare in mezzo mio fratello. Sono stato chiaro?”

“Io non voglio tirare in mezzo nessuno, ti ho solo fatto una domanda e tu non rispondi neanche, perché sei un villano e maleducato. Ti dico una sola cosa, e cerca di capirla bene: Giacomino,” scandì, avendo udito più volte Andrea utilizzare quel nomignolo, e a Giacomo la cosa non sfuggì, “tu devi stare al tuo posto, hai capito? Sei un prete, non un poliziotto.”

“La polizia qui non esiste,” ringhiò amaramente il prelato.

“Non sono cazzi tuoi. Impara a stare al tuo posto, se no non andiamo d’accordo,” ribadì Adeschi con indifferenza.

Giacomo si alzò di scatto, furibondo.

“Non finisce qui,” esclamò, facendo un passo indietro. “E’ una promessa,” aggiunse, voltando le spalle e iniziando ad allontanarsi.

“Salutami tuo fratello, Jack,” rispose Adeschi con sprezzo.

Giacomo marciò fino ai suoi alloggi quasi correndo e si attaccò al telefono prima ancora di levarsi la cotta. Attese con impazienza che si avviasse la chiamata e non aspettò nemmeno di udire la voce dall’altro capo.

“Andrea?”

“Oh, don Camillo, buonasera,” fu l’allegra risposta. “Come sta Peppone?”

Andre, va tutto bene?”

Ci fu uno sbuffo dall’altro lato.

“Così così,” rispose il fratello stancamente. “Ha chiamato Matteo poco fa e mi ha detto che al giornale fanno storie per pubblicare il servizio. Gli ho detto che ci pensavo io, che li contatto domani dallo studio,” raccontò sbrigativo.

“No, Andre, non è cosa,” lo contraddisse lui.

“Che?” sbottò il minore allibito. “Ma sei scemo, Jack? Il dottor Marzi ha un sacco di contatti, è più immanicato di chiunque mai,” protestò ragionevole.

“Senti, Adeschi mi ha appena voluto parlare, a proposito della nostra gita in città di oggi,” annunciò lui, la voce distorta dal nervosismo. “Ha fatto il tuo nome, chiedeva di te.”

Andrea tacque per qualche istante, sorpreso.

“Di me?” ripeté, e la parola s’impennò stridula. “…E che chieda di me. Giacomo, non ti far intimidire per delle cazzate. Voleva solo spaventarti, e direi che c’è riuscito,” commentò, con tono rassicurante.

“Forse. Ma forse no. E’ meglio se ne resti fuori,” replicò il fratello deciso.

“Certo, io ne devo rimanere fuori. Vaffanculo, Giacomo, mi sono rotto i coglioni,” sbottò Andrea irritato. 

“Di che?”

“Di questo. Tu ti metti contro i pezzi grossi del posto in cui vivi, tu giochi a don Chisciotte, tu ti ficchi nella merda e ti fai minacciare da un criminale, però sono io che devo stare attento,” continuò Andrea d’impeto. “Sarai anche un prete, posto che significhi qualcosa, ma sei prima di tutto mio fratello, porco…schifo, e allora non mi venire a dire di stare attento. Stai attento tu, cazzo, non fare il martire. Di Gesù ne abbiamo avuto già uno, grazie tante.”

Giacomo accolse in silenzio l’arringa dell’avvocato Oderni, con un sorriso mesto e affezionato.

“Va bene, Andre,” acconsentì mite. “Però…”

“Però niente! Io domani parlo con il giornale e non mi rompere le scatole perché guarda che ti spacco il tabernacolo sulla testa,” lo interruppe Andrea, ancora agitato ma già più ilare.

Giacomo ridacchiò nervosamente, cedendo.

Le visite di Andrea in paese, comunque, si diradarono e smisero di essere regolari. Si presentava alla diocesi del fratello in giorni sempre diversi e ad orari scombinati, per evitare di essere prevedibile e di cadere vittima di eventuali appostamenti: fu la condizione basica che il maggiore gli pose per continuare a collaborare e Andrea, che a ventotto anni non aveva poi una gran voglia di tirare le cuoia, si sottomise di buon grado.

La pubblicazione del servizio relativo all’operato di Antonio Adeschi su un quotidiano nazionale scatenò un polverone mai visto. Matteo Vinchi, l’autore, ricevette improvvise e ferme minacce e fu temporaneamente munito di una scorta della cui presenza sembrava non farsi motivo d’interesse. Giacomo dovette letteralmente convincerlo a non andare a trovarlo in paese per festeggiare la vittoria, perché sarebbe stata una mossa troppo pericolosa per entrambi.

La campagna di screditamento verso il quotidiano e il giornalista scattò immediata, gli altri media e i colleghi stessi insabbiarono la questione nel minor tempo possibile, la risonanza delle notizie pubblicate fu ridotta al minimo e le stesse accolte dalla massima incuranza che potesse essere loro tributata, ma era comunque un primo passo.

Maruska seguì la vicenda con trepidazione. Qualche volta intravide, non vista, padre Jack in paese, tranquillo e sorridente, accolto da sguardi sempre più benigni dei compaesani, da confidenza, rispetto.

Lei se la stava vedendo brutta. La rabbia di Antonio, tangibile e diretta all’intoccabile curato, si riversava con frustrazione su tutto quel che invece poteva raggiungere, e Maruska faceva parte della lista. Trovandosi nell’impossibilità momentanea di guadagnare dalla costruzione della centrale, spremeva tutti gli altri suoi averi, sottoponeva al massimo sforzo ogni settore in cui fosse inserito, compresa la prostituzione. Quando ventilò l’ipotesi di spostare la ragazza nella zona portuale cittadina, Mariù capì che da lì non sarebbe uscita più.

Spaesata, sopraffatta dal panico, decise di rivolgersi finalmente all’unica persona che paresse poter essere disposta e capace di aiutarla.

Era mattina prestissimo quando, per la prima volta dal suo arrivo in paese, varcò la soglia della chiesa, silenziosa e insicura. Padre Jack stava pregando, in ginocchio sui gradini, talmente assorto che non si avvide della visita.

“Padre,” chiamò, avanzando lungo la navata.

Giacomo, inginocchiato di fronte all’altare con le mani giunte e gli occhi chiusi, si voltò con un sussulto, sorpreso dalla voce femminile che lo aveva distolto repentinamente dalla sua silenziosa preghiera. Spostò indietro lo sguardo fino ad incontrare il profilo esile della ragazza, immobile qualche metro alle sue spalle.

Maruska, sfinita, non si muoveva. Aveva la testa bassa e le mani raccolte in grembo, in una posa palesemente intimidita e incerta. Si era messa il vestito buono, l’unico che aveva, chiaro, accollato e dal taglio castigato, con le maniche lunghe. Sembrava una bambina infagottata in un abito della nonna e gli fece tenerezza.

“Maruska,” la chiamò gentile, sollevandosi per avvicinarsi di un passo. “Che sorpresa. Credevo che non saresti più venuta a trovarmi, ormai.”

Non aveva intenzione di rimproverarla, ma lei chinò ulteriormente lo sguardo e voltò il viso, imbarazzata. Giacomo vide il disperato sollevarsi della sua gola nel tentativo di deglutire e si dispiacque del proprio esordio.

“Hai fatto bene a venire,” aggiunse, benevolo, avvicinandosi ulteriormente alla ragazza. Batté le mani sui pantaloni frusti, come cercando di pulirli della polvere racconta sul gradino.

“L’ho disturbata, padre?” chiese lei in un mormorio, indicando il punto in cui Giacomo si trovava fino a un attimo prima. “Ho visto che stava pregando,” precisò, con rammarico.

Si guardò di nuovo intorno nervosamente e d’un tratto si sentì molto sciocca e fuori luogo, in quel posto da gente per bene. Il suo vestito, le sue scarpe consunte, tutto indicava che non aveva nulla da fare lì.

Giacomo trattenne un sorriso, raddolcito dal marcato accento straniero che, col nervosismo, si faceva più forte nelle parole della donna.

“Non fa nulla, davvero,” rispose con noncuranza, ammiccando verso il Crocefisso. “Scambiavo due parole col nostro Fratello e chiedevo consiglio, ma sono certo che preferisce che ascolti te,” aggiunse, un barlume di divertimento a illuminargli gli occhi nonostante l’espressione seria.

Maruska si sforzò di sorridere e rimase ferma, impacciata, senza ancora osare guardarlo in viso.

“Come posso aiutarti, Mariù?” la interrogò il prete con cautela.

A quella domanda lei sollevò la testa di scatto, quasi allarmata all’idea – palesemente assurda – che lui avesse capito il motivo della sua visita. Osò finalmente incontrare il suo sguardo e lo scoprì cordiale, quasi curioso. Gli occhi chiari di Giacomo non parevano tinti né di malevolenza né di aperto sprezzo, ma anzi sembravano invitare alla confidenza.

Aveva lineamenti delicati, ché non conoscendolo né di persona né di fama non lasciavano intuire la forza del suo carattere, e sembrava ancor più giovane di quanto non fosse. Le ricordava i dipinti della corte degli angeli intorno alla Maestà della chiesa di Bucarest che aveva visto da bambina.

Senza parlare, si voltò verso il confessionale, quasi indicandolo.

“Oh, certo,” commentò Giacomo con una smorfia di scherno verso se stesso. “Non sarai venuta per vedere un film, immagino,” celiò, cercando di rilassarla. “Lasciami il tempo di indossare i paramenti, allora, e intanto accomodati.”

“I…” ripeté Maruska confusa.

“L’abito talare,” chiarì lui, indicandosi il corpo e poi strattonando la cerniera del maglione.

Vide lo sguardo di Maruska illuminarsi di comprensione e il suo collo sottile piegarsi in assenso e fece per allontanarsi, ma lei lo trattenne afferrando il suo polso di getto.

Giacomo si voltò, gli occhi spalancati dalla sorpresa, e la ragazza lasciò la presa come se si fosse ustionata.

“Non serve,” mormorò confusa. “Non è per…confessarmi,” precisò in un sussurro, lo sguardo di nuovo affondato a terra.

Lui corrugò la fronte, impensierito.

“Allora perché sei qui?” domandò, la voce bassa e grave.

“La prego, padre…” bisbigliò Maruska guardandosi disperatamente intorno, quasi avesse avuto il terrore di essere vista o spiata. E in effetti l’aveva.

Giacomo non ebbe bisogno di sapere altro. Il volto indurito da un’espressione risoluta le fece cenno col capo verso il confessionale e la precedette con passo sicuro

“Entra, Maruska,” la invitò a voce alta mentre si sedeva, perché lei esitava sulla soglia del comparto. Quando la vide osare e farsi avanti tirò la tenda con un unico, fluido movimento e, avvicinando gli occhi alla fessure delle grate la guardò. Persino così, vedendola solo parzialmente, la finezza e la grazia della sua persona sembravano rilucere e gli facevano crescere nello stomaco la rabbia sorda che tanto bene conosceva; per l’ennesima volta maledisse mentalmente Antonio Adeschi per poi immediatamente chiedere perdono al Signore per l’empietà del suo pensiero.

Maruska non si muoveva e non parlava. Rimaneva granitica, rigida e spaventata.

“Mariù, qualunque cosa tu mi dirai resterà tra me e te. Ti puoi fidare. Ho stretto un voto sacerdotale e anche se non l’avessi fatto non parlerei lo stesso. Coraggio,” la invitò pazientemente.

Lei trattenne a fatica un sospiro di sollievo e di paura. Aveva voglia di piangere, perché era tanto tempo che nessuno le parlava con quella dolcezza e si era dimenticata di quanto fosse bello sentirsi rivolgere parole gentili.

“Padre, mi aiuti…” mormorò con voce rotta, e dovette interrompersi per reprimere un singhiozzo.

“Certo che ti aiuto, Mariù. Dimmi cosa ti occorre e lo farò,” la rassicurò benevolmente. “E dammi del tu.”

E Maruska quasi rise, perché tutti in paese commentavano le stravaganze del parroco e ridacchiavano perché Padre Jack insisteva sempre per farsi chiamare per nome e i ragazzini del catechismo lo chiamavano soltanto così, Jack, quando giocava con loro a pallone. Alle beghine dava noia, ma i ragazzini facevano lunghe partite con “Jack” anziché bighellonare al bar della stazione tra gli sgherri di Adeschi e a lei sembrava cosa buona.

Con le mani tremanti prese un lungo respiro, cercando di riacquistare la calma, ma le parole le sgorgarono fuori come un fiume, aspre e quasi storpiate.

“Aiutami, ti prego, perché non ho nessun altro a cui chiedere, sono da sola e non c’è nessuno, nessuno a cui importa di me. La mia famiglia è lontana e amici non ne ho, sono tanto stanca, non ce la faccio più, me ne voglio andare, ma se prendo il treno quelli mi trovano in due ore e mi ammazzano di botte e poi mi rimettono a battere se non mi fanno fuori. Aiutami, Jack, fammi andare via. Lo so che sono una puttana e sono dannata, però per pietà, portami via. Non voglio, non voglio più vivere così.”

E non poté trattenersi più, scoppiò in lacrime come una bambina, come la ragazzina di sedici anni che era stata e che aveva dovuto piegarsi a uomini come bestie e diventare un animale lei stessa, una cosa da comprare e usare a piacimento. Singhiozzava forte perché aveva paura, perché se Padre Jack l’avesse mandata via non le sarebbe rimasta più una sola speranza al mondo.

Ma Giacomo pensava a ben altro che a cacciarla. Con inusuale indelicatezza non si prodigò nel consolarla e calmare il suo pianto, poiché già stava riflettendo febbrilmente su come agire, su quali mosse compiere. Perché per salvare quella ragazza doveva farla sparire, cancellare ogni traccia del suo passaggio e dei suoi movimenti come se non fosse mai esistita.

Giacomo Oderni era l’unico uomo in tutto il paese che non avesse paura di Antonio Adeschi. E non era vero nemmeno questo, che non avesse paura, perché non era immortale e sapeva di cosa quell’individuo fosse capace. Ma era l’unico per cui la paura non fosse ragione sufficiente per l’omertà. Aveva una missione, aveva prestato un giuramento e inoltre pensava che fosse un dovere per qualunque uomo opporsi alla tirannide, e tanto più per lui.

E non era certo l’unico al mondo. Lì nessuno, nemmeno il sindaco o gli assessori, avrebbe mai mosso un dito, ma grazie all’attività di opposizione svolta in quei due anni Giacomo aveva allacciato rapporti con l’esterno che gli potevano permettere di riuscire in quell’impresa. Aveva i contatti necessari ad un’azione ramificata ed efficace e ritenne fosse venuto il momento di metterli a frutto.

Impiegò almeno un minuto a riscuotersi e quando l’ebbe fatto si affannò nel consolare la ragazza, aggrappando la mano alla grata di separazione.

“Maruska,” la chiamò con dolcezza. “Marì, non piangere più,” intimò morbido. Ma lei, invece di seguire il consiglio, prese a singhiozzare ancora di più.

I suoi singulti erano continui e violenti, si sentiva il freddo del terrore scivolare fuori insieme alle lacrime. Giacomo pensò di doverla rassicurare e picchiettò sulla divisione che li separava con le nocche delle dita.

Marì, ma che hai, paura che ti molli? Certo che t’aiuto, smettila, dai,” esclamò, quasi con impazienza.

E a quelle parole il pianto di lei divenne quasi isterico, scrosciante. Un gemito ininterrotto e sconnesso le sgorgava dalle labbra, appoggiò la testa alla grata e ci si aggrappò, perché potendo si sarebbe agganciata alle spalle del sacerdote e le avrebbe strette, per essere sicura che fossero vere e per non sentirsi più così sola com’era stata fino a quel momento.

“Maruska, cos’ho detto adesso?” gemette Giacomo, con un accenno di risata di commozione. Aveva il battito cardiaco rapido, gli pareva di sentirlo fin nelle tempie. Con la decisione di agire apertamente dietro di lui s’era acceso anche il senso di rivalsa, quasi una soddisfazione truce e gioiosa di poter finalmente fare.

Lei rise tra le lacrime, passandosi la mano sul viso.

“Non lo so,” mugugnò con voce spezzata. “Non lo so, ma ho paura che sto sognando. M’aiuti, davvero?” pigolò, ridendo e piangendo insieme.

Giascomo sbuffò.

“Ascolta, Marì,” mormorò serio. “Adesso ti alzi e te ne vai, d’accordo? Non dire a nessuno che sei venuta qui. Torna, diciamo, sabato sera. Puoi tornare sabato sera?” chiese, fermo.

“No,” rispose lei quasi ironica, prima di soffiarsi il naso. “No, la sera no,” aggiunse, e non ebbe bisogno di spiegare perché.

“Va bene,” commentò Giacomo senza scomporsi. “A che ora…stacchi?” domandò, e frenò a fatica un risolino, perché se l’avesse sentito suo fratello Andrea fare una domanda del genere a una prostituta, lui, un prete, avrebbe riso fino a strangolarsi.

“Non lo so. Dipende. Posso venire la mattina, presto,” rispose Maruska incerta.

“Va benissimo, Marì. Domenica mattina presto vieni qui a confessarti, direttamente. Io sarò già seduto. D’accordo?” domandò, parlando lentamente.

“Sì. Sì, ma ti trovo? Non è che cambi idea?” insistette lei ansiosamente.

“Nemmeno con la pistola puntata, Marì. Gesù ha forse lasciato la sua pecora?” rispose lui, e la sua voce era definitiva.

“Grazie,” mormorò la ragazza, alzandosi.

“Non mi ringraziare, io sono solo un mezzo. Vai, adesso.”

Maruska non se lo fece ripetere. S’asciugò un’ultima volta gli occhi e scappò via, allontanandosi con un passo infinitamente più fermo e sicuro di quand’era arrivata.

Giacomo non attese né perse tempo. In un posto piccolo e in un clima ristretto come quello che regnava nella sua parrocchia, il sinonimo più efficace di discrezione era rapidità. Ogni ora trascorsa, ogni giorno, rappresentavano la possibilità che qualcuno, in qualche modo, venisse a sapere.

Si mise immediatamente in contatto con i suo collaboratori fuori dalla regione, rivolgendosi per primo a Roberto Merles, e poi al Gruppo Arcas. Quattro ore dopo, a Roma, Massimo Riversi, leader di due leghe anticriminali e membro fondatore della più importante associazione nazionale di aiuto alle vittime di prostituzione, stava già organizzando lo spostamento e la sparizione di Maruska Bielovcenko, alias Mariù.

Lei trascorse i quattro giorni successivi in uno stato di ansia violenta e quasi trasognata, contando le ore, i minuti che la separavano dal successivo incontro con padre Jack. Non temeva più che il parroco avrebbe mancato alla parola perché sentiva, sapeva di potersi fidare, o forse voleva farlo. Nella mente conservava la limpidezza del suo sorriso e la fermezza delle sue parole. In quasi sei anni in quella terra straniera nessuno aveva mai fatto nulla per lei, ma adesso quel ragazzo italiano l’avrebbe aiutata e Maruska aveva bisogno di credere in lui. di credere in qualcuno. Aveva appena ventidue anni.

Non fu delusa. Quando arrivò in chiesa e si chiuse nel confessionale, in totale silenzio, esitò prima di parlare.

“Padre Jack, ci sei?” mormorò.

Sentì un sussulto e il tramestio di un movimento brusco, perché Giacomo s’era addormentato seduto al di là della tenda viola.

“Maruska?” borbottò intontito.

Sì, era Maruska, trepidante e inquieta. Senza por tempo in mezzo, padre Jack le espose i fatti. Doveva farsi trovare libera da altri clienti alle tre e mezza della notte successiva. Un uomo con la barba e gli occhiali dalla montatura d’osso le avrebbe offerto una grossa somma per il resto dell’intera nottata. Lei doveva soltanto salire sulla sua macchina e sarebbe sparita per sempre dal paese.

“Davvero?” mormorò, incredula di gioia.

“Davvero, Marì,” confermò Giacomo quietamente.

Lei aprì la bocca ma ne uscì solo un sospiro, perché non poteva parlare. Deglutì a vuoto più volte, prima di riuscire a emettere suono.

“Ti posso abbracciare?” balbettò incoerentemente.

Giacomo ridacchiò.

“Il Vangelo non lo vieta,” commentò scherzoso.

Maruska emerse dal confessionale e si guardò attentamente intorno, verificando che non ci fosse nessuno. Giacomo spuntò dopo pochi secondi dal lato opposto e se la vide planare addosso tanto impetuosamente che traballò.

“Grazie! Grazie!” farfugliò Maruska singhiozzante, stringendogli le piccole braccia intorno, prima di iniziare a mormorare una litania di parole in rumeno contro il suo collo, mentre lui la stringeva affettuosamente. Bisbigliò che era l’uomo migliore del mondo, che i suoi occhi erano come il ruscello del fiume che scorreva vicino a casa sua, fuori da Bistrita, che non avrebbe mai incontrato un altro come lui in nessun posto sulla terra, ovunque l’avessero portata l’indomani, che non se lo sarebbe mai dimenticato e che lo avrebbe amato sempre perché era un angelo, non fosse stato un prete gli avrebbe fatto l’ultimo servizio e forse gli avrebbe chiesto di andar via con lei.

Poi sollevò la testa e lo guardò negli occhi.

“Non ho capito una parola,” borbottò Giacomo, con un mezzo sorriso di scuse.

“Non dovevi capire,” osservò Maruska sottovoce.

Lui distolse lo sguardo, perché non era stupido e a quel punto qualcosa lo intuì.

“Spero che andrà tutto bene, Maruska, che sarai felice e che Dio ti accompagnerà,” affermò, allontanandola dolcemente da sé.

“Non avrò bisogno di Dio se ci saranno dei Jack,” ribatté ingenuamente lei, con una smorfia infantile del viso tirato e troppo maturo, strappandogli un accenno di risata.

“Non essere sciocca. Buona fortuna, Marì,” la congedò, con un buffetto sulla guancia.

“Anche a te, padre.”

Quattro parole sussurrate e il tocco leggerissimo e infinitesimale delle sue labbra depositate su quelle di lui. Giacomo rimase immobile a bocca spalancata; non riceveva un bacio da quando aveva diciannove anni e scoppiò a ridere, esterrefatto. Maruska se lo sarebbe ricordato sempre così, in maglione e ciabatte, ridente e compiaciuto, vittorioso. Almeno lei.

Scappò via dalla chiesa quasi correndo, sorrideva persino. Anna Rolfi si stava recando a espletare la prima preghiera mattutina quando la vide schizzar fuori dal portale con leggerezza. Scrollò la testa con espressione angusta, perché il tempio del Signore non era luogo per una poco di buono, ma notando il suo incedere soave sperò che almeno si fosse andata a confessare.

Padre Jack trascorse la giornata successiva teso, ansioso. Le sue due prediche furono molto meno efficaci del solito, tanto che ci fu chi si chiese se non fosse magari un po’ ammalato, se non avesse un raffreddore o un po’ di febbre.

Non era così. Si calmò d’improvviso alla cinque del mattino seguente, quando una telefonata tanto attesa lo informò che Maruska Bielovcenko avrebbe lasciato di lì a pochi minuti il territorio nazionale. Solo allora poté finalmente dormire. Si sdraiò e crollo addormentato con la serenità tipica dei bambini. Sorrideva nel sonno.

L’indomani notò un certo trambusto tra gli sgherri di Adeschi e ne concluse che la scomparsa della ragazza doveva essere già di dominio pubblico. Non diede mostra di registrare nulla di insolito, si dedicò come sempre agli affari della diocesi, sbrigò la corrispondenza. Parlò con Matteo Vinchi al cellulare nel primo pomeriggio e gli spedì via mail la mappa della proprietà Adeschi che si era fatto dare quasi di violenza al catasto in mattinata. Mesi dopo Vinchi avrebbe riportato la loro conversazione per iscritto quasi alla lettera, insieme a tutte le altre e ai loro due soli incontri.

All’imbrunire Pietro e due altri ragazzini si presentarono da lui per una sfida a calcetto, col pallone sottobraccio. Giacomo giocò per un’oretta, ma era stanco, recentemente aveva dormito poco e li congedò poco dopo il tramonto.

Quella sera, assonnato e sfinito d’una spossatezza che sapeva di vittoria e soddisfazione, si coricò più presto del solito, limitandosi a una breve telefonata col fratello. Andrea raccontò quel dialogo giorni dopo, la voce rotta dal pianto e i pugni stretti in una collera impotente che non avrebbe mai trovato pace.

“Ciao, Andre.”

“Oh, Jack, buonasera,” fu la calorosa risposta del minore. “Novità?”

“In questi giorni ho fatto una cosa buona,” annunciò lui, vago. Non aveva detto al fratello nulla di Maruska, ripromettendosi di informarlo a cose fatte.

Laudato sì, mi signore,” rise Andrea. “Una cosa buona e cauta o una cosa buona e rognosa?”

“Non lo so, ancora. Forse rognosa. Ma sono contento, Andre, forse non sono mai stato così contento in tutta la mia vita.”

“Occhio a non peccare di superbia, don Giacomo,” lo schernì il fratello con allegrezza.

“Non far dire parolacce a un sacerdote,” lo ammonì Jack ridendo.

“Che poi scende giù il fulmine divino e ti abbrustolisce,” insistette l’altro senza demordere.

“Quello è Zeus, testone di un pagano,” controbatté Giacomo ridacchiando.

“Pardon, padre. Chi era quello uno e trino, Maometto?”

“Andrea!” sbottò Giacomo con una risata schietta. “Non fare l’eresiarca, che mi tocca denunciarti al Santo Padre e che figura ci faccio con un fratello blasfemo?”

“Chiedo scusa, padre. Dirò tre Padrenostro e sei Avemaria per penitenza. Sei sicuro di non avere guai?” tagliò corto Andrea, riacquistando serietà.

“No, Andre, ma non ti preoccupare. So di avere il giusto dalla mia parte,” rispose lui con fermezza.

“In missione per conto di Dio, come i Blues Brothers,” confermò l’altro, placido e rassegnato.

“Andrea, guarda che ti scomunico,” lo minacciò Giacomo severamente.

“Gesù, no, che la mamma mi sgozza,” gemette scherzosamente il più giovane.

“E non bestemmiare al telefono con un sacerdote!” eruppe Giacomo esasperato, ma la voce era allegra.

“Mica bestemmio, era solo una citazione,” replicò Andrea svagato. “La pecorella smarrita che sono è irrecuperabile, Giacomino, tanto vale che ti rassegni.”

Ci fu un attimo di silenzio, poi Giacomo sbuffò.

“Ma sì. Ne ho già salvata una, nelle ultime ventiquattr’ore, di pecorella.”

“Bravo il mio pastore preferito. Se hai qualche noia chiamami, che telefono allo studio e ti trovo un avvocatone,” invitò Andrea.

“Non essere pessimista, le vie del Signore sono infinite,” declinò Giacomo con tono fervido.

“Per favore, non attaccare con la predica che mi esce l’ernia e poi mi tocca farmi ricoverare. Piuttosto, vieni a pranzo da mamma domani, così mi racconti in privata sede?” propose Andrea, curioso.

“Va bene. Mi vieni a prendere verso le undici?” acconsentì Giacomo gioviale.

“Ma dove sta scritto nella Bibbia che un prete non deve avere la macchina?” protestò il minore scherzoso.

“Da nessuna parte, a mia conoscenza. Tuttavia la legge dello Stato vieta persino ai prelati di condurre autoveicoli, qualora sprovvisti di patente adeguata,” fu l’allegra risposta.

“Va bene, va bene, hai sempre la ragione dalla tua. Scemo io che discuto con un messo del Signore,” cedette Andrea. “A domani, Jack.”

“A domani, figliolo,” celiò il maggiore.

Andrea e Giacomo non si videro, l’indomani. Quando il giovane avvocato arrivò sulla piazza della chiesa e vide le auto della polizia, le sirene e i lampeggianti, sentì il gelo penetrargli fin nelle ossa e strizzò forte gli occhi, come se così avesse potuto non vedere quanto avrebbe seguito. Scese dal posto di guida già con le lacrime sulle guance e le spalle tremanti e lo dovettero tenere in tre, con ogni forza, per impedirgli di entrare in sacrestia, mentre scalciava, si dibatteva e singhiozzava, protestando che aveva il diritto di vedere suo fratello e urlando sempre le stesse due parole che avrebbe ripetuto per tutta la vita, bastardi e assassini.

A casa dei genitori, come ogni martedì, sua madre aveva preparato il ragù. Che nessuno avrebbe mai mangiato.

In quel lunedì fatidico che Giacomo aveva trascorso semplicemente in parrocchia, fingendo di ignorare il trambusto degli adescani, non erano trascorse sei ore dalla fuga di Maruska prima che Giuseppe si rendesse conto della sparizione. Altre tre prima che realizzasse che non si trattava di una scampagnata della ragazza, che le sue cose erano tutte lì ma i pochi documenti non c’erano più, in stazione non era stata vista e nessun taxi l’aveva condotta fuori dalla zona comunale.

Mariù era svanita nel nulla.

Antonio era furioso. Sapeva perfettamente che da sola la rumena non avrebbe potuto arrivare lontana e gli risultava trasparente come acqua di fonte che doveva aver ricevuto un aiuto esterno. Non ebbe la minima esitazione a individuare l’eventuale soccorritore nella persona dell’unico individuo in tutto il paese che avesse mai osato dire una parola contro di lui.

“Quel figlio di puttana se la fa con le puttane, ovviamente,” commentò con tono sepolcrale al termine del consulto con i suoi, spegnendo ferocemente la sigaretta nel posacenere. “Giuse’, vedete un po’ se qualcuno ha visto Mariù intorno alla chiesa, ultimamente.”

E quel qualcuno saltò fuori dopo centosette minuti da quell’ordine perentorio. Anna Rolfi stava uscendo dalla chiesa dopo la sua consueta preghiera serale quando Giuseppe l’avvicinò senza troppe cerimonie e la interrogò sulla possibile presenza della rumena in parrocchia negli ultimi giorni.

Anna tentennò per pochi minuti, perché Padre Jack le piaceva ed era un bravo ragazzo, con la testa sulle spalle e il fegato in mano, e diceva delle belle messe appassionate. Ma siccome si trattava di una puttana e il parroco sembrava coinvolto in qualcosa di losco – e c’era di mezzo Antonio Adeschi, furibondo – finì per ammettere che sì, aveva visto Maruska uscire guardinga dalla diocesi meno di due giorni prima. 

Per Antonio quella fu la conferma necessaria a giustificare lo scatenarsi della sua collera.

“Quello stronzo mi ha rotto i coglioni,” annunciò lapidario ai suo uomini, lisciando i bottoni della camicia. “Mette in testa strane idee alla gente e ci infila il bastone tra le ruote. Non ci rispetta, quel miserabile.”

Giuseppe attese in silenzio, seduto di fronte a lui. Al suo fianco, Carlo Graldi, stretto collaboratore dell’affarista nel capoluogo, e Francesco, responsabile del settore narcotici, aspettavano con la medesima trepidazione.

“Tu, e tu,” continuò Adeschi con placida fermezza, indicando i due forestieri, e Francesco si sistemò istintivamente il cappuccio della larga felpa. “Andate a trovare il parroco, Padre Jack, domani mattina. Fate in modo che in questo paese di furbi capiscano tutti che con noi non si scherza. E chiudete la bocca a quella testa di minchia. Poi vedete di sparire di nuovo dal paese come siete arrivati, l’alibi ve lo trovo io.”

“Dobbiamo ammazzare un prete?” sfuggì detto a Francesco, con meravigliata contrarietà.

“Non un prete. Una testa di minchia,” fu la cupa risposta, condita da uno sguardo ammonitore.

Francesco fece per replicare di nuovo, ma Carlo lo zittì con un cenno brusco. Annuì in direzione del datore di lavoro e si alzò.

“Domani mattina,” confermò, a mo’ di saluto.

Soltanto Francesco esitò per qualche altro secondo, mentre l’altro prendeva congedo.

“Antonio,” azzardò, incerto, “ammazzare un parroco, cioè, quello è l’emissario di Dio, mica che ci piove addosso la divina condanna?”

Il leader sorrise, poggiando i gomiti sul tavolo con sicurezza.

“Francesco, tu sei giovane. Un parroco è un uomo come gli altri, non un’emanazione dello Spirito Santo. C’è il parroco intelligente e c’è il parroco scemo. Il nostro è un parroco molto scemo. Mica è colpa nostra,” aggiunse, stringendosi nelle spalle con fatalismo, mentre Giuseppe annuiva noncurante. “Vedrai che quando gli spari non spunta l’Arcangelo Gabriele a schermarlo dai proiettili,” concluse, e Giuseppe ridacchiò.

Il sicario parve convincersi, con riluttanza. Mormorò un ultimo saluto e si defilò a malincuore.

“Non hai parlato per tutto il tempo, Giuseppe, come mai?” domandò Antonio dopo qualche istante di silenzio.

Il suo collaboratore accavallò le gambe, pensoso.

“E’ una faccenda merdosa,” commentò distrattamente.

“Lo so,” confermò Antonio, apparentemente esasperato. “E’ anche giovane, quello stronzo. Ma gliel’avevo detto, proprio poco tempo fa, c’eri pure tu. Giacomino, tu devi imparare a stare al tuo posto. Se no non andiamo d’accordo. Gliel’avevo detto,” ribadì, scrollando il capo con accoramento.

“E non c’è voluto stare,” concluse Giuseppe allargando appena le braccia.

O forse l’idea che Jack aveva del proprio posto era un’altra.

 

 

 

 

 

Fine

 

 

 

 

 

 

NOTE CONCLUSIVE

 

Il personaggio di padre Jack, anche se non c’entra nulla e non vi ha nulla a che fare, e la dinamica del suo omicidio mi sono venuti in mente pensando a don Peppino Diana, sacerdote campano messo a morte nel 1994 dopo essersi apertamente opposto alla camorra (e come lui tanti altri, laici, buddisti o cosa vi pare). Tenevo a precisarlo, perché ci sono cose che non andrebbero dimenticate.

Ciononostante vorrei anche mettere in chiaro che l’ambientazione della vicenda non fa riferimento a settori e luoghi geografici precisi, non si parla di camorra o di mafia o quant’altro. Il racconto è ambientato genericamente in Italia, stando all’origine dei nomi, ma potrebbe essere qualunque posto sul pianeta, con personaggi di qualunque nazionalità. Ho cercato di non usare linguaggi di stampo dialettale, di mantenere più vaghe possibili le costruzioni gerarchiche e le dinamiche di azione per non dare un’impronta settoriale riconoscibile e rendere il tutto mediamente universale.

Come si dice, tutto il mondo è paese.

Per finire, io sono atea. Questa non vuol essere in nessun modo un’arringa in favore degli ecclesiastici o del sistema vaticano. Su un’unica cosa al mondo io e un Antonio possiamo trovarci d’accordo: “un parroco è un uomo come gli altri, non un’emanazione dello Spirito Santo”. Ognuno fa le sue scelte umanamente, e questa è una storia di uomini, non di categorie. Il protagonista del racconto è prima di tutto un uomo, un fratello per citare Andrea, un giovane con due lauree, una carriera davanti e delle scelte da fare, un posto da scegliere come suo.

Condividere o meno la scelta di quel posto sta a chi legge.

   
 
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