Per l’Original Fest di Fanfic Italia.
Prompt: Generale - [Prete, Prostituta] -
"Allora perché sei qui?" - Non si tratta di una confessione,
di una predica o di un'elemosina
In teoria l’avrei messo su lj, ma era troppo, troppo lungo e non ci stava in un solo
post nemmeno lì. Spero di non contravvenire a regole di sorta (ma
sicuramente lo sto facendo).
Che dire, spero di non annoiarvi, dispiacervi,
ecceterarvi.
Ciao a tutti
suni
Devi stare al tuo posto
“Padre
Jack?”
Giacomo sollevò appena la testa per spostare gli
occhi dal Vangelo. Non erano ancora le sette e mezza di mattina e in sacrestia
c’era soltanto lui, con addosso ancora i pantaloni della tuta e il
maglione di lana di sua nonna, che indossava solo perché evidentemente
la Divina Provvidenza così voleva, dal momento che il coriaceo indumento
resisteva a tutti i violenti lavaggi cui lui lo sottoponeva nella speranza che
si disfacesse.
Di fronte a lui c’erano due uomini. Sui trent’anni, poco più giovani di lui. Il primo
aveva gli occhiali da sole sul naso, era ben vestito, con pantaloni stirati con
la piega e una camiciola azzurra. Immediatamente alle sue spalle c’era il
secondo visitatore, avvolto in appariscenti jeans pezzati e una larga felpa da
rapper. Creavano un bizzarro contrasto.
“Sono io,” rispose cordialmente, nonostante
l’intrusione inattesa del duetto fosse stata poco educata, chiudendo il volume
e tenendo il segno col dito.
“Saluti da Antonio,” annunciò
l’uomo elegante con un sorriso compiaciuto.
Don Giacomo, o Jack o Giacomino come lo chiamava ancora
sua madre, e a volte suo fratello, nonostante avesse trentatre anni,
riuscì appena a sussultare di sorpresa e lanciare uno sguardo
consapevole e disperato verso la porta d’uscita, comunque irraggiungibile
a causa dei due uomini frapposti ad essa. Non fece nemmeno in tempo ad iniziare
ad alzarsi dalla sedia. Il rapper sollevò il braccio armato e gli
svuotò contro il caricatore, sette colpi in rapida sequenza. Rimbombarono
nell’ampia sala come violente esplosioni mentre il corpo del prete si
accasciava sulla sedia e da lì scivolava morbidamente a terra, senza un
gemito né un lamento.
Il sangue iniziava appena ad allargarsi a macchia
d’olio sul pavimento, quando i due uomini sparirono com’erano
arrivati.
La chiamavano Mariù perché il suo vero nome,
Maruska, sembrava troppo difficile da pronunciare.
Aveva ventidue anni ed era rumena, arrivata lì, in
quel posto qualsiasi, a sedici per fare la puttana, anche se lei naturalmente
non aveva in mente proprio quel progetto. Ma Antonio Adeschi gestiva, insieme
al cementificio più attivo della provincia e all’outlet di abiti firmati, un discreto giro d’affari
legato alla prostituzione, che espandeva qualche propaggine anche nel capoluogo.
Finita in mano sua, Maruska non aveva avuto molte valide
alternative.
Era la ragazza più bella che si fosse vista in
paese a memoria d’uomo: aveva lunghi capelli meravigliosamente ondulati,
d’un biondo sfumato nel rosso, e la pelle chiarissima, leggermente
spruzzata di efelidi. Gli occhi, azzurri e così chiari da sembrare quasi
trasparenti, conservavano sempre una tristezza impossibile da evitare, ma
mascherata di spavalderia le poche volte che si faceva vedere in pubblico.
Perché quasi tutti, in paese, sapevano che Mariù faceva la vita.
Luciano, il gestore del bar del centro, diceva che aveva
mani d’ avorio, così sottili che pareva non potessero reggere
nemmeno la tazzina del caffè. E naturalmente si faceva un gran
commentare di gambe come cosce di lepre, di una vita sottile come una canna di
bambù – una canna di bambù l’avevano vista dal vero,
a dir tanto, in quindici; ma il paragone rendeva l’idea e veniva
utilizzato senza economie - e di
una scollatura che ci si perdeva dentro.
Delle ragazze di Antonio, Mariù era l’unica
che abitasse in paese. Perché era la prediletta del dirigente, la punta
di diamante della sua scuderia e la voleva tenere vicina, non perderla
d’occhio.
Lei non dava mai confidenza a nessuno, perché tanto
sapeva perfettamente quel che pensavano di lei, sapeva di essere soltanto una
baldracca straniera in un paese di mille e cinquecento anime nella cintura
esterna del capoluogo, in cui il principale polo comunitario era la parrocchia
di don Mauro. Il quale sacerdote, peraltro, non mancava di omaggiarla con lo
sguardo del massimo sprezzo ogni qualvolta lei capitasse a portata
d’occhi.
Mariù era nata in un villaggio poco lontano da Bistrita di sane tradizioni cristiane e da bambina andava
sempre a messa, ma in paese nemmeno osava avvicinarsi alla chiesa, né le
importava più. Col tempo, s’era abituata a considerare sé
stessa come la depravata che era divenuta nell’immaginario comune. E se
qualcuno, per caso, le rivolgeva la parola, Maruska ormai replicava con le
rituali espressioni sprezzanti e volgari che le avevano appreso le colleghe e
gli sgherri. A guardarla si sarebbe detto che fosse persino contenta, che
provasse disprezzo per la gente comune.
Maruska Bielovcenko da bambina
sognava di sposare un bravo ragazzo e abitare in una cascina in campagna,
tenere le oche e persino i maiali, anche se puzzavano: perché avevano
tanta carne e le piaceva la festa che si faceva nelle borgate il giorno del
macello.
Invece la sua vita aveva preso un’altra piega e lei
aveva smesso di credere nella sua bellezza; niente di moralistico, niente di
trascendentale o filosofico: Maruska viveva vendendo se stessa e per questo,
del mondo, riteneva di sapere abbastanza.
Che era un posto da schifo, basilarmente.
Era in paese da quattro anni quando don Mauro, oltrepassata
abbondantemente la sessantina, venne trovato un mattino stecchito nel letto,
stroncato da un infarto improvviso. Ci fu un grosso funerale, le beghine
piangevano e si strappavano i capelli. Le urla le sentiva persino lei, chiusa
nel suo monolocale malamente arredato.
Il nuovo parroco arrivò la settimana dopo. Maruska
non lo vide ma Claudia, la cuoca di casa Adeschi, le raccontò
dell’atteso evento con minuzia di particolari, ché non disdegnava
le chiacchiere nemmeno se l’interlocutrice era una troia.
C’era una delegazione di vedove e assessori ad
aspettare il sacerdote il giorno previsto per il suo arrivo. Quel che si sapeva
di lui era che si chiamava don Giacomo Oderni, era
originario di un altro paese della cintura distante una cinquantina di chilometri,
era abbastanza giovane e aveva studiato a Roma. Aveva fama di prelato colto e intelligente e avrebbe
potuto aprirsi molte porte e far carriera in Vaticano, invece alla prima
occasione s’era fatto assegnare a una qualunque parrocchia della sua
regione d’origine.
Quando arrivò la macchina e già Anna Rolfi, beghina maxima della comunità, si sistemava il foulard
sui capelli, ne scesero due ragazzi in blu jeans e giacca a vento, uno sulla
trentina, l’altro un po’ più giovane, che iniziarono a
svuotare il baule. Ci fu un momento di ragionevole perplessità e poi
Mario Maldersi, assessore all’urbanistica, si
fece avanti con baldanza.
“Don Giacomo Oderni?”
chiese a nessuno in particolare.
“Sono io,” rispose amabilmente il più adulto dei nuovi arrivati, posando a
terra un borsone e tendendo la mano con un movimento franco e un sorriso
aperto. “Grazie per l’accoglienza, parrocchiani,”
proseguì, allargando a tutto il capannello il suo sorriso luminoso.
Vennero immediatamente fatte le presentazioni – il
ragazzo che l’accompagnava venne introdotto come suo fratello Andrea,
laureando in legge - e don Giacomo si fece accompagnare, sotto l’egida
del sacrestano Nicola, a visionare la sua diocesi e gli appartamenti del
parroco, con una parola gentile per tutto quel che vedeva, tanto che alla fine
della visita la conclusione fu che era un ragazzotto
amabile e simpatico, per carità, ma non aveva proprio la stoffa per
l’autorità e il fatto che al momento del suo arrivo ufficiale non
indossasse l’abito talare destò più d’un sospetto.
Don Giacomo s’installò senza clamore. La
domenica tenne la sua prima messa e piacque per la dolcezza ferma delle sue
parole e l’impeto della predica appassionata, anche se il suo discorso
parve un po’ laico nei toni pratici di quotidianità e schiettezza.
Unendo questo fatto ai suoi blu jeans, la giacca a vento – rossa, un
colore davvero poco consono – e l’aspetto fresco e accattivante,
non convinse del tutto i parrocchiani.
Antonio Adeschi, che a causa di improrogabili impegni
aveva mancato alla funzione, drizzò le antenne quando gli fu riferito
che durante la sua prima predica il don aveva pronunciato le parole oppressione e sfruttamento. Avrebbe avuto altre valide ragioni per inquietarsi,
perché nei dieci mesi successivi il nuovo parroco mise immediatamente in
chiaro la propria posizione riguardo alla sua politica di spadroneggiamento
delle risorse, schierandosi nell’ordine:
- contro il suo nuovo piano di allargamento edilizio e
costruzione di un secondo outlet appena fuori il
paese
- contro il progetto di ampliamento della proprietà
del dirigente e di aggiunta di un terzo piano alla sua magione, adducendo il futile pretesto di mancato rispetto
verso la legge di costruzione edilizia e arrivando ad accusarlo pubblicamente
di abuso
- contro la petizione per l’apertura di una centrale
termoelettrica in società con la Termoforce Spa, impiantata nel capoluogo.
In particolare su quest’ultimo punto il prete e
l’affarista si scontrarono bruscamente. Giacomo svolse accurate indagini,
grazie al contributo del fratello Andrea, arrivando a dimostrare che la Termoforce era
legata tramite vari prestanome all’Adeschi stesso. Una volta entrato in
possesso della preziosa informazione non si limitò a rendere noto ad
Antonio che conosceva i suoi maneggi, non iniziò trattative di accordo
private, ma affisse direttamente dei volantini alle porte della chiesa e
pubblicò la notizia sul bollettino della parrocchia. Antonio era
furibondo.
I parrocchiani a quel punto erano divisi nei confronti del
modo di agire del sacerdote: da una parte gli entusiasti, sollevati oltre ogni
dire dall’evidenza di avere finalmente un curato che osasse utilizzare i
poteri di cui era investito in loro autentica difesa, convinti che l’aria
stesse finalmente cambiando e che l’onnipotenza di Adeschi fosse ormai
agli sgoccioli; dall’altra, invece, i più pavidi e i più
anziani preferivano non esprimersi e omaggiavano il pievano di un distaccato,
educato rispetto misto a una benevola condiscendenza, perché una dispersorio nulla poteva contro la potenza di un kalashnikov. I pessimisti affermavano tetri che don Giacomo
non sarebbe durato a lungo.
Lui, dal canto suo, sembrava provvisto di un’energia
senza fine. Marciava da un lato all’altro della diocesi, consolava
vedove, confortava ammalati, rimproverava i ragazzini che davano troppa retta
agli adescani e, naturalmente, monitorava
l’azione di Antonio senza perdersi una mossa.
Riportò in auge il club calcistico della parrocchia
e coinvolse il maggior numero di ragazzini nelle sue attività, con lo
scopo nemmeno troppo velato di tenerli il più lontano possibile
dall’influenza degli affaristi. Fu Pietro Corlotti,
anni nove, che prese a chiamarlo alla maniera in cui, peraltro, lo interpellava
anche suo fratello Andrea, padre Jack. Il soprannome gli s’incollò
addosso istantaneamente e il curato, che d’altra parte insisteva con
tutti i fedeli per farsi dare del tu e farsi chiamare semplicemente Giacomo, per
avvicinarsi a loro, non poté che esserne lieto.
E padre Jack man mano acquistava popolarità.
Piaceva per i modi semplici e diretti, per la pazienza e la comprensione e,
anche, sebbene non fosse esattamente nei suoi desideri, per i grandi occhi
cerulei e per la figura slanciata. Non che fosse precisamente un uomo molto
attraente, Giacomo: un po’ troppo dinoccolato, con un viso leggermente
asimmetrico e il naso inequivocabilmente a patata; ma rispetto al pingue e
anziano don Mauro era comunque un cambiamento epocale, le ragazzine andavano a
messa come a una sfilata e Andrea si faceva delle sacrosante sghignazzate quando
le vedeva entrare in confessionale sbattendo le ciglia come davanti a George Clooney.
Giacomo lo aveva coinvolto nella sua lotta alla centrale
termoelettrica e l’apprendista avvocato si presentava settimanalmente
alla messa, cui assisteva dal fondo della chiesa – era un fervente ateo,
ma nessuno lo venne a sapere – per poi discutere col fratello
privatamente delle azioni che poteva compiere e della legislatura di cui
avvalersi. Fu tramite Andrea e i suoi colleghi che Giacomo si mise in contatto
con quasi tutti i suoi futuri collaboratori, sparsi sull’intero suolo
nazionale: Roberto Merles, attivista contro il
depauperamento criminale organizzato delle risorse umane ed economiche, Matteo
Vinchi, giornalista impegnato e militante dalle mille risorse, il gruppo Arcas, associazione di recupero delle vittime di
sfruttamento, e così via nella creazione di una fitta rete di partecipazioni
mirate all’arresto delle azioni illecite.
Destava ancora qualche contrarietà la sua giacca a
vento rossa fiammante, ma per il resto i consensi fioccavano.
Fu Giacomo a proporre la petizione cittadina contro la
centrale e vagabondò personalmente di porta in porta per raccogliere le
firme, parlando chiaro e accusando apertamente Adeschi. Antonio lo venne a
sapere nel giro di mezza giornata. Giacomo fu avvicinato da Giuseppe Imparsi, suo braccio destro, mentre continuava la sua
insolita questua.
“Padre Jack, buongiorno,” lo apostrofò
con deferenza.
“Buongiorno a lei,” fu la secca risposta.
“Le porto gli omaggi di Antonio Adeschi,” espose
l’uomo, con tono d’intesa.
“Ricambio la gentilezza,” replicò padre
Jack, senza nemmeno rallentare il passo. “Mi voglia scusare, vado
piuttosto di fretta.”
“Padre, padre,” lo rallentò Giuseppe
scuotendo la testa. “Antonio è molto costernato. Non si spiega
tanta avversione da parte sua, che le abbiamo mai fatto?”
interrogò bonario.
Giacomo era paziente e comprensivo, di norma, ma possedeva
un caratterino facilmente infiammabile, e solitamente bastava la visione di
certe facce perché la miccia prendesse fuoco.
“Senta,” iniziò brusco, poggiandosi i
fogli della petizione contro il petto come un’armatura, “non mi
venga a prendere in giro. Lo sappiamo tutti e due cos’ha fatto il suo
amico Adeschi, non a me ma a tutto il paese, e cos’ha in mente di
continuare a fare. E’ inutile che perdiamo tempo in convenevoli,”
affermò risoluto.
“Ma padre, non c’è bisogno di tanta
astiosità. Possiamo metterci d’acc…”
“Io non sono sul vostro libro paga,”
ringhiò Giacomo sollevando la testa. “E non ci sarò mai.
Vada a raccontare queste cazzate in comune, che
lì sono tutti amici suoi.”
Non gli lasciò nemmeno il tempo di rispondere:
girò i tacchi e marciò via come un soldato alla carica, testa
alta e passo fermo. Testimoniava alla scena Luigi Camarso,
anni settandadue, che scrollò la testa con un
sorriso ammirato ma mesto: il nuovo parroco aveva di sicuro fegato in
abbondanza, ma non era un campione di diplomazia.
Antonio accusò il colpo senza inizialmente
addolorarsene, prendendo semplicemente atto del fatto di avere un nemico.
Dapprima tentò di screditarlo, sparse dubbi sulla sua integrità,
ipotizzò intrallazzi poco consoni alla sua carica. Ma in pochi mesi
l’onestà di Giacomo gli aveva creato un muro intorno e Adeschi
dovette rendersi conto che ci sarebbe voluto ben altro per liberarsi di quel
problema.
Tutto questo, ad ogni modo, Maruska lo seppe soltanto
tempo dopo. Claudia le aveva raccontato dell’arrivo del parroco e qualche
ragazzino, ogni tanto, ciarlava rumorosamente degli allenamenti della squadra
– in cui padre Jack militava come terzino. Per il resto, le cose
ecclesiastiche non erano affar suo, lei stava nel
ramo mondano; ricordando don Mauro si tenne a debita distanza.
La sua situazione si faceva via via
più intollerabile. Aveva tentato di manifestare ai ragazzi di Antonio il
desiderio di lasciare il giro e il risultato erano stati due giorni di
ospedale, una costola incrinata e un labbro tumefatto per una caduta dalle scale. Si sottometteva alla
sua triste situazione senza più nutrire la minima speranza: soldi per andarsene
non ne aveva, e anche se avesse tentato la fuga sarebbe stata ribeccata in un
amen, e allora altro che costola incrinata. La si vedeva deperita, mesta, meno
bellicosa e altera del solito, più mite e priva della consueta
aggressività.
Era stanca, Mariù. Stanca da morire.
Non vedeva vie d’uscita, piangeva di nascosto e si
piegava ai suoi odiosi doveri con sempre maggior orrore, quasi non dormiva, non
usciva mai se non fare un po’ di spesa. I suoi aguzzini le lasciavano
qualche soldo per tirare avanti e a lei piacevano i pomodori e le arance.
Quel martedì ne aveva preso un grosso sacco, belle
arance rosse e tiepide di sole. Mentre lasciava la bottega del fruttivendolo
urtò un ragazzino che correva via con una bibita in lattina e la sue
arance rotolarono a terra, sparpagliandosi sul selciato. Soffocò
un’esclamazione a mezza voce nella sua lingua e sospirò,
chinandosi a raccoglierle. Si sorprese molto nel notare altre mani impegnati
nella medesima attività e un corpo chino a terra, indaffarato: nessuno
raccoglieva niente a Mariù, la donnaccia.
“Grazie,” mormorò col suo accento
straniero allo sconosciuto, che riversò una bracciata di agrumi nel suo
sacchetto con un sorriso amichevole. Lo scrutò di sbieco, senza osare
guardarlo apertamente: alto e biondo, giovane.
“Spero non fosse una bestemmia,”
osservò lui vago, riferendosi alla sua interiezione sussurrata.
Maruska fu tanto sorpresa nel sentirsi rivolgere
amichevolmente la parola che non seppe cosa rispondere, scrollò soltanto
la testa.
“Meglio così,” fu il noncurante
commento. “Io sono Giacomo.”
E allora lei focalizzò la giacca rossa, il sorriso cordiale
e le maniere aperte, sgranò gli occhi e mormorò una risposta
incomprensibile, affrettandosi a raccogliere le ultime arance.
“Grazie. Io…io…” balbettò
intimorita.
“Tu sei Maruska. No?”
Questa volta si voltò apertamente verso di lui,
anche per la sorpresa di sentir pronunciare il suo vero nome. In un anno non
s’erano mai incontrati né visti. Ma non era davvero sorprendente
che lui sapesse chi era, ma piuttosto che lo affermasse con tanta
inoffensività.
“Sì…sì. Ma mi chiamano
Mariù,” mormorò, guardandosi nervosamente intorno.
“Lo so.”
Mariù inghiottì la bile e l’amarezza,
e si strinse contro il sacco della spesa.
“Se lo sa allora perché sta qui a parlare con
me?” rispose fredda.
“Perché no?” fu l’innocente
risposta.
“Perché sono una p…”
iniziò fiera.
“Lo so,” si affrettò a zittirla lui.
Rimasero entrambi in silenzio. Simone, il fruttivendolo,
li fissava sfacciatamente dalla soglia del negozio, con l’aria di chiedersi
esterrefatto se il parroco avesse deciso di darsi alla bella vita. Giacomo
accennò un sorriso cordiale nella sua direzione e Simone rispose con un
cenno di saluto e una smorfia colpevole, colto in flagrante invadenza, prima di
tornare alla cassa.
“Da quanto tempo sei qui?” chiese Giacomo,
infilando le mani in tasca.
Maruska sbatté gli occhi, quasi incredula per quel
tono da chiacchierata. All’angolo della via i ragazzini li guardavano e
sghignazzavano apertamente, ma Giacomo pareva non badarci.
“Cinque anni,” borbottò indecisa.
“Mai visitata la chiesa?” continuò lui,
gentile. Lei scosse più volte la testa, a sguardo basso.
“Allora, se ti capita, vieni. Se vuoi fare due
parole o sentire una messa.”
Maruska lo scrutò sospettosa, domandandosi se i dubbi
di Simone non fossero fondati. Ma Giacomo era serio e composto, l’aria
assolutamente non equivoca. Voltò la testa, imbarazzata.
“Antonio Adeschi si arrabbia se qualcuno parla con
me,” annunciò, ben conscia del controllo cui era sottoposta.
Giacomo, spiazzandola, scoppiò a ridere.
“Credo sia già molto arrabbiato con me in
ogni caso,” osservò ironico, con fare innocente. “E comunque
io rispondo a un’altra autorità,” aggiunse fermo.
Lei lo guardò senza celare lo stupore.
“Quale?”
Il prete si strinse nelle spalle.
“Quella della fratellanza, immagino,” rispose
vago. “Quella di Dio, qualunque cosa tu voglia vederci.”
Parlava lentamente, per farsi capire bene, e Maruska se ne
accorse.
“Ma Antonio è ricco e…”
“La sai la storia della cruna dell’ago?”
la interruppe Giacomo con fare quasi ameno.
“Cruna?” ripeté Maruska senza capire.
“E’ più facile per un
cammello…” iniziò lui, muovendo appena la mano estratta
dalla tasca.
“…passare per la cruna di un ago che per un ricco entrare nel Regno dei Cieli,”
concluse Maruska, illuminata da una subitanea comprensione.
“Allora lo sai, il catechismo,” osservò
Giacomo con un sorriso. “Se cambiassi idea per quella messa…”
ipotizzò cordiale, e lei annuì scioccamente. “Ciao,
Maruska,” terminò, allontanandosi.
“Buona giornata, padre Jack,” rispose lei
istintivamente.
Lo vide sorridere un’ultima volta e poi avviarsi
spedito verso la piazza. Quando lui passò accanto al gruppetto di
ragazzini li vide iniziare a parlare vivacemente, ridendo maliziosi e
attorniandolo rumorosamente, finché il sacerdote non tirò un
sonoro scappellotto sulla nuca a Pietro, che sghignazzò di gusto, e li
disperse con una risata e qualche ammonizione, il dito sollevato verso
l’alto con rimprovero.
Maruska non ci andò, alla messa. Né quella
settimana, né mai.
Però le parole del parroco l’avevano toccata
e la dolcezza spontanea del suo sorriso aveva riscaldato qualcosa dentro di
lei, abituata com’era a non nutrire più la minima fiducia nel
prossimo.
Iniziò ad informarsi su di lui, complice
l’attitudine al pettegolezzo di Claudia. Venne a sapere della sua
opposizione ai progetti di Antonio e si spiegò così la sua
affermazione relativa alla rabbia dello speculatore nei suoi confronti.
Scoprì che aveva trentadue anni, un fratello e due lauree, una in
teologia e una in scienze politiche, che raccoglieva le firme e aveva
allontanato Giuseppe Imparsi in malo modo.
Si tenne aggiornata, per quanto poteva, sulla prosecuzione
della sua attività. Giacomo coinvolse un giornalista, fece scrivere un
servizio sul piano di costruzione della centrale, raccolse mille firme,
avviò una pratica in comune pur scontrandosi con l’avversione del
sindaco. Senza rassegnarsi, si diresse direttamente agli uffici del capoluogo.
Andrea lo venne a prendere in macchina e padre Jack si curò di fare in
modo che fosse ben chiaro a tutti quel che andava a fare.
A quel punto, Antonio decise che era tempo di fare
qualcosa.
Giacomo era rientrato da due ore quando Giuseppe si
presentò nella sala riunioni della parrocchia in tenuta formale.
“Padre Jack, buonasera,” salutò con
l’usuale rispetto.
“Buonasera,” fu l’altrettanto usuale,
freddo saluto. “Posso aiutarla?”
“Il signor Adeschi le vorrebbe parlare, se ha un
momento. Faccia a faccia, come tra uomini, senza agire alle spalle,”
aggiunse, riferendosi evidentemente alle sue mosse per ostacolarli.
Giacomo lo fulminò con un’occhiata sdegnosa.
“Non sono certo io a fare sotterfugi. Lo sapevano
tutti dove sarei andato oggi, anche i bambini. Comunque accetto volentieri, mi
dia solo un momento,” affermò con dignità, lasciando la
stanza.
Si premurò di vestirsi per una volta come gli si
confaceva, indossando l’abito talare per intero e infilandosi persino la
cotta bianca, nonostante gli paresse oltremodo ridicolo, ma con lo scopo
preciso di sbandierare chiaramente la sua ubicazione sociale.
Giuseppe lo scortò senza una parola fino al
ristorante, stranamente quasi deserto. In un tavolo d’angolo stava
Antonio Adeschi, placido ed elegante. Giacomo gli rivolse un rapido cenno di
saluto, piantandosi a gambe larghe accanto al desco.
“Buonasera, don Giacomo. Si sieda,” lo
invitò l’affarista benevolmente.
“Senz’altro,” fu la ferma risposta del
prelato, che prese posto senza perdere tempo mentre Giuseppe faceva
altrettanto.
I due uomini si squadrarono guardinghi per qualche
secondo, nonostante si fossero già incontrati pubblicamente più
volte perché Antonio andava quasi sempre a messa. Adeschi era un uomo
facoltoso e non temeva di mostrarlo. I capelli brizzolati erano sempre composti
in un taglio perfetto, gli abiti cuciti su misura, scarpe impeccabili,
accessori costosi. Sembrava emanare la sicurezza del suo potere con la sola
prossemica e la sicurezza dei gesti e delle espressioni.
“Padre Jack,” iniziò, con vaghissima
ironia nel pronunciare il suo soprannome, “la sua visita in città
è stata proficua?”
Giacomo si umettò le labbra e prese fiato.
“Estremamente. Lei non costruirà quella
centrale. Il piano regionale ne contempla già una a una distanza troppo
ridotta per giustificarne una seconda. Inoltre la sua villa è costruita
abusivamente su un territorio di proprietà dello stato e lei
pagherà per questo,” aggiunse, combattivo e trionfale.
Antonio assottigliò gli occhi, irritato.
“La mia villa?” sibilò sorpreso.
“Cosa cazzo c’entra casa mia con la centrale? Tu vieni qui a
impicciarti di casa mia, delle mie cose?” aggiunse minaccioso. “Ma
chi credi di essere, Dio? Il problema della centrale mi poteva stare anche
bene, ma tu ora stai mettendo il naso nelle mie cose personali e
questo…non mi piace,” affermò iroso, sbattendo lievemente la
mano sul tavolo. “Forse non ti darebbe fastidio se lo facessi io?”
aggiunse gelido.
“Io non ho niente da nascondere nelle mie cose,” fu la placida risposta del
curato, per niente impressionato dal passaggio alla seconda persona.
Antonio annuì fosco, con tranquillità.
“Tuo fratello viene spesso in paese, non è
vero?”
Giacomo s’irrigidì all’istante sulla
sedia, serrando la mascella. Il cuore gli accelerò il ritmo mentre
inspirava rumorosamente.
“Cosa c’entra mio fratello?” chiese a
bassa voce.
“Sì, viene spesso. Tutte le domeniche, arriva
per la messa delle dieci, non è vero? Si chiama Andrea, giusto? Andrea Oderni,” continuò Antonio senza nemmeno dargli
retta.
“Mi sta minacciando?” sibilò Giacomo
con un fremito.
“Io?” domandò Antonio con affettato
stupore. “Io ti minaccio? Sei tu che parli delle mie cose, di casa mia. E
allora io parlo di tuo fratello. Non posso?”
Giacomo sbuffò con scherno, stringendo i pugni e
sporgendo appena il busto in avanti.
“Non si azzardi,” intimò furente,
“a tirare in mezzo mio fratello. Sono stato chiaro?”
“Io non voglio tirare in mezzo nessuno, ti ho solo
fatto una domanda e tu non rispondi neanche, perché sei un villano e
maleducato. Ti dico una sola cosa, e cerca di capirla bene: Giacomino,”
scandì, avendo udito più volte Andrea utilizzare quel nomignolo,
e a Giacomo la cosa non sfuggì, “tu devi stare al tuo posto, hai
capito? Sei un prete, non un poliziotto.”
“La polizia qui non esiste,” ringhiò
amaramente il prelato.
“Non sono cazzi tuoi. Impara
a stare al tuo posto, se no non andiamo d’accordo,” ribadì
Adeschi con indifferenza.
Giacomo si alzò di scatto, furibondo.
“Non finisce qui,” esclamò, facendo un
passo indietro. “E’ una promessa,” aggiunse, voltando le
spalle e iniziando ad allontanarsi.
“Salutami tuo fratello, Jack,” rispose Adeschi
con sprezzo.
Giacomo marciò fino ai suoi alloggi quasi correndo
e si attaccò al telefono prima ancora di levarsi la cotta. Attese con
impazienza che si avviasse la chiamata e non aspettò nemmeno di udire la
voce dall’altro capo.
“Andrea?”
“Oh, don Camillo, buonasera,” fu
l’allegra risposta. “Come sta Peppone?”
“Andre, va tutto
bene?”
Ci fu uno sbuffo dall’altro lato.
“Così così,”
rispose il fratello stancamente. “Ha chiamato Matteo poco fa e mi ha
detto che al giornale fanno storie per pubblicare il servizio. Gli ho detto che
ci pensavo io, che li contatto domani dallo studio,” raccontò
sbrigativo.
“No, Andre, non è
cosa,” lo contraddisse lui.
“Che?” sbottò il minore allibito.
“Ma sei scemo, Jack? Il dottor Marzi ha un sacco di contatti, è
più immanicato di chiunque mai,” protestò ragionevole.
“Senti, Adeschi mi ha appena voluto parlare, a
proposito della nostra gita in città di oggi,” annunciò
lui, la voce distorta dal nervosismo. “Ha fatto il tuo nome, chiedeva di
te.”
Andrea tacque per qualche istante, sorpreso.
“Di me?” ripeté, e la parola
s’impennò stridula. “…E che chieda di me. Giacomo, non
ti far intimidire per delle cazzate. Voleva solo
spaventarti, e direi che c’è riuscito,” commentò, con
tono rassicurante.
“Forse. Ma forse no.
E’ meglio se ne resti fuori,” replicò il fratello deciso.
“Certo, io ne devo rimanere fuori. Vaffanculo,
Giacomo, mi sono rotto i coglioni,”
sbottò Andrea irritato.
“Di che?”
“Di questo. Tu ti metti contro i pezzi grossi del
posto in cui vivi, tu giochi a don Chisciotte, tu ti
ficchi nella merda e ti fai minacciare da un criminale, però sono io che
devo stare attento,” continuò Andrea d’impeto. “Sarai
anche un prete, posto che significhi qualcosa, ma sei prima di tutto mio
fratello, porco…schifo, e allora non mi venire a dire di stare attento.
Stai attento tu, cazzo, non fare il martire. Di Gesù ne abbiamo avuto
già uno, grazie tante.”
Giacomo accolse in silenzio l’arringa
dell’avvocato Oderni, con un sorriso mesto e
affezionato.
“Va bene, Andre,”
acconsentì mite. “Però…”
“Però niente! Io domani parlo con il giornale
e non mi rompere le scatole perché guarda che ti spacco il tabernacolo
sulla testa,” lo interruppe Andrea, ancora agitato ma già
più ilare.
Giacomo ridacchiò nervosamente, cedendo.
Le visite di Andrea in paese, comunque, si diradarono e
smisero di essere regolari. Si presentava alla diocesi del fratello in giorni
sempre diversi e ad orari scombinati, per evitare di essere prevedibile e di
cadere vittima di eventuali appostamenti: fu la condizione basica che il
maggiore gli pose per continuare a collaborare e Andrea, che a ventotto anni non aveva poi una gran voglia di tirare le
cuoia, si sottomise di buon grado.
La pubblicazione del servizio relativo all’operato
di Antonio Adeschi su un quotidiano nazionale scatenò un polverone mai
visto. Matteo Vinchi, l’autore, ricevette improvvise e ferme minacce e fu
temporaneamente munito di una scorta della cui presenza sembrava non farsi
motivo d’interesse. Giacomo dovette letteralmente convincerlo a non
andare a trovarlo in paese per festeggiare la vittoria, perché sarebbe
stata una mossa troppo pericolosa per entrambi.
La campagna di screditamento verso il quotidiano e il
giornalista scattò immediata, gli altri media e i colleghi stessi
insabbiarono la questione nel minor tempo possibile, la risonanza delle notizie
pubblicate fu ridotta al minimo e le stesse accolte dalla massima incuranza che
potesse essere loro tributata, ma era comunque un primo passo.
Maruska seguì la vicenda con trepidazione. Qualche
volta intravide, non vista, padre Jack in paese, tranquillo e sorridente,
accolto da sguardi sempre più benigni dei compaesani, da confidenza,
rispetto.
Lei se la stava vedendo brutta. La rabbia di Antonio,
tangibile e diretta all’intoccabile curato, si riversava con frustrazione
su tutto quel che invece poteva raggiungere, e Maruska faceva parte della
lista. Trovandosi nell’impossibilità momentanea di guadagnare
dalla costruzione della centrale, spremeva tutti gli altri suoi averi,
sottoponeva al massimo sforzo ogni settore in cui fosse inserito, compresa la
prostituzione. Quando ventilò l’ipotesi di spostare la ragazza
nella zona portuale cittadina, Mariù capì che da lì non sarebbe
uscita più.
Spaesata, sopraffatta dal panico, decise di rivolgersi
finalmente all’unica persona che paresse poter essere disposta e capace
di aiutarla.
Era mattina prestissimo quando, per la prima volta dal suo
arrivo in paese, varcò la soglia della chiesa, silenziosa e insicura.
Padre Jack stava pregando, in ginocchio sui gradini, talmente assorto che non
si avvide della visita.
“Padre,” chiamò, avanzando lungo la
navata.
Giacomo, inginocchiato di fronte all’altare con le
mani giunte e gli occhi chiusi, si voltò con un sussulto, sorpreso dalla
voce femminile che lo aveva distolto repentinamente dalla sua silenziosa
preghiera. Spostò indietro lo sguardo fino ad incontrare il profilo
esile della ragazza, immobile qualche metro alle sue spalle.
Maruska, sfinita, non si muoveva. Aveva la testa bassa e
le mani raccolte in grembo, in una posa palesemente intimidita e incerta. Si
era messa il vestito buono, l’unico che aveva, chiaro, accollato e dal
taglio castigato, con le maniche lunghe. Sembrava una bambina infagottata in un
abito della nonna e gli fece tenerezza.
“Maruska,” la chiamò gentile, sollevandosi
per avvicinarsi di un passo. “Che sorpresa. Credevo che non saresti
più venuta a trovarmi, ormai.”
Non aveva intenzione di rimproverarla, ma lei chinò
ulteriormente lo sguardo e voltò il viso, imbarazzata. Giacomo vide il
disperato sollevarsi della sua gola nel tentativo di deglutire e si dispiacque
del proprio esordio.
“Hai fatto bene a venire,” aggiunse, benevolo,
avvicinandosi ulteriormente alla ragazza. Batté le mani sui pantaloni
frusti, come cercando di pulirli della polvere racconta sul gradino.
“L’ho disturbata, padre?” chiese lei in
un mormorio, indicando il punto in cui Giacomo si trovava fino a un attimo
prima. “Ho visto che stava pregando,” precisò, con
rammarico.
Si guardò di nuovo intorno nervosamente e
d’un tratto si sentì molto sciocca e fuori luogo, in quel posto da
gente per bene. Il suo vestito, le sue scarpe consunte, tutto indicava che non
aveva nulla da fare lì.
Giacomo trattenne un sorriso, raddolcito dal marcato
accento straniero che, col nervosismo, si faceva più forte nelle parole
della donna.
“Non fa nulla, davvero,” rispose con
noncuranza, ammiccando verso il Crocefisso. “Scambiavo due parole col
nostro Fratello e chiedevo consiglio, ma sono certo che preferisce che ascolti
te,” aggiunse, un barlume di divertimento a illuminargli gli occhi
nonostante l’espressione seria.
Maruska si sforzò di sorridere e rimase ferma,
impacciata, senza ancora osare guardarlo in viso.
“Come posso aiutarti, Mariù?” la
interrogò il prete con cautela.
A quella domanda lei sollevò la testa di scatto,
quasi allarmata all’idea – palesemente assurda – che lui
avesse capito il motivo della sua visita. Osò finalmente incontrare il
suo sguardo e lo scoprì cordiale, quasi curioso. Gli occhi chiari di
Giacomo non parevano tinti né di malevolenza né di aperto
sprezzo, ma anzi sembravano invitare alla confidenza.
Aveva lineamenti delicati, ché non conoscendolo
né di persona né di fama non lasciavano intuire la forza del suo
carattere, e sembrava ancor più giovane di quanto non fosse. Le
ricordava i dipinti della corte degli angeli intorno alla Maestà della
chiesa di Bucarest che aveva visto da bambina.
Senza parlare, si voltò verso il confessionale,
quasi indicandolo.
“Oh, certo,” commentò Giacomo con una
smorfia di scherno verso se stesso. “Non sarai venuta per vedere un film,
immagino,” celiò, cercando di rilassarla. “Lasciami il tempo
di indossare i paramenti, allora, e intanto accomodati.”
“I…” ripeté Maruska confusa.
“L’abito talare,” chiarì lui,
indicandosi il corpo e poi strattonando la cerniera del maglione.
Vide lo sguardo di Maruska illuminarsi di comprensione e
il suo collo sottile piegarsi in assenso e fece per allontanarsi, ma lei lo
trattenne afferrando il suo polso di getto.
Giacomo si voltò, gli occhi spalancati dalla
sorpresa, e la ragazza lasciò la presa come se si fosse ustionata.
“Non serve,” mormorò confusa.
“Non è per…confessarmi,” precisò in un sussurro,
lo sguardo di nuovo affondato a terra.
Lui corrugò la fronte, impensierito.
“Allora perché sei qui?”
domandò, la voce bassa e grave.
“La prego, padre…” bisbigliò
Maruska guardandosi disperatamente intorno, quasi avesse avuto il terrore di
essere vista o spiata. E in effetti l’aveva.
Giacomo non ebbe bisogno di sapere altro. Il volto
indurito da un’espressione risoluta le fece cenno col capo verso il
confessionale e la precedette con passo sicuro
“Entra, Maruska,” la invitò a voce alta
mentre si sedeva, perché lei esitava sulla soglia del comparto. Quando
la vide osare e farsi avanti tirò la tenda con un unico, fluido
movimento e, avvicinando gli occhi alla fessure delle grate la guardò.
Persino così, vedendola solo parzialmente, la finezza e la grazia della
sua persona sembravano rilucere e gli facevano crescere nello stomaco la rabbia
sorda che tanto bene conosceva; per l’ennesima volta maledisse
mentalmente Antonio Adeschi per poi immediatamente chiedere perdono al Signore
per l’empietà del suo pensiero.
Maruska non si muoveva e non parlava. Rimaneva granitica,
rigida e spaventata.
“Mariù, qualunque cosa tu mi dirai
resterà tra me e te. Ti puoi fidare. Ho stretto un voto sacerdotale e
anche se non l’avessi fatto non parlerei lo stesso. Coraggio,” la
invitò pazientemente.
Lei trattenne a fatica un sospiro di sollievo e di paura.
Aveva voglia di piangere, perché era tanto tempo che nessuno le parlava
con quella dolcezza e si era dimenticata di quanto fosse bello sentirsi
rivolgere parole gentili.
“Padre, mi aiuti…” mormorò con
voce rotta, e dovette interrompersi per reprimere un singhiozzo.
“Certo che ti aiuto, Mariù. Dimmi cosa ti
occorre e lo farò,” la rassicurò benevolmente. “E
dammi del tu.”
E Maruska quasi rise, perché tutti in paese
commentavano le stravaganze del parroco e ridacchiavano perché Padre
Jack insisteva sempre per farsi chiamare per nome e i ragazzini del catechismo
lo chiamavano soltanto così, Jack, quando giocava con loro a pallone.
Alle beghine dava noia, ma i ragazzini facevano lunghe partite con
“Jack” anziché bighellonare al bar della stazione tra gli
sgherri di Adeschi e a lei sembrava cosa buona.
Con le mani tremanti prese un lungo respiro, cercando di
riacquistare la calma, ma le parole le sgorgarono fuori come un fiume, aspre e
quasi storpiate.
“Aiutami, ti prego, perché non ho nessun
altro a cui chiedere, sono da sola e non c’è nessuno, nessuno a
cui importa di me. La mia famiglia è lontana e amici non ne ho, sono
tanto stanca, non ce la faccio più, me ne voglio andare, ma se prendo il
treno quelli mi trovano in due ore e mi ammazzano di botte e poi mi rimettono a
battere se non mi fanno fuori. Aiutami, Jack, fammi andare via. Lo so che sono
una puttana e sono dannata, però per pietà, portami via. Non
voglio, non voglio più vivere così.”
E non poté trattenersi più, scoppiò
in lacrime come una bambina, come la ragazzina di sedici anni che era stata e
che aveva dovuto piegarsi a uomini come bestie e diventare un animale lei
stessa, una cosa da comprare e usare a piacimento. Singhiozzava forte
perché aveva paura, perché se Padre Jack l’avesse mandata
via non le sarebbe rimasta più una sola speranza al mondo.
Ma Giacomo pensava a ben altro che a cacciarla. Con
inusuale indelicatezza non si prodigò nel consolarla e calmare il suo
pianto, poiché già stava riflettendo febbrilmente su come agire,
su quali mosse compiere. Perché per salvare quella ragazza doveva farla
sparire, cancellare ogni traccia del suo passaggio e dei suoi movimenti come se
non fosse mai esistita.
Giacomo Oderni era l’unico
uomo in tutto il paese che non avesse paura di Antonio Adeschi. E non era vero
nemmeno questo, che non avesse paura, perché non era immortale e sapeva
di cosa quell’individuo fosse capace. Ma era l’unico per cui la
paura non fosse ragione sufficiente per l’omertà. Aveva una
missione, aveva prestato un giuramento e inoltre pensava che fosse un dovere
per qualunque uomo opporsi alla tirannide, e tanto più per lui.
E non era certo l’unico al mondo. Lì nessuno,
nemmeno il sindaco o gli assessori, avrebbe mai mosso un dito, ma grazie
all’attività di opposizione svolta in quei due anni Giacomo aveva
allacciato rapporti con l’esterno che gli potevano permettere di riuscire
in quell’impresa. Aveva i contatti necessari ad un’azione
ramificata ed efficace e ritenne fosse venuto il momento di metterli a frutto.
Impiegò almeno un minuto a riscuotersi e quando
l’ebbe fatto si affannò nel consolare la ragazza, aggrappando la
mano alla grata di separazione.
“Maruska,” la chiamò con dolcezza.
“Marì, non piangere più,”
intimò morbido. Ma lei, invece di seguire il consiglio, prese a singhiozzare
ancora di più.
I suoi singulti erano continui e violenti, si sentiva il
freddo del terrore scivolare fuori insieme alle lacrime. Giacomo pensò
di doverla rassicurare e picchiettò sulla divisione che li separava con
le nocche delle dita.
“Marì, ma che hai,
paura che ti molli? Certo che t’aiuto, smettila, dai,”
esclamò, quasi con impazienza.
E a quelle parole il pianto di lei divenne quasi isterico,
scrosciante. Un gemito ininterrotto e sconnesso le sgorgava dalle labbra,
appoggiò la testa alla grata e ci si aggrappò, perché
potendo si sarebbe agganciata alle spalle del sacerdote e le avrebbe strette,
per essere sicura che fossero vere e per non sentirsi più così
sola com’era stata fino a quel momento.
“Maruska, cos’ho detto adesso?” gemette
Giacomo, con un accenno di risata di commozione. Aveva il battito cardiaco
rapido, gli pareva di sentirlo fin nelle tempie. Con la decisione di agire
apertamente dietro di lui s’era acceso anche il senso di rivalsa, quasi
una soddisfazione truce e gioiosa di poter finalmente fare.
Lei rise tra le lacrime, passandosi la mano sul viso.
“Non lo so,” mugugnò con voce spezzata.
“Non lo so, ma ho paura che sto sognando. M’aiuti, davvero?”
pigolò, ridendo e piangendo insieme.
Giascomo sbuffò.
“Ascolta, Marì,”
mormorò serio. “Adesso ti alzi e te ne vai, d’accordo? Non
dire a nessuno che sei venuta qui. Torna, diciamo, sabato sera. Puoi tornare sabato
sera?” chiese, fermo.
“No,” rispose lei quasi ironica, prima di
soffiarsi il naso. “No, la sera no,” aggiunse, e non ebbe bisogno
di spiegare perché.
“Va bene,” commentò Giacomo senza
scomporsi. “A che ora…stacchi?” domandò, e
frenò a fatica un risolino, perché se l’avesse sentito suo
fratello Andrea fare una domanda del genere a una prostituta, lui, un prete,
avrebbe riso fino a strangolarsi.
“Non lo so. Dipende. Posso venire la mattina,
presto,” rispose Maruska incerta.
“Va benissimo, Marì.
Domenica mattina presto vieni qui a confessarti, direttamente. Io sarò
già seduto. D’accordo?” domandò, parlando lentamente.
“Sì. Sì, ma ti trovo? Non è che
cambi idea?” insistette lei ansiosamente.
“Nemmeno con la pistola puntata, Marì.
Gesù ha forse lasciato la sua pecora?” rispose lui, e la sua voce
era definitiva.
“Grazie,” mormorò la ragazza,
alzandosi.
“Non mi ringraziare, io sono solo un mezzo. Vai,
adesso.”
Maruska non se lo fece ripetere. S’asciugò
un’ultima volta gli occhi e scappò via, allontanandosi con un
passo infinitamente più fermo e sicuro di quand’era arrivata.
Giacomo non attese né perse tempo. In un posto
piccolo e in un clima ristretto come quello che regnava nella sua parrocchia,
il sinonimo più efficace di discrezione era rapidità. Ogni ora
trascorsa, ogni giorno, rappresentavano la possibilità che qualcuno, in
qualche modo, venisse a sapere.
Si mise immediatamente in contatto con i suo collaboratori
fuori dalla regione, rivolgendosi per primo a Roberto Merles,
e poi al Gruppo Arcas. Quattro ore dopo, a Roma,
Massimo Riversi, leader di due leghe anticriminali e membro fondatore della
più importante associazione nazionale di aiuto alle vittime di
prostituzione, stava già organizzando lo spostamento e la sparizione di
Maruska Bielovcenko, alias Mariù.
Lei trascorse i quattro giorni successivi in uno stato di
ansia violenta e quasi trasognata, contando le ore, i minuti che la separavano
dal successivo incontro con padre Jack. Non temeva più che il parroco
avrebbe mancato alla parola perché sentiva, sapeva di potersi fidare, o
forse voleva farlo. Nella mente conservava la limpidezza del suo sorriso e la
fermezza delle sue parole. In quasi sei anni in quella terra straniera nessuno
aveva mai fatto nulla per lei, ma adesso quel ragazzo italiano l’avrebbe
aiutata e Maruska aveva bisogno di credere in lui. di credere in qualcuno.
Aveva appena ventidue anni.
Non fu delusa. Quando arrivò in chiesa e si chiuse
nel confessionale, in totale silenzio, esitò prima di parlare.
“Padre Jack, ci sei?” mormorò.
Sentì un sussulto e il tramestio di un movimento
brusco, perché Giacomo s’era addormentato seduto al di là
della tenda viola.
“Maruska?” borbottò intontito.
Sì, era Maruska, trepidante e inquieta. Senza por
tempo in mezzo, padre Jack le espose i fatti. Doveva farsi trovare libera da
altri clienti alle tre e mezza della notte successiva. Un uomo con la barba e
gli occhiali dalla montatura d’osso le avrebbe offerto una grossa somma
per il resto dell’intera nottata. Lei doveva soltanto salire sulla sua
macchina e sarebbe sparita per sempre dal paese.
“Davvero?” mormorò, incredula di gioia.
“Davvero, Marì,”
confermò Giacomo quietamente.
Lei aprì la bocca ma ne uscì solo un
sospiro, perché non poteva parlare. Deglutì a vuoto più
volte, prima di riuscire a emettere suono.
“Ti posso abbracciare?” balbettò
incoerentemente.
Giacomo ridacchiò.
“Il Vangelo non lo vieta,” commentò
scherzoso.
Maruska emerse dal confessionale e si guardò
attentamente intorno, verificando che non ci fosse nessuno. Giacomo
spuntò dopo pochi secondi dal lato opposto e se la vide planare addosso
tanto impetuosamente che traballò.
“Grazie! Grazie!” farfugliò Maruska
singhiozzante, stringendogli le piccole braccia intorno, prima di iniziare a
mormorare una litania di parole in rumeno contro il suo collo, mentre lui la
stringeva affettuosamente. Bisbigliò che era l’uomo migliore del
mondo, che i suoi occhi erano come il ruscello del fiume che scorreva vicino a
casa sua, fuori da Bistrita, che non avrebbe mai incontrato
un altro come lui in nessun posto sulla terra, ovunque l’avessero portata
l’indomani, che non se lo sarebbe mai dimenticato e che lo avrebbe amato
sempre perché era un angelo, non fosse stato un prete gli avrebbe fatto
l’ultimo servizio e forse gli avrebbe chiesto di andar via con lei.
Poi sollevò la testa e lo guardò negli
occhi.
“Non ho capito una parola,” borbottò
Giacomo, con un mezzo sorriso di scuse.
“Non dovevi capire,” osservò Maruska
sottovoce.
Lui distolse lo sguardo, perché non era stupido e a
quel punto qualcosa lo intuì.
“Spero che andrà tutto bene, Maruska, che
sarai felice e che Dio ti accompagnerà,” affermò,
allontanandola dolcemente da sé.
“Non avrò bisogno di Dio se ci saranno dei
Jack,” ribatté ingenuamente lei, con una smorfia infantile del
viso tirato e troppo maturo, strappandogli un accenno di risata.
“Non essere sciocca. Buona fortuna, Marì,” la congedò, con un buffetto
sulla guancia.
“Anche a te, padre.”
Quattro parole sussurrate e il tocco leggerissimo e
infinitesimale delle sue labbra depositate su quelle di lui. Giacomo rimase
immobile a bocca spalancata; non riceveva un bacio da quando aveva diciannove
anni e scoppiò a ridere, esterrefatto. Maruska se lo sarebbe ricordato
sempre così, in maglione e ciabatte, ridente e compiaciuto, vittorioso.
Almeno lei.
Scappò via dalla chiesa quasi correndo, sorrideva
persino. Anna Rolfi si stava recando a espletare la
prima preghiera mattutina quando la vide schizzar fuori dal portale con
leggerezza. Scrollò la testa con espressione angusta, perché il
tempio del Signore non era luogo per una poco di buono, ma notando il suo incedere
soave sperò che almeno si fosse andata a confessare.
Padre Jack trascorse la giornata successiva teso, ansioso.
Le sue due prediche furono molto meno efficaci del solito, tanto che ci fu chi
si chiese se non fosse magari un po’ ammalato, se non avesse un
raffreddore o un po’ di febbre.
Non era così. Si calmò d’improvviso
alla cinque del mattino seguente, quando una telefonata tanto attesa lo
informò che Maruska Bielovcenko avrebbe
lasciato di lì a pochi minuti il territorio nazionale. Solo allora
poté finalmente dormire. Si sdraiò e crollo addormentato con la
serenità tipica dei bambini. Sorrideva nel sonno.
L’indomani notò un certo trambusto tra gli
sgherri di Adeschi e ne concluse che la scomparsa della ragazza doveva essere
già di dominio pubblico. Non diede mostra di registrare nulla di
insolito, si dedicò come sempre agli affari della diocesi, sbrigò
la corrispondenza. Parlò con Matteo Vinchi al cellulare nel primo
pomeriggio e gli spedì via mail la mappa della proprietà Adeschi
che si era fatto dare quasi di violenza al catasto in mattinata. Mesi dopo
Vinchi avrebbe riportato la loro conversazione per iscritto quasi alla lettera,
insieme a tutte le altre e ai loro due soli incontri.
All’imbrunire Pietro e due altri ragazzini si
presentarono da lui per una sfida a calcetto, col pallone sottobraccio. Giacomo
giocò per un’oretta, ma era stanco, recentemente aveva dormito
poco e li congedò poco dopo il tramonto.
Quella sera, assonnato e sfinito d’una spossatezza
che sapeva di vittoria e soddisfazione, si coricò più presto del
solito, limitandosi a una breve telefonata col fratello. Andrea raccontò
quel dialogo giorni dopo, la voce rotta dal pianto e i pugni stretti in una
collera impotente che non avrebbe mai trovato pace.
“Ciao, Andre.”
“Oh, Jack, buonasera,” fu la calorosa risposta
del minore. “Novità?”
“In questi giorni ho fatto una cosa buona,”
annunciò lui, vago. Non aveva detto al fratello nulla di Maruska,
ripromettendosi di informarlo a cose fatte.
“Laudato sì, mi
signore,” rise Andrea. “Una cosa buona e cauta o una cosa buona
e rognosa?”
“Non lo so, ancora. Forse rognosa. Ma sono contento,
Andre, forse non sono mai stato così contento
in tutta la mia vita.”
“Occhio a non peccare di superbia, don
Giacomo,” lo schernì il fratello con allegrezza.
“Non far dire parolacce a un sacerdote,” lo
ammonì Jack ridendo.
“Che poi scende giù il fulmine divino e ti
abbrustolisce,” insistette l’altro senza demordere.
“Quello è Zeus, testone di un pagano,”
controbatté Giacomo ridacchiando.
“Pardon, padre. Chi era quello uno e trino,
Maometto?”
“Andrea!” sbottò Giacomo con una risata
schietta. “Non fare l’eresiarca, che mi tocca denunciarti al Santo
Padre e che figura ci faccio con un fratello blasfemo?”
“Chiedo scusa, padre. Dirò tre Padrenostro e
sei Avemaria per penitenza. Sei sicuro di non avere guai?” tagliò
corto Andrea, riacquistando serietà.
“No, Andre, ma non ti
preoccupare. So di avere il giusto dalla mia parte,” rispose lui con
fermezza.
“In missione per conto di Dio, come i Blues Brothers,” confermò l’altro, placido e
rassegnato.
“Andrea, guarda che ti scomunico,” lo
minacciò Giacomo severamente.
“Gesù, no, che la mamma mi sgozza,”
gemette scherzosamente il più giovane.
“E non bestemmiare al telefono con un
sacerdote!” eruppe Giacomo esasperato, ma la voce era allegra.
“Mica bestemmio, era solo una citazione,”
replicò Andrea svagato. “La pecorella smarrita che sono è
irrecuperabile, Giacomino, tanto vale che ti rassegni.”
Ci fu un attimo di silenzio, poi Giacomo sbuffò.
“Ma sì. Ne ho già salvata una, nelle
ultime ventiquattr’ore, di pecorella.”
“Bravo il mio pastore preferito. Se hai qualche noia
chiamami, che telefono allo studio e ti trovo un avvocatone,”
invitò Andrea.
“Non essere pessimista, le vie del Signore sono
infinite,” declinò Giacomo con tono fervido.
“Per favore, non attaccare con la predica che mi
esce l’ernia e poi mi tocca farmi ricoverare. Piuttosto, vieni a pranzo
da mamma domani, così mi racconti in privata sede?” propose
Andrea, curioso.
“Va bene. Mi vieni a prendere verso le
undici?” acconsentì Giacomo gioviale.
“Ma dove sta scritto nella Bibbia che un prete non
deve avere la macchina?” protestò il minore scherzoso.
“Da nessuna parte, a mia conoscenza. Tuttavia la
legge dello Stato vieta persino ai prelati di condurre autoveicoli, qualora
sprovvisti di patente adeguata,” fu l’allegra risposta.
“Va bene, va bene, hai sempre la ragione dalla tua.
Scemo io che discuto con un messo del Signore,” cedette Andrea. “A
domani, Jack.”
“A domani, figliolo,” celiò il
maggiore.
Andrea e Giacomo non si videro, l’indomani. Quando
il giovane avvocato arrivò sulla piazza della chiesa e vide le auto
della polizia, le sirene e i lampeggianti, sentì il gelo penetrargli fin
nelle ossa e strizzò forte gli occhi, come se così avesse potuto
non vedere quanto avrebbe seguito. Scese dal posto di guida già con le
lacrime sulle guance e le spalle tremanti e lo dovettero tenere in tre, con
ogni forza, per impedirgli di entrare in sacrestia, mentre scalciava, si
dibatteva e singhiozzava, protestando che aveva il diritto di vedere suo
fratello e urlando sempre le stesse due parole che avrebbe ripetuto per tutta
la vita, bastardi e assassini.
A casa dei genitori, come ogni martedì, sua madre
aveva preparato il ragù. Che nessuno avrebbe mai mangiato.
In quel lunedì fatidico che Giacomo aveva trascorso
semplicemente in parrocchia, fingendo di ignorare il trambusto degli adescani, non erano trascorse sei ore dalla fuga di Maruska
prima che Giuseppe si rendesse conto della sparizione. Altre tre prima che
realizzasse che non si trattava di una scampagnata della ragazza, che le sue
cose erano tutte lì ma i pochi documenti non c’erano più,
in stazione non era stata vista e nessun taxi l’aveva condotta fuori
dalla zona comunale.
Mariù era svanita nel nulla.
Antonio era furioso. Sapeva perfettamente che da sola la
rumena non avrebbe potuto arrivare lontana e gli risultava trasparente come
acqua di fonte che doveva aver ricevuto un aiuto esterno. Non ebbe la minima
esitazione a individuare l’eventuale soccorritore nella persona
dell’unico individuo in tutto il paese che avesse mai osato dire una
parola contro di lui.
“Quel figlio di puttana se la fa con le puttane,
ovviamente,” commentò con tono sepolcrale al termine del consulto con
i suoi, spegnendo ferocemente la sigaretta nel posacenere. “Giuse’, vedete un po’ se qualcuno ha visto
Mariù intorno alla chiesa, ultimamente.”
E quel qualcuno saltò fuori dopo centosette minuti
da quell’ordine perentorio. Anna Rolfi stava
uscendo dalla chiesa dopo la sua consueta preghiera serale quando Giuseppe
l’avvicinò senza troppe cerimonie e la interrogò sulla
possibile presenza della rumena in parrocchia negli ultimi giorni.
Anna tentennò per pochi minuti, perché Padre
Jack le piaceva ed era un bravo ragazzo, con la testa sulle spalle e il fegato
in mano, e diceva delle belle messe appassionate. Ma siccome si trattava di una
puttana e il parroco sembrava coinvolto in qualcosa di losco – e c’era
di mezzo Antonio Adeschi, furibondo – finì per ammettere che
sì, aveva visto Maruska uscire guardinga dalla diocesi meno di due
giorni prima.
Per Antonio quella fu la conferma necessaria a
giustificare lo scatenarsi della sua collera.
“Quello stronzo mi ha rotto i coglioni,”
annunciò lapidario ai suo uomini, lisciando i bottoni della camicia.
“Mette in testa strane idee alla gente e ci infila il bastone tra le
ruote. Non ci rispetta, quel miserabile.”
Giuseppe attese in silenzio, seduto di fronte a lui. Al
suo fianco, Carlo Graldi, stretto collaboratore
dell’affarista nel capoluogo, e Francesco, responsabile del settore narcotici, aspettavano con la
medesima trepidazione.
“Tu, e tu,” continuò Adeschi con
placida fermezza, indicando i due forestieri, e Francesco si sistemò istintivamente
il cappuccio della larga felpa. “Andate a trovare il parroco, Padre Jack,
domani mattina. Fate in modo che in questo paese di furbi capiscano tutti che
con noi non si scherza. E chiudete la bocca a quella testa di minchia. Poi vedete di sparire di nuovo dal paese come
siete arrivati, l’alibi ve lo trovo io.”
“Dobbiamo ammazzare un prete?” sfuggì
detto a Francesco, con meravigliata contrarietà.
“Non un prete. Una testa di minchia,”
fu la cupa risposta, condita da uno sguardo ammonitore.
Francesco fece per replicare di nuovo, ma Carlo lo
zittì con un cenno brusco. Annuì in direzione del datore di
lavoro e si alzò.
“Domani mattina,” confermò, a mo’
di saluto.
Soltanto Francesco esitò per qualche altro secondo,
mentre l’altro prendeva congedo.
“Antonio,” azzardò, incerto,
“ammazzare un parroco, cioè, quello è l’emissario di
Dio, mica che ci piove addosso la divina condanna?”
Il leader sorrise, poggiando i gomiti sul tavolo con
sicurezza.
“Francesco, tu sei giovane. Un parroco è un
uomo come gli altri, non un’emanazione dello Spirito Santo.
C’è il parroco intelligente e c’è il parroco scemo.
Il nostro è un parroco molto scemo. Mica è colpa nostra,”
aggiunse, stringendosi nelle spalle con fatalismo, mentre Giuseppe annuiva
noncurante. “Vedrai che quando gli spari non spunta l’Arcangelo
Gabriele a schermarlo dai proiettili,” concluse, e Giuseppe
ridacchiò.
Il sicario parve convincersi, con riluttanza.
Mormorò un ultimo saluto e si defilò a malincuore.
“Non hai parlato per tutto il tempo, Giuseppe, come mai?”
domandò Antonio dopo qualche istante di silenzio.
Il suo collaboratore accavallò le gambe, pensoso.
“E’ una faccenda merdosa,”
commentò distrattamente.
“Lo so,” confermò Antonio,
apparentemente esasperato. “E’ anche giovane, quello stronzo. Ma
gliel’avevo detto, proprio poco tempo fa, c’eri pure tu. Giacomino,
tu devi imparare a stare al tuo posto. Se no non andiamo d’accordo.
Gliel’avevo detto,” ribadì, scrollando il capo con
accoramento.
“E non c’è voluto stare,”
concluse Giuseppe allargando appena le braccia.
O forse l’idea che Jack aveva del proprio posto era
un’altra.
Fine
NOTE CONCLUSIVE
Il personaggio di padre Jack, anche se non c’entra
nulla e non vi ha nulla a che fare, e la dinamica del suo omicidio mi sono
venuti in mente pensando a don Peppino Diana, sacerdote campano messo a morte
nel 1994 dopo essersi apertamente opposto alla camorra (e come lui tanti altri,
laici, buddisti o cosa vi pare). Tenevo a precisarlo, perché ci sono
cose che non andrebbero dimenticate.
Ciononostante vorrei anche mettere in chiaro che
l’ambientazione della vicenda non fa riferimento a settori e luoghi
geografici precisi, non si parla di camorra o di mafia o quant’altro.
Il racconto è ambientato genericamente in Italia, stando
all’origine dei nomi, ma potrebbe essere qualunque posto sul pianeta, con
personaggi di qualunque nazionalità. Ho cercato di non usare linguaggi
di stampo dialettale, di mantenere più vaghe possibili le costruzioni
gerarchiche e le dinamiche di azione per non dare un’impronta settoriale
riconoscibile e rendere il tutto mediamente universale.
Come si dice, tutto il mondo è paese.
Per finire, io sono atea. Questa non vuol essere in nessun
modo un’arringa in favore degli ecclesiastici o del sistema vaticano. Su
un’unica cosa al mondo io e un Antonio possiamo trovarci d’accordo:
“un parroco è un uomo come gli altri, non un’emanazione
dello Spirito Santo”. Ognuno fa le sue scelte umanamente, e questa
è una storia di uomini, non di categorie. Il protagonista del racconto
è prima di tutto un uomo, un fratello per citare Andrea, un giovane con
due lauree, una carriera davanti e delle scelte da fare, un posto da scegliere
come suo.
Condividere o meno la scelta di quel posto sta a chi
legge.