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Autore: angelica e triglia    04/04/2008    5 recensioni
una storia qualunque. un uomo progioniero di se stesso.una brutta esistenza, una brutta fine.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Providence, Rhode Island, giugno 1975. all’ombra ventitré gradi, un venticello frizzantino ed il sole nella baia.
Alla Brown University il clima è sempre austero: i grandi infissi di legno, le vetrate ampie, le gradinate di marmo bianco.
Dall’età dei blue jeans tutti i repubblicani erano stati banditi dalla Brown. Tutti tranne uno.
Mitchum Huntzberger insegnava chimica da che uomo vivente ricordasse. Era un uomo integerrimo, tradizionalista, metteva in soggezione anche il rettore. Sessantacinquenne vedovo, senza figli, ormai orfano.
I suoi capelli erano grigi, di un grigio perfetto, perlato, come le basette e gli importanti baffi a manubrio. Impeccabile nel modo di vestire, difficilmente lo si coglieva senza gemelli o fermacravatta, o senza quelle sue camicie a righe, in genere celestine. Fumava il sigaro e beveva molto, specie whisky, quello stravecchio del Tennessee, il suo preferito.
Laureato a Yale con un anno d’anticipo, era famoso per le sue “arringhe” universitarie a favore della pena capitale. Huntzberger in passato era stato un giovane rigido.
Ora era un anziano incattivito dalla vita e pieno di astio nei confronti del mondo e di Dio, quel Dio in cui diceva di non credere ma che era ogni centimetro delle sue membra, e lo sapeva.
Erano passati oltre vent’anni dalla dipartita di sua moglie e, ancora, combatteva il rimorso per tutte le volte che le era stato infedele, portando sui sedili posteriori della sua Lexus donne di ogni tipo e ceto, senza mai trovare la soddisfazione cercata.
Cercava l’oblio, l’obnubilazione. Voleva ricordare il suo come un matrimonio felice, fatto di carezze e teneri baci.
Entrò in classe il tredici giugno del 1975. era un sabato. Come sempre ragionava delle sue formule, nelle quali si rifugiava per non annegare nel dolore, rispondeva alle solite domande, sempre le stesse da quando aveva messo piede in un’aula universitaria. Gli studenti erano piuttosto agitati ed egli più volte chiese silenzio senza ottenerlo.
Allora successe qualcosa che ebbe dell’incredibile: Cerbero, come lo chiamavano gli allievi, ebbe un tracollo emotivo. Piangeva, singhiozzava sommessamente, la sua mano nobile e curata, sulla quale comparivano, all’anulare sinistro, le due fedi nuziali, copriva gli occhi di un azzurro vacuo bagnati di lacrime.
Ci furono lunghi attimi di agghiacciante silenzio durante i quali gli sguardi dei ragazzi, perplessi, sconcertati, si incrociarono. Nessuno avrebbe mosso un muscolo, nemmeno se l’università avesse preso fuoco.
Che significavano quei singhiozzi? Forse anche il misantropo della Brown aveva un cuore?
Il professore non chiarì nessuno di questi dubbi ma si ritirò nel suo appartamento e l’indomani non si presentò a lezione. Stava solo con il suo sigaro, seduto sulla vecchia poltrona di pelle rossa sdrucita qua e là. Solo con la sua malinconia, con il nulla.
Di fronte a lui, sulla scrivania, i ritratti di suo padre e sua madre, sbiaditi, in bianco e nero. Il primo somigliava moltissimo a lui: gli stessi baffi, lo stesso portamento fiero.
E sua madre? Cosa ricordava di lei? Quasi nulla.
Era venuta a mancare quando lui aveva appena sei anni. Lei gli aveva insegnato moltissimo, di questo era certo, ma…cosa?
Non ricordava affatto ciò che sua madre diceva o come gestisse la casa. Ricordava solo una donna dai capelli scuri e la pelle chiara, le mani minute ma molto curate.
Ricordava che, baciandola, avvertiva un sapore particolare. Ora, da adulto, riconosceva quel sapore. Era il trucco.
Le sue forme erano rotonde, la pelle setosa e la voce gioviale e fresca. Era una bella donna come ce ne sono tante sulla costa orientale. Liz, così si chiamava.
Improvvisamente si sentì vuoto, come avesse nel petto un abisso incolmabile.
Era un fallito. Un uomo inutile.
Glielo aveva detto anche quella donna lentigginosa con i capelli rossi, con la quale aveva avuto una delle sue brevi e squallide relazioni…Come si chiamava? Shira…Shannon…cominciava con la esse di sicuro… Ma ora non aveva più alcuna importanza.
Lui non era mai riuscito a farsi amare da nessuno, né dalle donne, né da suo padre, né dai suoi studenti.
Stanco e depresso riempì a metà un bicchiere con dell’acqua e vi versò venti gocce di qualcosa che lo avrebbe aiutato a dormire.
Quella notte sognò molto, soprattutto gabbiani; i gabbiani che avevano i suoi stessi rimpianti, i suoi stessi rimorsi, che provavano le sue stesse sofferenze, ma che potevano volare via da quella trappola di dolore con le loro ali bianche.
Alle quattro e mezzo del mattino si svegliò di soprassalto e, d’improvviso, ricordò [o almeno credette di ricordare] ciò che sua madre diceva. Capì che in quella situazione avrebbe detto che per arrivare ai propri obiettivi bisogna metterci il cuore, che era necessario amare incondizionatamente per essere amati.
Ecco l’insegnamento. La Passione!
E lui passione, ardore o sentimenti d’intensità simile non ne aveva mai provati.
Il ricordo di sua madre ribadiva la realtà crudele: aveva fallito su tutti i fronti. Presa coscienza di ciò agì di conseguenza. Quando Mark Taylor, una matricola, bussò per chiedere un colloquio privato, nessuno rispose.
Fu il corpo di sicurezza del campus ad aprire: Huntzberger pendeva dal soffitto ed era ormai freddo.
Tutta la desolazione che per anni era stata imprigionata nel suo corpo ora si era liberata e volava con ali candide oltre il visibile, lasciando solo serenità in quel corpo ormai stanco.
Furono in pochi a piangere.
  
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