CAPITOLO 1
Notti senza luna
(In
the darkness)
All
that you want from me is all I have to give
(In
the darkness)
Coming
so easily learning how to live
Dead by
Sunrise, “In the darkness”
Un
ululato ruppe il silenzio di quella notte fredda e buia.
La
piccola Zeda si svegliò di soprassalto, spaventata. Non si era nemmeno accorta
di essersi assopita, rintanata in quella poltrona così grande per il suo esile
corpicino, con le ginocchia al petto e una leggera coperta che non le impediva
di rabbrividire.
Si
alzò in punta di piedi per scrutare fuori dalla finestra: non si vedeva quasi
niente, il cielo era un’infinita macchia nera come l’inchiostro, fatta
eccezione per un punto ad Est, in cui lievi sfumature di grigio andavano ad
intaccare la perfezione dell’oscurità. Era lì dietro che si trovava la luna e a
Zeda sarebbe piaciuto vederla almeno una volta. Distolse lo sguardo, le faceva
troppa paura la notte. A tutti faceva paura la notte a Hell City.
Era
così difficile la vita, una lotta quotidiana, tanto che spesso Zeda, dal basso
dei suoi dodici anni, si era chiesta se fosse giusto continuare.
Un
colpo di tosse proveniente dalla stanza accanto la fece trasalire. Si era quasi
dimenticata di non essere sola. Prese una piccola candela e raggiunse sua
madre, distesa nel suo letto, come sempre. Non era una donna molto anziana, ma
una terribile malattia l’aveva colpita facendola invecchiare tutto in un colpo
e adesso dimostrava il doppio dei suoi anni. Era un male incurabile in
quell’epoca. Una volta Zeda aveva letto qualche libro in cui era scritto che
molti anni prima esistevano rimedi efficaci per ogni genere di patologia e la
gente campava molto più a lungo. Prima, tutte le case e le strade di ogni città
erano fornite di luce elettrica e linee telefoniche, i rubinetti funzionavano
ovunque e il Sole restava alto nel cielo per molte ore della giornata.
Come
avrebbe voluto nascere in quegli anni felici e spensierati. Prima che
cominciasse la Caccia.
La
bambina si avvicinò al letto nella penombra. Ormai non riusciva più neanche a
ricordarsela in piedi la sua povera mamma. Le bagnò la gola rugosa con un panno
pulito, intriso di una sostanza medica a base di erbe curative, ma la tosse non
voleva saperne di cessare.
Doveva
preparare dell’altra tisana. « Torno subito, mamma. Dopo la medicina ti
sentirai meglio » sussurrò con fare rassicurante.
Ritornò
in cucina, dandosi da fare per trovare le foglie adatte in una credenza che
aveva visto tempi migliori, salendo in piedi su una sedia, reggendo sempre la
piccola candela. Si sentì mancare quando si rese conto che non avevano più un
solo goccio d’acqua in casa.
Cominciò
a cercare freneticamente in tutti i posti, sotto il tavolo, nei cassetti… ma
niente. L’ultima caraffa era finita poco prima, quando aveva dissetato sua
madre. Con tutto quello che aveva avuto da fare quel giorno, si era
completamente dimenticata di fare scorta al pozzo dietro casa.
A
Hell City quasi tutte le abitazioni erano dotate di acqua corrente ed
elettricità, ma Zeda e sua madre abitavano al limitare dei boschi e non avevano
mai goduto di quelle comodità. Che stupida!, si disse. Ma era davvero da
biasimare una bambina di dodici anni che mandava avanti da sola una casa, con
una madre malata che doveva essere continuamente assistita e che invece avrebbe
dovuto coccolarla e tranquillizzarla quando la paura la pervadeva in notti come
quella?
Colpi
di tosse ancora più forti, ormai erano veri e propri conati di vomito. Non ce
l’avrebbe fatta ad aspettare l’alba.
La
piccola Zeda deglutì a fatica. Sapeva ciò che andava fatto, le mancava solo il
coraggio per farlo realmente. A piccoli passi si avviò verso la porta; le
sembrava già di vedere quel paesaggio tetro in cui avrebbe dovuto avventurarsi…
Si alzò sulle punte e prese con entrambe le mani il pesante crocifisso in legno
che stava agganciato alla parete, quindi, con uno sforzo di volontà di cui non
credeva di essere capace, aprì la porta e in un attimo fu fuori.
Il
freddo la penetrò subito fin nelle ossa, secco e pungente. Era la prima volta
che osava uscire di notte. Alcune torce erano piantate sporadicamente qua e là
intorno alla casa, ma potevano ben poco in mezzo a quel buio opprimente.
Stringendosi nella camicina e tenendo stretto il crocifisso, si incamminò verso
il pozzo.
L’unico
rumore che si sentiva era il calpestare di foglie secche provocato dai suoi
passi. Il tratto non era lungo, eppure le sembrava di non arrivare mai… Il
cuore le batteva forte come un tamburo e il freddo non c’entrava niente con il
suo tremore.
All’improvviso,
un secondo ululato, stavolta più forte e chiaro del primo. A Zeda sfuggì un
piccolo urlo. Sentiva il mostro proprio dietro di lei! Doveva correre via,
tornare a casa, mettersi al riparo!… Invece cadde sul terreno umido, coprendosi
la faccia con le mani, invasa dal panico e aspettando di sentire la creatura
sopra di lei.
Ma
non arrivò nessuno. Guardò timorosa fra le fessure delle dita e vide solo il
cielo scuro. I suoi occhi, ormai abituati all’oscurità, potevano distinguere
anche le chiome degli alberi altissime
sopra di lei che sembravano giganti pronti a schiacciarla, ma sapeva per certo
che questa era solo una sua fantasia e nient’altro Si
accorse di avere le guance bagnate, aveva pianto. “Me lo sono solo immaginato”
pensò cercando di sorridere. Ma chi non avrebbe avuto una paura folle in giro
di notte per Hell City? Non era l’immaginazione di una bimba che creava versi e
rumori nella sua mente, né era la sua inventiva a insinuarle il dubbio che
qualche mostro affamato stesse in agguato per assalirla. Tutto questo era la
realtà.
La
piccola Zeda si rimise in piedi ancora tremante e raggiunse il pozzo stavolta
quasi correndo. Più in fretta che poté tirò la corda e prese il secchio colmo
d’acqua. Arrancando, lo sollevò dal bordo di pietra e lo poggiò sull’erba. Era
tutta sudata e stanca, più per l’angoscia che per la fatica, ma riafferrò il
manico e si preparò a tornare al sicuro nella sua casetta.
Quando
si voltò però sussultò violentemente, tanto che cadde all’indietro inciampando
sul secchio e non urlò solo perché la voce non raggiunse le labbra. Pallida
come un lenzuolo arretrò senza rialzarsi e senza riuscire a staccare gli occhi
dalla figura che aveva davanti.
Sembrava
un uomo, un uomo normale, ma non lo era. La testa ciondolava in avanti e le
braccia penzolavano lungo il corpo, come se fossero pesi morti. Da quello che
si poteva vedere in quella penombra, indossava abiti lerci e sporchi e quando
cominciò ad avanzare, sembrava fosse ubriaco per la sua andatura. « Piccolo
tesoro, cosa ci fai qui fuori a quest’ora della notte? » chiese con una voce
roca e strascicata, pareva quasi una nenia quello che diceva. « Non è prudente
uscire adesso, no, no, no… ».
Zeda
singhiozzò senza lacrime, nemmeno quello riusciva a fare. Se ne rimaneva
sdraiata, contro il pozzo di pietra che le impediva di indietreggiare ancora,
ad aspettare la fine. Ma come aveva potuto essere così sciocca? Come aveva
potuto pensare di andarsene in giro di notte e farla franca? Era impietrita,
paralizzata dal terrore.
«
Non si può uscire, no, no, no… Sei stata una bambina cattiva » continuò quella
voce cantilenata. Procedeva lentamente, su passi insicuri e per niente dritti…
Forse c’era una piccola possibilità di salvezza… Zeda riuscì a ritrovare un
barlume di lucidità nel suo cervello offuscato dalla paura e capì che se fosse
stata veloce, ma davvero veloce, avrebbe potuto farcela a raggiungere la porta
di casa, che in fondo non era molto lontana. Ma doveva agire immediatamente,
perché il mostro si stava avvicinando troppo.
«
Hell City è una città bastarda, piccola mia… Non ti fidare mai di lei… »
Adesso,
o adesso o mai più.
«
A Hell City ci sono i mostri. »
Avvenne
tutto nel giro di un secondo. Zeda scattò in avanti, ma prima che potesse
compiere anche un solo passo, il Vampiro le balzò addosso come una bestia
feroce, con un latrato che squarciò l’oscurità. In un momento, la bambina si
ritrovò intrappolate sia le braccia che le gambe: era in trappola, in completa
balia del mostro. Piangeva la piccola Zeda, adesso sapeva che era arrivata
davvero la fine. E solo in quell’istante si rese conto del perché gli Uomini
continuassero a lottare e combattere una battaglia che sembrava già persa in
partenza: semplicemente perché la vita è così preziosa al punto da diventare
irrinunciabile. Perché vale la pena di tentare il tutto per tutto prima di
arrendersi. Perché nessuno di noi vuole andarsene, perché tutti noi, per quanto
continuiamo a lamentarci delle difficoltà e delle sofferenze che affrontiamo
ogni giorno, saremmo disposti a fare qualunque cosa pur di essere sicuri che la
mattina dopo ci risveglieremo ancora e avremo un’altra giornata da vivere.
Perché è quello che siamo. È un istinto così primordiale che gli Uomini non
sanno più di averlo, ma è ciò che li spinge a continuare e andare avanti,
avanti… Anche in un mondo come questo.
Questo
fu il pensiero della piccola Zeda, non morire ancora. Non a dodici anni, quando
non aveva ancora visto niente. E se un giorno le cose cambiassero? Lei voleva
esserci in quel momento, voleva godersi quell’attimo, voleva poter assaporare
la libertà… Forse un giorno sarebbe arrivato qualcuno a liberarli dai cattivi,
avrebbe fatto sì che il cielo diventasse azzurro come si raccontava nelle
favole, e tutti quanti loro avrebbero potuto finalmente smettere di avere
paura… Ma anche se niente di tutto questo fosse successo, anche se avesse
dovuto continuare i suoi anni in quel posto maledetto e dimenticato dagli dei…
Avrebbe tanto voluto vivere ancora.
Il
suo urlo sottile e acuto si perse nel nulla che li avvolgeva. Non riusciva a
muoversi di un centimetro, l’espressione sul suo volto era di assoluta
disperazione. Le braccia le dolevano e le gambe neanche le sentiva più a causa
del peso di quella creatura.
Ed
ecco che quell’essere viscido sollevò la testa, mostrando alla pallida luce
della luna i tratti del suo volto esangue, scarno e disumano: pieno di rughe,
con gli zigomi alti e gli occhi gialli, come due biglie che stavano lì lì per fuoriuscire dalle orbite, iniettati di una bagliore
omicida e malvagio. Ma la cosa più terribile e più terrificante era la sua
bocca. Le labbra erano secche e quasi invisibili, i denti invece erano
appuntiti come artigli e all’improvviso, come dettato dall’istinto di addentare
la preda, i canini si allungarono diventando come delle zanne ansiose di
conficcarsi nella carne della vittima.
Il
Vampiro godeva alla vista della bambina spaventata e gli si dipinse sul volto
un’espressione di gioia perversa. Guardando poi il suo collo candido e nudo, si
eccitò ulteriormente. Negli occhi gli si leggeva la voglia di affondare in
quella carne, di assaporarla, di gustare il suo sangue, di sentire il soffio
della vita dentro di lui.
Zeda
sentì la punta dei canini premere sul collo, erano freddi e acuminati, come
delle lame. Chiuse gli occhi più forte che poté, invocando un aiuto disperato
nella sua mente.
Non
vide cosa successe, ma lo intuì facilmente. Le urla di dolore del mostro erano
disumane e quando riaprì gli occhi, Zeda lo vide contorcersi sul terreno in
preda ad atroci sofferenze. Ancora tremante, si allontanò come poteva, poi udì
un suono familiare: quello che faceva il fucile a pompa di suo padre dopo aver
sparato. Ma suo padre non c’era più da anni ormai… Chi era stato?
C’erano
tre figure poco distanti, sbucate dal nulla. Riusciva a vederne solo le sagome.
Quella più alta era sicuramente un ragazzo ben piazzato e teneva il fucile con
una mano sola, benché fosse di dimensioni piuttosto grandi. « Cazzo, ho mancato
il cuore! »
Il
Vampiro si rimise in piedi, seppur a fatica. Il cappotto lacero che indossava
adesso presentava un buco abbastanza regolare sulla schiena, nel punto in cui
il proiettile si era conficcato nella sua carne. Ridacchiò sommessamente. « I
Cacciatori… Che paura. Se avessi del sangue mi si gelerebbe nelle vene. »
«
Davvero non hai più neanche una goccia di sangue? » domandò il secondo ragazzo
ostentando finta curiosità. Era più esile del primo e alla cintola aveva quella
che doveva essere senz’altro una spada affilata. « Vogliamo appurarlo? Magari
facendoti a pezzi? »
«
Accomodati pure. Se ci riesci. » Il Vampiro cominciò a correre verso il bosco a
tutta velocità. Evidentemente, sebbene non volesse ammetterlo, tre Cacciatori
armati fino ai denti facevano paura. Non si era nutrito quella notte e la
pallottola di legno bruciava terribilmente nella schiena.
Il
ragazzo che aveva appena parlato sfilò la spada e con abile maestria la lanciò
verso il suo bersaglio. Nonostante questi si muovesse rapidamente, lo mancò per
un soffio e la lama si conficcò nel tronco di un albero, proprio davanti al
Vampiro, che suo malgrado dovette frenare per non ritrovarsi con una testa in
meno.
Nello
stesso istante, il terzo dei Cacciatori partì come una saetta. Guardando
meglio, Zeda si accorse che in realtà era una ragazza. Correva veloce come una
scheggia, sembrava avere le ali ai piedi. Raggiunse il Vampiro con un ultimo
balzo e atterrando gli mollò un pugno diritto in faccia, che gli fece quasi
roteare il collo. Quando stava di nuovo per attaccare però, il mostro la
sollevò facendola finire sul terreno, quindi ripartì, fuggendo il più lontano
possibile.
Il
Vampiro però era evidentemente senza forze, perché la ragazza si rialzò subito
senza problemi e ricominciò l’inseguimento. Gli altri
due Cacciatori se ne stavano fermi e in disparte a osservare la scena, senza
muovere nemmeno un dito. Perché non andavano ad aiutarla?, pensò la piccola
Zeda, non poteva farcela da sola.
O
forse sì… Con un’agilità sorprendente si arrampicò su di un altissimo masso e
da lì spiccò un salto sbarrando la strada al Vampiro. Con un doppio calcio
girato lo fece volare contro la roccia, quindi gli inflisse un potente pugno
nello stomaco che gli fece strabuzzare gli occhi. Zeda non riusciva a crederci.
Il
mostro non poteva più muoversi, imprigionato da un braccio della Cacciatrice.
Eppure sorrideva, nonostante i lividi. « Povera bimba… Sai quante persone
innocenti stanno morendo proprio in questo istante per mano dei miei fratelli?
»
«
Almeno quanti sono i tuoi fratelli che vengono polverizzati per mano dei miei
colleghi » ribatté la ragazza con decisione.
«
E’ qui che ti sbagli… Noi siamo più numerosi… E’ solo questione di tempo prima
che la razza umana rimanga solo un ricordo… » rise il Vampiro.
«
Mi fai schifo, bastardo. Anche tu eri un Uomo una volta. »
«
Le cose cambiano. »
Se
non ci fosse stata tutta quella oscurità, Zeda avrebbe potuto scorgere
un’amarezza mista al disgusto sul volto delicato della Cacciatrice, prima che
prendesse qualcosa dalla cintura, qualcosa che produsse un cambiamento radicale
nell’espressione del Vampiro. Stavolta era lui ad essere terrorizzato.
«
Hai ragione » disse puntando il paletto diritto sul cuore del nemico. « Le cose
cambiano. »
«
No, aspe… »
Forse
il Vampiro voleva implorare pietà, chiedere perdono, dimostrare di essere
pentito pur di salvare la pelle. Perché anche i Vampiri, che sono già morti
eppure camminano, ci tengono alla vita; anzi, forse ci tengono ancora più degli
uomini, perché l’hanno già persa e sanno cosa rappresenta e per questo la
rivogliono a tutti i costi.
Così
morì per la seconda volta, definitivamente, con la paura dipinta in faccia.
I
capelli gli caddero dalla testa a ciocche, la pelle si raggrinzì, fino a
diventare solo uno scheletro con due biglie gialle che poi divennero due vuote
cavità. E per finire, anche le ossa si dissolsero, trasformandosi in cenere e
poi polvere che si eclissò nell’aria. Non ne era rimasto niente.
La
ragazza roteò il paletto nella mano, poi ritornò sui suoi passi. I due compagni
l’avevano raggiunta e il più basso dei due aveva recuperato la spada. « Bel
lavoro, piccola. »
«
Avevi dubbi? »
«
Se ne avessi avuti non ti avremmo fatto fare tutto da sola, non credi? Era
messo male. »
Zeda
li vide allontanarsi nell’ombra, attonita. E così erano quelli Cacciatori, gli
eroi che combattevano contro i Vampiri per riportare la pace e per far sì che
gli Uomini si rimpossessassero della propria Terra. Ne aveva sentito parlare
naturalmente, ma non ne aveva mai incontrati prima. Se li era immaginati
diversi, più grossi e forzuti.
Uno
di loro si voltò prima di andarsene. « Ragazzina, è meglio che torni in casa.
Non è prudente uscire di notte, lo sai. »
Come
svegliandosi da un sogno, Zeda si rimise in piedi, prese il secchio dell’acqua
e raggiunse la sua amata casetta, chiuse la porta e non la riaprì se non quando
fosse già sorto il Sole.