Questo e il prossimo capitolo sono un po’ la quiete
prima della tempesta xD
Buona lettura!
Gage.
HACKER
CAPITOLO XI
Passato – Un addio
Era una
cupa mattina di fine novembre. Era il giorno libero di Alice e la sera prima
aveva dato la sua disponibilità a Sherlock per aiutarlo nello strano caso che
lo teneva ormai occupato da alcune settimane.
Era
stata una quindicina di giorni prima che un uomo sposato da appena un anno si
era presentato con uno strano foglio dove erano disegnati tanti omini
stilizzati nelle posizioni più disparate, accompagnato da un’altrettanta strana
storia.
A
quanto diceva la moglie aveva ricevuto una cartolina dall’America, dove il
marito sapeva che la donna aveva vissuto durante la sua infanzia. Dopo averla letta l’aveva gettata nel fuoco e da quel momento si era
fatta più distante e silenziosa.
Erano
trascorsi solo pochi giorni e la donna aveva ricevuto un’altra cartolina, che
il marito aveva avuto l’accortezza di leggere prima di consegnargliela. Sul
retro erano scarabocchiati una serie di omini danzanti. La moglie si era fatta
ancora più cupa e aveva cominciato ad aver paura di uscire di
casa. A quel punto l’uomo, il cui nome era Harrison, si era fatto avanti.
Non c’era
stato bisogno dell’abilità del coinquilino perché Alice capisse di avere a che
fare con un codice cifrato. Quando il signor Harrison aveva
inoltrato loro una mail con un’altra serie di omini Alice si era messa al
lavoro per aiutare Sherlock nella cifratura.
Un
lavoro assegnatole da Mycroft le aveva però fatto perdere gran parte del
divertimento. Solo in quel suo giorno libero sperava di poter rimettersi in
pari e decodificare una volta per tutte il messaggio.
Ma
quando la mattina si svegliò ebbe la spiacevole
sorpresa di trovare un biglietto di Sherlock in cui le comunicava che Lestrade
aveva chiamato nella notte pregandolo di farsi raggiungere all’appartamento dei
coniugi Harrison.
Così
Alice rimase senza niente da fare. Poi, quando vide che non tornava, decise di
raggiungerlo.
Uscì di casa sperando di scoprire una volta per tutte il mistero
degli omini danzanti ma presto esso passò in secondo piano.
Decise
di non prendere il taxi per farsi una passeggiata e se ne pentì
amaramente. Aveva fatto appena due isolati quando una macchina nera le si affiancò. Sentì la rabbia montargli dentro: a quanto
pareva il destino le era contro. Con uno sbuffò infastidito
entrò nell’auto, le portiere si chiusero con uno schiocco e l’auto ripartì. Alice
rimase un attimo stranita. Nessun autista l’aveva mai
chiusa dentro. Le sue preoccupazioni crebbero quando l’auto non imboccò la
solita strada ma si diresse esattamente dalla parte
opposta. Filarono per le vie e Alice rimpianse di non aver memorizzato le
strade di Londra come Sherlock: ora avrebbe saputo esattamente
dove si trovavano.
L’auto
si fermò in un parcheggio interno e l’autista scese per aprirgli la porta.
Alice
aprì la bocca per chiedere dove fossero ma la pistola
che l’autista le puntò alla tempia la fece desistere. Con il cuore in gola si
lasciò sospingere su per una scala laterale e poi dentro a un ascensore. Si
ritrovarono su un pianerottolo del nono piano. L’uomo aprì una delle porte e le
fece cenno di entrare.
Quando
entrò nella stanza la porta si chiuse dietro di lei
con un tonfo e si ritrovò nell’ingresso di un piccolo appartamento che aveva
tutta l’aria di essere un monolocale.
Mosse
qualche passo in avanti, sorpassando la parete che le copriva la visuale sul
salotto. Era relativamente piccolo: un divano dall’aria malconcia era addossato
a una parete, di fronte si trovava un mobiletto con un televisore vecchio
apparentemente non funzionante. Le pareti erano spoglie: non c’erano né quadri
né orologi ad ornarle. Tutto in quella stanza sembrava
far pensare che l’appartamento non fosse abitato.
«Buongiorno...»
Alice
sobbalzò e si girò di scatto. Davanti a lei, appoggiato alla parete dell’ingresso,
stava un uomo di bell’aspetto, ben vestito. Sul volto aveva dipinto un ghigno
malevolo e squadrava la ragazza con interesse. Aveva un paio di occhi castano
chiaro e l’espressione che ricordava tanto quella di un bambino curioso.
Alice
lo fissò distante. «Chi è lei?»
L’uomo
stirò le labbra in un debole sorriso. «Qualcuno che ha interesse a conoscerti.»
Alice
si accigliò. «Uhm... Bene. Io non
sono affatto interessata, invece.» Sebbene si sentisse tranquilla
qualcosa nel suo stomaco si agitò. «Se vuole qualcosa
da Sherlock stia pur certo che non le sarò d’aiuto.» disse poi.
L’uomo
alzò un sopracciglio. «Sherlock?» chiese vagamente sorpreso.
Alice
cominciò a sentire il cuore batterle forte nel petto, mentre un vago
presentimento cominciava a farsi strada nella sua
mente. «Chi è lei?»
L’uomo
si staccò dalla parete e fece qualche passo verso di lei. «È buffo.»
Alice
indietreggiò senza volerlo. «Che cosa?»
«È
buffo...» ripeté l’uomo, «come io conosca te e come tu
conosca me, senza eppure esserci mai incontrati.»
Alice
ebbe un tuffo al cuore ma si impose di mantenere la
calma. «Io la conosco?»
L’uomo
la ignorò. «Sei giovane... Quanti anni hai?» chiese
invece.
«Abbastanza.»
rispose seccata.
L’uomo
sorrise divertito. «Hai un bel caratterino... Devo
ammettere che non è stato facile trovarti. Ma ho un po’ di contatti
dappertutto, è alla fine ci sono riuscito.»
Alice
sentì ogni speranza abbandonarla.
«Maybe.»
Deglutì
a fatica. Quel nome. Aveva sperato di non doverlo mai più sentire. Strinse i
pugni come a infondersi coraggio e respirò a fondo. «Con chi ho
l’onore di parlare?»
L’uomo
fece un passo avanti e le tese una mano. «James Moriarty, per gli amici Jim.»
Per un
attimo Alice sentì le gambe cedergli. Non strinse la sua mano, non mosse un
muscolo, mentre nella testa cominciavano a vorticarle mille pensieri.
Conosceva
quell’uomo. Oh, se lo conosceva... Nessuno come lei
poteva fare a meno di conoscerlo. Ritrovarselo davanti, sapere chi era, fu come
un secchio di acqua gelida in una giornata afosa d’estate.
Era
finita. La vita di Alice Moffat era finita.
«Che
cosa vuole da me?» fu l’unica cosa che le riuscì dire. Si stupì del flebile
sussurro che le era uscito, un sussurro debole, quasi
stanco.
Moriarty
ritrasse la mano divertito e sogghignò. «Ma mi sembra abbastanza ovvio... O no?»
Alice
sbuffò infastidita.
«Ho bisogno
di una donna dotata e senza scrupoli, sicura di sé e prudente. Mi hanno parlato
molto bene di te. So cosa sei in grado di fare e ho
bisogno del tuo aiuto.»
Alice
si passò la lingua tra le labbra. Ormai non aveva più scampo, e lo sapeva, ma
qualcosa le diceva che era meglio tenere la testa
alta. «E cosa le fa pensare che la aiuterò?»
Moriarty
fece un gesto d’impazienza con la mano. «Suvvia...
Accetta e basta. Risparmieremo una gran quantità di tempo.»
«Io non
ho fretta.»
Moriarty
la squadrò. «Te lo sto chiedendo con le buone... Se mi conosci, e mi conosci,
sai a che cosa posso arrivare.»
Alice
incrociò le braccia al petto. «Sì, lo so. Ma non vedo che cosa posso perderci.»
«Capisco...» Moriarty fece qualche passo avanti e indietro,
congiungendo le mani dietro la schiena. Poi si fermò. «Mettiamola
così. Se non farai ciò che ti chiedo, qualcuno potrebbe farsi veramente male.»
Alice
annuì. «Per esempio?»
L’uomo
tornò a osservarla. «Per esempio... Come hai detto che
si chiama?» Tirò fuori un cellulare dalla tasca interna della giacca e dopo
aver digitato qualcosa sullo schermo glielo mise davanti agli occhi.
Le
braccia della donna caddero deboli lungo i fianchi mentre il suo volto assumeva
un’espressione sconcertata.
Nel
piccolo schermo si vedeva chiaramente l’interno di una stanza che Alice
conosceva molto bene. Un uomo alto avvolto in un cappotto blu scuro camminava
avanti e indietro per la stanza, i riccioli castani che volteggiavano intorno
al viso pallido e affilato.
«Sherlock»
sussurrò poi con voce roca.
Sentì
Moriarty ridacchiare trionfante. «Come vedi ti ho
tenuto d’occhio per un po’. Questa è un’immagine in tempo reale. Lì vicino c’è
un mio carissimo amico che può sparargli un bel colpo in testa se tu non farai
come ti chiedo.»
Alice
sentì la rabbia montargli dentro. «E che cosa le fa pensare che mi importi qualcosa di lui? È soltanto il mio coinquilino...»
Moriarty
rise. «Vuoi prendermi in giro?»
Alice
si arrese e abbassò lo sguardo.
L’uomo
ritrasse il cellulare e se lo rimise in tasca. «Andiamo...
Cos’è quell’aria afflitta? Sarà divertente, te lo prometto. Ciò che farai in
mia compagnia non sarà minimamente paragonabile a quei piccoli lavoretti che ti
lasciano i servizi segreti.» Si infilò
le mani in tasca e la guardò con aria divertita.
Alice
sospirò rassegnata.
«Se
farai la brava bambina alla fine ti lascerò andare e
potrai tornare da questo tuo... Sherlock.»
«Non è
il mio Sherlock e non sono una
bambina.»
«Come
siamo suscettibili...» Allungò per la seconda volta
una mano verso di lei. «Allora siamo d’accordo? Io non
farò del male al tuo amico e tu farai
tutto ciò che ti chiedo.»
Alice la strinse con tutta la forza
che la rabbia riusciva ad infonderle. «Accetto.»
sibilò tra i denti.
***
Alice
varcò la porta del laboratorio come in sogno. Si fermò appena dopo la soglia e
fissò l’uomo seduto sullo sgabello chino sul microscopio.
Lì
tutto era iniziato e lì tutto sarebbe finito.
Sentì
una morsa stringerla all’altezza dello stomaco mentre faceva qualche passo
avanti.
«Il tizio dei
messaggi è stato preso. Era l’ex marito della signora Harrison, infuriato perché
si era risposata. Quei messaggi erano semplici minacce. Il signor Harrison non
ha fatto una bella fine, però... La signora si è salvata per un pelo.» Sherlock parlò con la sua voce distaccata senza alzare lo
sguardo dal proprio lavoro.
Come
sempre. Tutto era normale, come era sempre stato.
Alice
rimase a osservarlo senza muoversi.
Alla
fine Sherlock alzò lo sguardo, sorpreso che la donna non avesse ancora parlato
ma dopo aver notato l’espressione di alice socchiuse gli occhi e si alzò. «Cosa è successo?»
Alice
sorrise debolmente e abbassò lo sguardo, incapace di guardarlo negli occhi.
Quando lo rialzò aveva gli occhi lucidi. «Avevi ragione.»
disse poi, sorprendendosi della voce chiara e del tono sicuro con cui aveva
parlato. «Le emozioni sono una debolezza per l’uomo, e avere degli amici è
solo una grande seccatura.»
Sherlock
si bloccò, un velo di sorpresa sul volto.
Alice
sorrise e annuì tra sé e sé.
Sherlock
sembrava in difficoltà. «Che cosa è successo?» ripeté.
Alice
distolse ancora lo sguardo e si ficcò le mani nelle
tasche della giacca, stringendole poi a pugno. «È
successo ciò che tuo fratello aveva predetto. Avrei dovuto dargli ascolto.» Respirò a fondo.
Sherlock
parve capire e rimase completamente immobile.
«Sono
venuta a salutarti...» continuò Alice fissando un
punto impreciso del muro di fronte a sé.
Sorrise
nuovamente e si strinse nelle spalle. «Ma forse tutto sommato avrei anche
potuto evitarlo.» Tornò a guardare il detective che la
osservava impassibile. Si diede della stupida per aver anche solo sperato in
una sua reazione.
Non
seppe neanche dove trovò la forza per fare quello che
fece. Prese un altro respiro profondo e gli si avvicinò. Si alzò sulla punta
dei piedi per avere il suo viso alla sua altezza e gli diede un leggero bacio
sulla guancia, poi si staccò e tornò verso la porta. Lì si girò ancora una
volta a osservarlo. «Addio Sherlock.» mormorò, le parole che facevano fatica a
uscirle dalla gola.
Indugiò
solo qualche altro secondo, poi gli voltò definitivamente le spalle e se ne
andò.
Passarono
vari minuti prima che Sherlock riuscisse a riprendere il controllo di sé stesso, e ne passarono il doppio prima che riuscisse a
riacquistare una certa lucidità. Fissava ancora la porta che Alice si era
chiusa alle spalle. Per la prima volta in vita sua sentì la terra mancargli
sotto i piedi e avvertì il bisogno di sedersi.
Quando
Mycroft comparve sulla porta di Montague Street, quella
sera, lo trovò seduto nella poltrona a fissare il muro davanti a sé. A nulla
servirono le parole rabbiose di Mycroft, le urla e le accuse su ciò che era
successo.
Sherlock
quel giorno non sentì nient’altro al di fuori di quelle parole che continuavano
a rimbombargli nella testa: «Addio
Sherlock.»
Note:
Caso di
Sherlock ispirato al racconto di Arthur Conan Doyle “L’avventura
degli omini danzanti.”