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Autore: Gageta    11/10/2013    2 recensioni
«Dieci, nove…»
Trafalgar Square. Tower Bridge. History Museum. London Eye.
«…otto, sette…»
Un indizio. Tre esplosioni. Un unico, grande, enigma.
«…sei, cinque…»
Tre mesi dopo la sua falsa morte, Sherlock sarà costretto a tornare quando una nuova minaccia si affaccerà su Londra.
«…quattro, tre…»
E lei sarà lì per aiutarlo.
«…due, uno.»
O forse no?
Genere: Azione, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson , Mycroft Holmes , Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questo e il prossimo capitolo sono un po’ la quiete prima della tempesta xD

Buona lettura!

Gage.

 

 

 

HACKER

CAPITOLO XI

Passato – Un addio

 

 

Era una cupa mattina di fine novembre. Era il giorno libero di Alice e la sera prima aveva dato la sua disponibilità a Sherlock per aiutarlo nello strano caso che lo teneva ormai occupato da alcune settimane.

Era stata una quindicina di giorni prima che un uomo sposato da appena un anno si era presentato con uno strano foglio dove erano disegnati tanti omini stilizzati nelle posizioni più disparate, accompagnato da un’altrettanta strana storia.

A quanto diceva la moglie aveva ricevuto una cartolina dall’America, dove il marito sapeva che la donna aveva vissuto durante la sua infanzia. Dopo averla letta l’aveva gettata nel fuoco e da quel momento si era fatta più distante e silenziosa.

Erano trascorsi solo pochi giorni e la donna aveva ricevuto un’altra cartolina, che il marito aveva avuto l’accortezza di leggere prima di consegnargliela. Sul retro erano scarabocchiati una serie di omini danzanti. La moglie si era fatta ancora più cupa e aveva cominciato ad aver paura di uscire di casa. A quel punto l’uomo, il cui nome era Harrison, si era fatto avanti.

Non c’era stato bisogno dell’abilità del coinquilino perché Alice capisse di avere a che fare con un codice cifrato. Quando il signor Harrison aveva inoltrato loro una mail con un’altra serie di omini Alice si era messa al lavoro per aiutare Sherlock nella cifratura.

Un lavoro assegnatole da Mycroft le aveva però fatto perdere gran parte del divertimento. Solo in quel suo giorno libero sperava di poter rimettersi in pari e decodificare una volta per tutte il messaggio.

Ma quando la mattina si svegliò ebbe la spiacevole sorpresa di trovare un biglietto di Sherlock in cui le comunicava che Lestrade aveva chiamato nella notte pregandolo di farsi raggiungere all’appartamento dei coniugi Harrison.

Così Alice rimase senza niente da fare. Poi, quando vide che non tornava, decise di raggiungerlo.

Uscì di casa sperando di scoprire una volta per tutte il mistero degli omini danzanti ma presto esso passò in secondo piano.

Decise di non prendere il taxi per farsi una passeggiata e se ne pentì amaramente. Aveva fatto appena due isolati quando una macchina nera le si affiancò. Sentì la rabbia montargli dentro: a quanto pareva il destino le era contro. Con uno sbuffò infastidito entrò nell’auto, le portiere si chiusero con uno schiocco e l’auto ripartì. Alice rimase un attimo stranita. Nessun autista l’aveva mai chiusa dentro. Le sue preoccupazioni crebbero quando l’auto non imboccò la solita strada ma si diresse esattamente dalla parte opposta. Filarono per le vie e Alice rimpianse di non aver memorizzato le strade di Londra come Sherlock: ora avrebbe saputo esattamente dove si trovavano.

L’auto si fermò in un parcheggio interno e l’autista scese per aprirgli la porta.

Alice aprì la bocca per chiedere dove fossero ma la pistola che l’autista le puntò alla tempia la fece desistere. Con il cuore in gola si lasciò sospingere su per una scala laterale e poi dentro a un ascensore. Si ritrovarono su un pianerottolo del nono piano. L’uomo aprì una delle porte e le fece cenno di entrare.

Quando entrò nella stanza la porta si chiuse dietro di lei con un tonfo e si ritrovò nell’ingresso di un piccolo appartamento che aveva tutta l’aria di essere un monolocale.

Mosse qualche passo in avanti, sorpassando la parete che le copriva la visuale sul salotto. Era relativamente piccolo: un divano dall’aria malconcia era addossato a una parete, di fronte si trovava un mobiletto con un televisore vecchio apparentemente non funzionante. Le pareti erano spoglie: non c’erano né quadri né orologi ad ornarle. Tutto in quella stanza sembrava far pensare che l’appartamento non fosse abitato.

«Buongiorno...»

Alice sobbalzò e si girò di scatto. Davanti a lei, appoggiato alla parete dell’ingresso, stava un uomo di bell’aspetto, ben vestito. Sul volto aveva dipinto un ghigno malevolo e squadrava la ragazza con interesse. Aveva un paio di occhi castano chiaro e l’espressione che ricordava tanto quella di un bambino curioso.

Alice lo fissò distante. «Chi è lei?»

L’uomo stirò le labbra in un debole sorriso. «Qualcuno che ha interesse a conoscerti.»

Alice si accigliò. «Uhm... Bene. Io non sono affatto interessata, invece.» Sebbene si sentisse tranquilla qualcosa nel suo stomaco si agitò. «Se vuole qualcosa da Sherlock stia pur certo che non le sarò d’aiuto.» disse poi.

L’uomo alzò un sopracciglio. «Sherlock?» chiese vagamente sorpreso.

Alice cominciò a sentire il cuore batterle forte nel petto, mentre un vago presentimento cominciava a farsi strada nella sua mente. «Chi è lei?»

L’uomo si staccò dalla parete e fece qualche passo verso di lei. «È buffo.»

Alice indietreggiò senza volerlo. «Che cosa?»

«È buffo...» ripeté l’uomo, «come io conosca te e come tu conosca me, senza eppure esserci mai incontrati.»

Alice ebbe un tuffo al cuore ma si impose di mantenere la calma. «Io la conosco?»

L’uomo la ignorò. «Sei giovane... Quanti anni hai?» chiese invece.

«Abbastanza.» rispose seccata.

L’uomo sorrise divertito. «Hai un bel caratterino... Devo ammettere che non è stato facile trovarti. Ma ho un po’ di contatti dappertutto, è alla fine ci sono riuscito.»

Alice sentì ogni speranza abbandonarla.

«Maybe

Deglutì a fatica. Quel nome. Aveva sperato di non doverlo mai più sentire. Strinse i pugni come a infondersi coraggio e respirò a fondo. «Con chi ho l’onore di parlare?»

L’uomo fece un passo avanti e le tese una mano. «James Moriarty, per gli amici Jim.»

Per un attimo Alice sentì le gambe cedergli. Non strinse la sua mano, non mosse un muscolo, mentre nella testa cominciavano a vorticarle mille pensieri.

Conosceva quell’uomo. Oh, se lo conosceva... Nessuno come lei poteva fare a meno di conoscerlo. Ritrovarselo davanti, sapere chi era, fu come un secchio di acqua gelida in una giornata afosa d’estate.

Era finita. La vita di Alice Moffat era finita.

«Che cosa vuole da me?» fu l’unica cosa che le riuscì dire. Si stupì del flebile sussurro che le era uscito, un sussurro debole, quasi stanco.

Moriarty ritrasse la mano divertito e sogghignò. «Ma mi sembra abbastanza ovvio... O no?»

Alice sbuffò infastidita.

«Ho bisogno di una donna dotata e senza scrupoli, sicura di sé e prudente. Mi hanno parlato molto bene di te. So cosa sei in grado di fare e ho bisogno del tuo aiuto.»

Alice si passò la lingua tra le labbra. Ormai non aveva più scampo, e lo sapeva, ma qualcosa le diceva che era meglio tenere la testa alta. «E cosa le fa pensare che la aiuterò?»

Moriarty fece un gesto d’impazienza con la mano. «Suvvia... Accetta e basta. Risparmieremo una gran quantità di tempo.»

«Io non ho fretta.»

Moriarty la squadrò. «Te lo sto chiedendo con le buone... Se mi conosci, e mi conosci, sai a che cosa posso arrivare.»

Alice incrociò le braccia al petto. «Sì, lo so. Ma non vedo che cosa posso perderci.»

«Capisco...» Moriarty fece qualche passo avanti e indietro, congiungendo le mani dietro la schiena. Poi si fermò. «Mettiamola così. Se non farai ciò che ti chiedo, qualcuno potrebbe farsi veramente male.»

Alice annuì. «Per esempio?»

L’uomo tornò a osservarla. «Per esempio... Come hai detto che si chiama?» Tirò fuori un cellulare dalla tasca interna della giacca e dopo aver digitato qualcosa sullo schermo glielo mise davanti agli occhi.

Le braccia della donna caddero deboli lungo i fianchi mentre il suo volto assumeva un’espressione sconcertata.

Nel piccolo schermo si vedeva chiaramente l’interno di una stanza che Alice conosceva molto bene. Un uomo alto avvolto in un cappotto blu scuro camminava avanti e indietro per la stanza, i riccioli castani che volteggiavano intorno al viso pallido e affilato.

«Sherlock» sussurrò poi con voce roca.

Sentì Moriarty ridacchiare trionfante. «Come vedi ti ho tenuto d’occhio per un po’. Questa è un’immagine in tempo reale. Lì vicino c’è un mio carissimo amico che può sparargli un bel colpo in testa se tu non farai come ti chiedo.»

Alice sentì la rabbia montargli dentro. «E che cosa le fa pensare che mi importi qualcosa di lui? È soltanto il mio coinquilino...»

Moriarty rise. «Vuoi prendermi in giro?»

Alice si arrese e abbassò lo sguardo.

L’uomo ritrasse il cellulare e se lo rimise in tasca. «Andiamo... Cos’è quell’aria afflitta? Sarà divertente, te lo prometto. Ciò che farai in mia compagnia non sarà minimamente paragonabile a quei piccoli lavoretti che ti lasciano i servizi segreti.» Si infilò le mani in tasca e la guardò con aria divertita.

Alice sospirò rassegnata.

«Se farai la brava bambina alla fine ti lascerò andare e potrai tornare da questo tuo... Sherlock.»

«Non è il mio Sherlock e non sono una bambina.»

«Come siamo suscettibili...» Allungò per la seconda volta una mano verso di lei. «Allora siamo d’accordo? Io non farò del male al tuo amico e tu farai tutto ciò che ti chiedo.»

Alice la strinse con tutta la forza che la rabbia riusciva ad infonderle. «Accetto.» sibilò tra i denti.

 

***

 

Alice varcò la porta del laboratorio come in sogno. Si fermò appena dopo la soglia e fissò l’uomo seduto sullo sgabello chino sul microscopio.

Lì tutto era iniziato e lì tutto sarebbe finito.

Sentì una morsa stringerla all’altezza dello stomaco mentre faceva qualche passo avanti.

«Il tizio dei messaggi è stato preso. Era l’ex marito della signora Harrison, infuriato perché si era risposata. Quei messaggi erano semplici minacce. Il signor Harrison non ha fatto una bella fine, però... La signora si è salvata per un pelo.» Sherlock parlò con la sua voce distaccata senza alzare lo sguardo dal proprio lavoro.

Come sempre. Tutto era normale, come era sempre stato.

Alice rimase a osservarlo senza muoversi.

Alla fine Sherlock alzò lo sguardo, sorpreso che la donna non avesse ancora parlato ma dopo aver notato l’espressione di alice socchiuse gli occhi e si alzò. «Cosa è successo?»

Alice sorrise debolmente e abbassò lo sguardo, incapace di guardarlo negli occhi. Quando lo rialzò aveva gli occhi lucidi. «Avevi ragione.» disse poi, sorprendendosi della voce chiara e del tono sicuro con cui aveva parlato. «Le emozioni sono una debolezza per l’uomo, e avere degli amici è solo una grande seccatura.»

Sherlock si bloccò, un velo di sorpresa sul volto.

Alice sorrise e annuì tra sé e sé.

Sherlock sembrava in difficoltà. «Che cosa è successo?» ripeté.

Alice distolse ancora lo sguardo e si ficcò le mani nelle tasche della giacca, stringendole poi a pugno. «È successo ciò che tuo fratello aveva predetto. Avrei dovuto dargli ascolto.» Respirò a fondo.

Sherlock parve capire e rimase completamente immobile.

«Sono venuta a salutarti...» continuò Alice fissando un punto impreciso del muro di fronte a sé.

Sorrise nuovamente e si strinse nelle spalle. «Ma forse tutto sommato avrei anche potuto evitarlo.» Tornò a guardare il detective che la osservava impassibile. Si diede della stupida per aver anche solo sperato in una sua reazione.

Non seppe neanche dove trovò la forza per fare quello che fece. Prese un altro respiro profondo e gli si avvicinò. Si alzò sulla punta dei piedi per avere il suo viso alla sua altezza e gli diede un leggero bacio sulla guancia, poi si staccò e tornò verso la porta. Lì si girò ancora una volta a osservarlo. «Addio Sherlock.» mormorò, le parole che facevano fatica a uscirle dalla gola.

Indugiò solo qualche altro secondo, poi gli voltò definitivamente le spalle e se ne andò.

Passarono vari minuti prima che Sherlock riuscisse a riprendere il controllo di stesso, e ne passarono il doppio prima che riuscisse a riacquistare una certa lucidità. Fissava ancora la porta che Alice si era chiusa alle spalle. Per la prima volta in vita sua sentì la terra mancargli sotto i piedi e avvertì il bisogno di sedersi.

Quando Mycroft comparve sulla porta di Montague Street, quella sera, lo trovò seduto nella poltrona a fissare il muro davanti a sé. A nulla servirono le parole rabbiose di Mycroft, le urla e le accuse su ciò che era successo.

Sherlock quel giorno non sentì nient’altro al di fuori di quelle parole che continuavano a rimbombargli nella testa: «Addio Sherlock.»

 

 

 

Note:

Caso di Sherlock ispirato al racconto di Arthur Conan Doyle “L’avventura degli omini danzanti.”

   
 
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