Disclaimer: I personaggi non
mi appartengono, ma sono di proprietà.
La storia è scritta senza fini di lucro.
Oh, Tell
Me Now
Where Was
My Fault
Can you lie next to
her
And give her your heart, your heart
As well as your body?
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Quando apre gli occhi, Sharon dorme
ancora.
È girata su un fianco, i capelli
biondi dalla spalla nuda scivolano nel tempo di un sospiro a coprire il candido
guizzo delle vertebre. Le lenzuola le arrivano appena sotto il petto, tanto che
per Steve non è difficile cogliere la curva dolce, palpitante del seno mentre
si solleva a tirare frettolosamente il fiato. Forse sta sognando, forse è un
incubo, e l’ossigeno le arriva bollente ai polmoni, li stringe e li contrae e
il Capitano sa, è consapevole che se solo si sporgesse al di sopra del suo
viso, la vedrebbe serrare le palpebre, mordere le labbra, la punta dei denti
macchiata da un filo di sangue rappreso. Anche senza muoversi, è sicuro che le
dita di Sharon si stiano serrando al cuscino mentre incassa la testa nelle spalle,
un brivido secco, violento che le percorre il corpo addormentato in una scarica
bruciante come il fuoco.
Steve vorrebbe abbracciarla e
consolarla, ma la bocca è così piena di sabbia, così piena di metallo, che gli
riesce difficile anche solo portarsi la mano alla fronte: le tempie pulsano per
la fatica e l’insoddisfazione, il cuore trema per la colpa, claustrofobico,
ingabbiato in una situazione priva di qualsivoglia uscita.
Getta le gambe oltre il bordo del
letto, le coperte gemono nel fuggire l’incavo dei fianchi, i passi ovattati
sollevano sbuffi di polvere e pianti di assi claudicanti. Oltre la finestra,
Manhattan dorme un letargo fangoso. E’ la calma prima della tempesta, il vuoto,
l’assenza d’aria.
La città s’incorona di colori sbiaditi,
s’imbelletta di sangue secco. Si sta già preparando al lutto e alle lacrime –Nessuno
sa per una parte sola, o per entrambe.
L’appartamento dove ha deciso di
incontrare Sharon è vecchio e cadente, un po’ come lui, sostenuto per miracolo
da una scala antincendio sull’esterno e dalle mattonelle sbeccate, sudice.
Spoglio di arredamento se non per un letto bitorzoluto sormontato da un arco d’ottone,
un’abat-jour sghemba, pareti chiazzate di muffa nerastra e un tavolaccio che ha
certo visto tempi migliori. Ed è proprio a quell’ammasso insignificante di
legno tarlato che Steve si siede, sostenendosi la testa per qualche secondo
prima di afferrare un foglio spiegazzato da uno dei cassetti ed una penna mezza
scarica.
Il tratto è deciso, la grafia sicura.
L’inchiostro sbava e scolora in più
punti.
Tony,
Sai
bene che non dovrei scriverti.
Questa
pagina dovrebbe rimanere bianca. Riempirsi di invisibili non detti e rimanere
chiusa tra le schegge di una dimenticata scrivania di una stanza dimenticata.
Dovrebbe essere mangiata dai ratti, squarciata dal tempo, dilaniata dai rimpianti.
Sai
bene che non dovrei cercare alcun contatto con te, né chiedermi dove sei, ora,
o tantomeno pensare di poter tentare ancora una volta di parlarti. Farti
ragionare. Convincerti che tutto questo è sbagliato, che tutto questo è un errore.
Sai
bene che il mio più grande errore sarebbe proprio quello di mantenere questi
propositi.
Sharon
sta dormendo, di là. Ho passato la notte con lei e le sue mani era gelide sull’addome,
le dita affondavano nella carne come pallottole. Mi hai sempre detto che, come
inventore, tu sei sempre stato in grado di prevedere il futuro. Allora dimmi, è
forse un presagio? Perché se è così, anche il cielo lo è, grigio e freddo come
il calcio di una pistola, il sole sanguigno, l’aria che sa di terra e polvere
nel mio respiro.
Forse
non so prevedere il futuro, ma sono un soldato. Ho visto la Guerra e conosco la morte.
Fermati,
ti prego.
Mi hai
chiesto cosa tu dovessi fare per arrestarla, hai pianto implorando una soluzione che hai detto
esserti impossibile. Hai coinvolto il dottor Richards, messo in mezzo Hank, pur
sapendo che si tratta di te.
Di te
e me, come singoli, come rappresentati di molti.
Tu mi
hai teso la mano e io ti ci ho piazzato un electron-scrambler.
Io ti
ho teso la mano e tu l’hai rifiutata.
Scambiatevi un gesto di pace.
Che
pace potremmo mai sperare per noi, se questi mani già scivolano via l’una dall’altra,
macchiate, vischiose di troppo sangue?
Ricordi?
Se avessi avuto bisogno di qualcosa, sempre,
speravo sapessi che avresti potuto contare su di me. Lo sapevi. Oh. Lo sapevi.
Chissà, chissà se mai te ne sei approfittato? Non lo so. Credevo di averti
compreso, seppur a mio modo, ma sono ormai convinto che il mio modo sia inapplicabile alla tua persona.
Ho
sempre pensato che non cercassi legami. Che, al contrario, cercassi me.
Infastidendomi
per attirare la mia attenzione, come un bambino, e come un bambino tirandomi la
manica, strillando il mio nome, battendo i pugni e pestando i piedi fino a
quando non saresti stato sicuro di avere i miei occhi puntati nei tuoi. Desiderando
la mia attenzione, ma negando qualsiasi forma di affetto sarei mai stato in
grado di darti.
Strabiliante
come un enigma.
Come
un enigma, altrettanto complicato e forse irrisolvibile.
Dovrei…Vorrei
poterti ignorare. Pensare solo a questa folle guerra. Non a te. A Bill. Non a
noi.
Ma non
posso dimenticare.
Non
riesco.
Quando
mi sono risvegliato in quest’epoca, non avevo nessuno. Niente. Tu mi hai dato
uno scopo, qualcosa cui appartenere.
Tu mi
hai dato una casa.
Mi hai
dato qualcosa…Qualcosa cui non riesco a regalare un nome, né una definizione
precisa, qualcosa che ingloba e trascende, un termine senza termine alcuno, che
la voce non riesce a modulare, che la bocca non ha il coraggio di pronunciare.
Mi ha
chiesto cosa dovessi fare per arrestare tutto questo.
Ora,
ora sento che è il mio turno di porti di una domanda.
Dimmi.
Dimmi ora, dov’ è la mia colpa…
Tony abbassa la lettera e alza gli
occhi.
Il sole, fuori, sta tramontando in
una spuma di lacrime di sangue, il cielo piange gocce dense, iridescenti, viola
e cremisi. Ogni tanto una stella sbatte pigra le ciglia filamentose, allungando
le braccia effimere oltre la linea dell’orizzonte. Le grandi vetrate dell’appartamento
ingoiano in lampi bianco-vermigli l’esplodere crepuscolare della notte
imminente, le luci lentamente aumentano di tono, brillano i contorni del
mobilio ricercato, scintilla il bicchiere vuoto, canta languido la propria
prigionia il liquore ancora imbottigliato.
Il tavolino di cristallo riflette il
viso apatico e lo sguardo incolore, e Stark deve farsi quasi violenza per
staccare da lì la propria attenzione e dedicarla incondizionatamente al soldato
ancora ritto accanto al divano. Ventidue anni, giovane. A Riker’s Island gli è
stata affidata la custodia di Capitan America.
Capitan America gli ha affidato la
custodia di quella lettera consunta, imbruttita di polvere e inchiostro
pallido.
Sembra magro e rachitico,
infinitesimale pigiato com’è nella grande stanza, soffocante di spazio
illimitato, ingolfato di ricordi pesanti, invisibili, impregnati di lutto.
È sempre stata prerogativa di Steve
fidarsi di un aspetto miserevole, cogliendone il coraggio celato in occhi
inconsapevoli. Se ha trovato del bene in un ubriacone senza speranza come lui,
con quale coraggio può permettersi di diffidare di quel ragazzetto allampanato?
Così terribilmente distrutto, così terribilmente umano?
«Che ci fai ancora qui?» Tony
assottiglia le palpebre e accavalla le gambe, come se davvero non gli
importasse più di Steve Rogers, ora che il suo Life Model Decoy è stato sepolto
con tutti gli onori ad Arlington e il suo vero corpo abbandonato tra le acque
dell’Artico, custodito dagli occhi sempre vigili e attenti di Namor.
Il ragazzo tentenna appena, sposta a
disagio il peso da una gamba all’altra, la lingua scava nell’incavo molle delle
guance.
«Lui…Il Capitano» specifica, e Stark non può che essergli silenziosamente
grato per il rispetto che troppi, al penitenziario, hanno negato al defunto
Rogers –Come se quell’artificioso disprezzo fosse stato il sicuro lasciapassare
per un’elevazione di grado, poi! Che idiozia. «Mi ha detto che...» deglutì, s’umettò
le labbra «Avrebbe voluto una sua risposta, signore, una volta finito il
processo.»
«Una risposta?» Tony sospira forte,
sospira a lungo, strofina tra i polpastrelli tremuli la grezza filigrana della
carta ingiallita «La mia risposta è…» chiude gli occhi e si sente vecchio.
Si sente solo.
Si sente desolato.
Inghiottito dal mondo che si sta inesorabilmente
spegnendo oltre la finestra e che presto, appena giungerà l’alba, dovrà
sgomitare, farsi strada in un rovescio grottesco di cadaveri e sangue e scelte
sbagliate.
«Da nessuna parte.
Eravamo entrambi colpevoli, ma l’abbiamo scoperto...ammesso quando ormai era già troppo tardi.»
Dimmi.
Dimmi ora, dov’è la mia colpa nell’amarti con tutto il mio cuore?
Steve
Rogers.
Oh tell me now, where
was my fault
In loving you with my whole heart?
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Note Finali.
Tu mi
hai dato una casa. ( Rubicone
)