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Autore: unbound    12/10/2013    0 recensioni
Agosto 1991. Blaine Anderson è una matricola al liceo McKinley, e non ha alte aspettative sul suo primo giorno di scuola. Non è un ragazzo diverso dagli altri, ma ha una grande passione: la musica, e proprio in quel periodo, durante il quale il Rock Alternativo si fa spazio tra gli altri generi musicali, Blaine è a dir poco entusiasta di poter arricchire la sua collezione di audiocassette. E, grazie alla musica, non sarà l'unica cosa che arricchirà.
Teacher!Kurt/Student!Blaine - E sì, mi sono molto ispirata a "The Perks Of Being A Wallflower" per la trama e ambientazione.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Blaine Anderson, Kurt Hummel | Coppie: Blaine/Kurt
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Le lezioni del professor Hummel non furono le stesse da quella sera all’osservatorio. O almeno per me, dato che nessuno aveva notato la differenza.
Lui era abituato a trattare i miei compagni con un certo distacco, contornato da un immancabile sarcasmo, ma non me. In quei primi mesi di scuola, avevo trovato in lui un punto di riferimento ed era piacevole scambiare quattro chiacchiere dopo la lezione, anche se mi portava sempre a ritardare alla successiva, ma, dopo quella sera, non era più successo. Speravo di essere chiamato prima di uscire dall’aula, camminavo persino lentamente, ma non succedeva più.
Natale era alle porte e mi sentivo come in dovere di ricambiare tutto ciò che aveva fatto per me. Non solo le chiacchierate di tanto in tanto, ma aveva arricchito la mia persona, era come se avessi vissuto trent’ anni in quattro mesi. Mentre tutti i miei coetanei lo guardavano come lo stronzo di turno, o come il ‘bello e dannato della situazione’, io lo vedevo semplicemente come qualcuno che mi aveva aperto gli occhi.
 
E’ sicuramente una cosa stupida ma era quel tipo di persona della quale mi sarebbe piaciuto essere amico. Era sempre un mio docente e questo era impossibile, ma c’era un filo conduttore tra di noi, qualcosa che mi avrebbe spinto ad aprire la sua dura corazza e scoprire cosa c’era dentro.
Il pomeriggio passava velocemente, le lancette del mio orologio sembravano correre, ed io lo stavo passando fissando il tetto e facendomi largo tra i pensieri che vagavano da un punto all’altro, ma che avevano come argomento portante lui, quella figura misteriosa. All’improvviso balzai in piedi, presi carta e penna e tradussi tutto ciò su cui stavo riflettendo da ore in parole, una dopo l’altra, e, dopo aver riletto e riletto infinite volte, stilai una lista di canzoni, canzoni che poi avrei registrato in un’audiocassetta da dargli. Sì, era decisamente una buona idea. Le parole non sarebbero bastate, ed io riuscivo a parlare meglio attraverso la musica. Era un dato di fatto.
Molte volte scrivevo canzoni decisamente idiote a mia madre per comunicarle i miei brutti voti, ed erano qualcosa tipo “I know you are pretty/ I know you are cool/ I got a D in math/ and I love you”. Ma è imbarazzante, forse non dovrei vantarmene.
 
 
La lezione stava per finire ed io fui vittima un lungo, interminabile brivido. Avrebbe preso il tutto come, che so, una voglia di raccomandazione? Un gesto avventato? Qualcosa d’insensato? Avrebbe capito il vero punto della situazione? Non era più lo stesso. Ed era qualcosa che avevo notato solo io, e proprio per questo ero io a dover riportare tutto alla normalità.
In quella scuola non avevo stretto tante amicizie, in realtà c’era solo Rachel e qualche ragazza che mi salutava sorridendomi la mattina ma nulla di più. Non potevo permettermi di perdere la seconda persona che mi rivolgeva la parola, senza chiedermi se avessi mai chiesto aiuto per la mia dipendenza da gel.
Improvvisamente la campanella suonò, e, mentre i miei compagni balzarono veloci in piedi, lanciandosi frettolosamente fuori dall’aula, io rimasi seduto. Il professore quasi non si accorse di me e non mi dispiaceva neanche; guardarlo aggiustare ordinatamente carte e registri, con un paio di occhiali da vista sul naso, era quasi rilassante.
Dopo una manciata di minuti mi feci forza, afferrai la cassetta e la lettera dalla tasca esterna della mia cartella e, avvicinandomi a lui, le poggiai lentamente sulla cattedra.
 
Qualcosa che non va, Anderson?” chiese lui fissando prima me e poi ciò che avevo appena posato e, subito dopo, aggrottando confuso le sopracciglia.
“Sono per lei” mi sforzai di sorridere e indietreggiai, appoggiandomi su un banco, impaziente. Mi fissò per un po’ come se fosse estremamente seccato, e per un attimo ebbi l’impressione di aver solo peggiorato le cose, ma non riuscii a muovermi, alzarmi e andare via, non ci riuscì, perché non volevo perdermi niente della sua reazione.
“Seriamente?” il suo sguardo era severo, aveva l’aspetto di qualcuno che non aveva la benché minima intenzione di accettare quei doni. Anzi, neanche di degnarli di uno sguardo. Ed io avevo speso così tanto tempo nel cercare le parole giuste per spiegargli ciò che mi turbava.
Non esitai, presi la lettera e iniziai a leggerla.
“Professor Hummel, salve. Può sembrare un gesto stupido, ma non è così, lo giuro. Ho scritto queste poche parole soltanto per aiutarla, anche se non sono nessuno per farlo, ma sono l’unico che ha notato che c’è qualcosa che non quadra e..”
 
Basta.” Mi fermò, non mi fece neanche finire la frase e mi fermò.
 
Come ha detto?” finsi di non capire, ma in realtà non volevo. La scena era molto lontana da come me l’ero immaginata.
“Farai tardi a pranzo, e Miss Berry non te lo perdonerà. Non perdere tempo qui”
“Rachel si troverà qualcuno con cui stare, ma io voglio davvero parlarle” la voce uscì come un sussurro per il troppo imbarazzo, ma era più grande la voglia di capire. Probabilmente, se gli altri l’avessero saputo, mi avrebbero preso in giro per i prossimi venti anni, ma a me non importava.
Il silenzio calò ancora una volta, lentamente.
I suoi occhi erano vitrei e quasi imploranti di non continuare a leggere, e questo mi confuse davvero le idee.
Forse avrei dovuto tagliare la corda.
Avrei decisamente dovuto.
“Mi scusi se le ho fatto perdere tempo.” Affermai, non riuscendo più a reggere il suo sguardo e la sua completa noncuranza. Feci come per andarmene, poggiando la lettera ancora una volta accanto all’audiocassetta e avvicinandomi alla porta, ma prima di poter mettere la mano sulla maniglia e spalancarla, lasciando la stanza, il professor Hummel mi fermò, con l’unica frase che non mi sarei mai aspettato di sentire in quella circostanza.
 
“Sono gay.”
 
Abbassai lentamente la mano e mi girai.
Lui era completamente immobile e mi fissava, come se mi avesse fatto una domanda, durante un’interrogazione: cosa avrei dovuto dire? Qual era la risposta giusta? Nessuno avrebbe suggerito niente, e il silenzio sarebbe stato la peggior via di autolesionismo.
“O finocchio, come voi ragazzi preferite chiamarmi.”
“Non io.” Quasi lo interruppi prima che finisse la frase.
Era così disperata la voglia di mostrare che ero diverso dagli altri, e che dopo quella confessione non avrei cambiato idea su di lui.
“E non cambierei niente di quello che ho scritto, né delle canzoni che le ho riportato su.. quella..” puntai la cassetta e lui la avvicinò, sorridendo. “.. ora come ora.”
“Avevo capito che eri intelligente, ma non così” ridacchiò, ed io gli sorrisi.
Sentivo i nervi rilassarsi come se avessi appena superato a pieni voti l’esame più importante della mia vita. Lui sembrava improvvisamente tranquillo, come se a un tratto avesse tolto la maschera di professore stronzo e mi avesse mostrato il suo vero viso, la sua vera identità. Iniziò a leggere le canzoni che, frettolosamente, avevo scritto sul retro dell’audiocassetta, con i numeri delle tracce e la durata.
“”Blackbird” e “I Want To Hold Your Hand”? Sapevo che eri un tipo da Beatles, ho un certo occhio per queste cose.”
“Non posso negarlo, mi ha scoperto” sorrisi. L’aria era notevolmente meno pesante.
“Beh, Bowie, Fleetwood Mac, Queen... la adoro già. Grazie.” Continuò a sorridermi e la conservò in una tasca dei suoi jeans.
Io cercai di ricambiare sempre di più il sorriso ma, dopo un po’, gli avvicinai lentamente la lettera.
“Vorrei che la leggesse, ma adesso devo scappare... sa, le altre lezioni... a domani, professore.
Abbassai il capo e mi avvicinai alla porta, lasciando l’aula in fretta.
In realtà, se l’avesse letta davanti a me, sarei morto d’imbarazzo. Letteralmente. Non so con quale coraggio poco prima volessi leggerla addirittura io, e ad alta voce, ma sicuramente ero posseduto dalla mia parte eroica che, senza neanche troppi ripensamenti, se l’era già data a gambe.
 
Le sue parole mi rimbombarono in mente tutto il pomeriggio, e la sera.
Era strano. Non avevo mai incontrato qualcuno di quel... genere, una persona così grandiosa.
 
Mia madre e mio fratello definivano gli omosessuali “stupidi”, “ignoranti”, “noncuranti”, “peccatori”, ma, per me, lui non era niente, niente di tutto questo. Ero cresciuto con la convinzione che, se avessi mai visto un finocchio, sarei dovuto stargli alla larga, ma adesso sembrava tutto così chiaro e diverso. Come se l’intera infanzia mi si fosse rivelata falsa, come se qualcuno avesse messo del collirio nei miei occhi.
Lui non era stupido, io lo ero.
Venivano visti da tutta la famiglia un po’ come gli anelli deboli della società, persone che non facevano altro che rovinare le famiglie altrui senza neanche preoccuparsene. Ma non avevano conosciuto il professor Hummel. Lui era così intelligente e sensazionale, avrebbe potuto scrivere un’enciclopedia in una settimana, perché avrei dovuto giudicarlo solo per chi prova attrazione fisica, con delle doti così? La cosa che mi faceva più incazzare è che probabilmente l’avevano fatto in molti, ed era per questo che era così distaccato con noi.
Avevo quell’improponibile voglia di farlo conoscere a tutti, di mostrarlo in giro come se fosse un trofeo d’inestimabile valore, di dimostrare che si può essere delle persone grandiose senza soffermarsi troppo sui gusti sessuali.
Quella sera, a cena, mi convinsi di poter cambiare le cose.
Al telegiornale mandavano un servizio sulla seconda guerra mondiale e, a un tratto, mia madre esordì con “Poveri, gli ebrei... Non hanno mai fatto nulla di male e hanno dovuto sopportare tutto.. questo” e sembrava anche abbastanza dispiaciuta.
 
“Anche i gay non hanno mai fatto niente di male, e ogni giorno continuano semplicemente a sopportare.” Dissi io, poggiando lentamente la forchetta sul tavolo e guardando la donna di fronte a me. Sembrò quasi basita e delusa da quello che avevo detto, ma soprattutto incazzata. Mio padre quasi si tappava le orecchie, mio fratello mi lanciò un’occhiataccia da –rimangiati quello che hai appena detto-, ma no, non lo feci.
“Blaine, hai bevuto? Vuoi metterti a letto?” mi chiese preoccupata, dopo un paio di minuti, accarezzandomi la spalla. La cosa più triste è che era davvero seria. Le scostai con violenza la mano e mi alzai in piedi, spegnendo la televisione e guardando i presenti uno per uno.
“Pensavo di avere dei genitori abbastanza intelligenti da superare questi pregiudizi del cazzo.”
“Oh no no, non mi farò dare dell’idiota da un sedicenne che non fa altro che piagnucolare e spendere inutili soldi in inutili robe musicali” urlò mio padre di risposta, alzandosi rabbioso.
“Avete mai visto un uomo gay? Avete mai conosciuto un uomo gay? Come fate ad essere così sicuri che siano... così?! Non ho neanche il coraggio di appellarli con tutti quegli stupidi insulti con i quali siete soliti chiamarli.”
“Blaine, finiscila! Fila a letto.” Sussurrò mia madre, quasi in lacrime.
Ero così pieno di rabbia, così estremamente infastidito dal loro comportamento che l’unica cosa che avrei voluto fare era lasciare quella casa, all’istante.
Ma neanche persi tempo, perché furono loro ad invitarmi ad uscire.
“Sei finocchio eh?! Sei finocchio! Lo sapevo, lo sapevo...” mio padre iniziò a girare nervosamente per la stanza e mia madre scoppiò in un pianto disperato.
Mio fratello, invece, guardava con occhi spalancati tutto ciò che stava succedendo, incredulo, senza conferire parola. Mi sentivo come un solo soldato spartano contro l’enorme esercito dei Persiani.
“E anche se lo fossi? Se un giorno m’innamorassi di un uo-“
“Non dirlo neanche! Non scherzare su queste cose, Blaine Devon Anderson.”
“Ho la faccia di qualcuno che sta attualmente scherzando?!”
“Esci da questa casa.”
 
Fissai l’indice di mio padre puntare la porta d’uscita e dopo i suoi occhi, pieni di rabbia, rossi. Forse sì, sarebbe stato meglio.
Lasciare quella casa, lasciare quelle persone che non avrebbero potuto accettare neanche il proprio figlio con degli ideali diversi. E se mi fossi davvero innamorato di un ragazzo? Avrebbero rifiutato persino la mia esistenza?
Presi il mio cappotto con rabbia e forte dolore, con la fissa convinzione che la mia stessa famiglia preferisse degli stupidi prototipi a me.
Non appena varcai quella porta, cercai di soffocare l’immediato senso di solitudine con ciò che avevo appena sentito.
Feci due passi e mi abbandonai su un marciapiede vicino il supermercato, a un isolato da casa mia; mentre il freddo vento di Dicembre mi accarezzava il viso come una nonna premurosa, immaginai di vivere in un’altra epoca. Nel futuro. Quanti anni sarebbero passati? Dieci, venti? Sarebbe mai arrivato un tempo durante il quale le persone come il professore avrebbero potuto amare, o, addirittura, sposare le loro anime gemelle senza essere trattati come carne da macello?
 
Dopo una buona mezz’ora, sentii una mano calda accarezzarmi i capelli, e sobbalzai, alzando lo sguardo.
“Blaine, cosa ci fai qui a quest’ora?”
Rachel, avvolta in un cappotto rosso, mi guardò preoccupata da dietro una sciarpa che le copriva praticamente l’intero viso, rosa confetto.
“Hey ciao... Problemi a casa. Ero qui per schiarirmi le idee.”
“Sto tornando a casa dalla scuola di danza. Vieni con me? Ti faccio una bella cioccolata, e mi spieghi tutto. E no, non puoi resistere ad una cioccolata. Lo sai anche tu”
   
 
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