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Autore: Puerto Rican Jane    13/10/2013    5 recensioni
Giuro che guiderei tutta la notte solo per comprarti un paio di scarpe.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Apro gli occhi all’improvviso. Me li strofino, mi guardo attorno cercando di distinguere qualche figura nell’oscurità, ma questa è troppo fitta. Allungo il braccio alla mia destra, cerco a tentoni l’interruttore della lampada. Finalmente lo trovo e accendo la luce. Luce, benedetta luce, se solo potessi essere anche dentro di me. Do un rapido sguardo alla mia stanza: è in disordine, come al solito: vestiti ovunque, calzini nei posti più improbabili (ne noto uno sul piatto del giradischi), libri e fogli sparsi. Ma manca qualcosa, in questa confusione. Qualcosa di essenziale. Il mio occhio cade sul mio letto vuoto, e poi ricordo: lei. Ecco cosa manca. Ecco perché le mie guance sono umide e i miei occhi sono particolarmente rossi. Devo essermi addormentato piangendo. Che razza di femminuccia, solo le donne particolarmente emotive si addormentano in lacrime. Ma a quanto pare no. Io ne sono la prova. Lo ammetto, ho pianto per una donna. Se Steve mi vedesse in questo momento penso si farebbe molte risate. Ma ora ridere è l’ultima cosa che mi sento di fare. Ho perso il sorriso. Da quando ho perso lei, ho perso anche il mio coraggio. Non capisco se desidero riaverla o non averla mai incontrata. Ma che domande faccio, certo che desidero riaverla. Era un motivo per lottare, per svegliarmi ogni giorno, per dare il massimo in ogni cosa che facevo: sapere che lei fosse soddisfatta di me, che fosse fiera di me, mi compiaceva particolarmente. Mi faceva sentire l’uomo migliore della terra. Ma ora… ora credo che non ci sia più niente da fare. Quando non hai niente, non hai niente da perdere. Però io non voglio questo. Vorrei solo che dio mi mandasse di nuovo qualcosa, qualcosa per cui vivere, qualcosa che avrei paura di perdere. Qualcosa per cui soffrire. Ora che ci penso, ce l’ho già qualcosa per cui soffrire. E se scavo dentro di me, se sono sincero con me stesso, mi rendo conto che, alla fine, mi piace questo dolore, questa sofferenza. E’ una cosa così amara, ma che lascia un retrogusto talmente dolce, sebbene per poco, che una parte di me continua a desiderarla. Continua perciò a farmi pensare a lei, mi costringe a riguardare le nostre foto, ad annusare i suoi vestiti che ho segretamente nascosto nell’armadio prima che se ne andasse, ad accarezzare quella parte di letto dove una volta lei si stendeva, dormiva… quella parte di letto dove facevamo l’amore. In certi momenti credo di essere l’unico idiota a questo mondo a comportarmi in questo modo, per una donna. A volte, quando guardo le foto di noi abbracciati, mi sento in colpa: mi sembra di guardare i volti di qualcun altro, la storia di qualcun altro, di essermi intromesso in qualcosa che non è mio. Sono un caso disperato. Mi alzo lentamente dal letto, e mi dirigo alla finestra. Apro il balcone e caccio la testa fuori. L’aria mi sferza il viso, mi sembrano tante lame affilate. Un po’ come quelle che mi sento nel cuore.
“Molto romantico, Bruce: ‘lame che mi trapassano il cuore’. Che patetico.”
Ci mancava solo questa deliziosa vocina che mi ricorda quanto io sia penoso: un uomo di trent’anni, alle tre di notte, affacciato alla finestra a guardare la luna, con una piaga nel cuore. Queste scene le ho viste solo nei film, ma mai immaginandomi che un giorno io ne sarei stato il protagonista.
Vedo parcheggiata, nel garage, la mia Cadillac grigia. Sebbene sia un catorcio polveroso come non mai, ha una forza, una potenza incredibile. E questa forza si sta manifestando in questo momento. Mi sta chiamando, lo sento. Mi sta ammaliando con la sua voce attraente, mi sta dicendo che ha voglia di fare un giro. In questi momenti credo di amarla.
-Arrivo, piccola.
“L’uomo che sussurrava alle Cadillac”, ecco come dovrebbero chiamarmi, invece di “Boss”. Mi rendo conto che è da tre giorni che non parlo con nessuno, e le prime due parole che ho pronunciato, le ho riferite ad un’auto. Però.
Scendo le scale velocemente, indosso un giubbotto di pelle, ed esco di casa. Mi sento troppo figo ad uscire a quest’ora solo per fare un giro in auto.
Do una pacchetta sul cofano a questo gioiellino, apro lo sportello ed entro. Appoggio le mani sul volante, lo accarezzo dolcemente, faccio scivolare le mani lungo il manubrio più volte. Quindi mi decido ad infilare la chiave e a fare retro marcia. Automaticamente si accende lo stereo: Cant’t help falling in love. Non è possibile. Il mondo è contro di me. Seriamente. Con tutte le canzoni che ci sono in questo mondo, proprio questa. Proprio adesso. La mia mano si allunga automaticamente per cambiare traccia, ma una parte di me, quella parte di me, mi convince, con lusinghe che non so rifiutare, ad ascoltarla per intero, e quindi ad annegare nei ricordi. Intanto con movimenti meccanici continuo a guidare, percorrendo le strade di questa città, che mi sembra più triste che mai. La mia mente torna indietro nel tempo, mi ricorda quando ancora io e lei stavamo assieme, quando ancora uscivamo la sera. Una di quelle tante sere eravamo andati in un locale con alcuni amici. In quel posto c’era una bella pista da ballo. La band che si stava esibendo suonava fortissimo, avevo le orecchie che fischiavano (e se lo dico io significa che è vero). Lei mi stava urlando qualcosa all’orecchio, ma io non riuscivo a sentire niente. Senza aspettare una mia risposta, che comunque non sarebbe arrivata, mi aveva tolto la giacca che indossavo, mi aveva preso la mano e mi aveva condotto sulla pista. Ricordo come lei mi si accoccolava sul petto, come ballava lentamente, ricordo il modo in cui io la stringevo forte, come se ci fossimo solo noi, ricordo con che passione le ho promesso che non l’avrei mai lasciata andare, proprio mentre la canzone volgeva al termine. Quella canzone era “Can’t help falling in love”. Quella fu una delle più belle sere della mia vita. Ricordarla in questo momento, in questo modo, mi lascia un grandissimo vuoto al cuore. Il mio sguardo si perde lungo la strada, mentre penso a lei. Cosa starà facendo in questo momento? Ma che domande, starà dormendo. Qualsiasi persona normale, a meno che non si chiami Bruce Springsteen, dorme alle tre di notte. O forse è con un altro uomo. No, non posso sopportare questo pensiero. Non può essere con qualcun altro. Ma ora che ci penso, ormai è da un mese che se n’è andata. In effetti avrebbe tutto il diritto di ricominciare una nuova vita. Naturalmente non secondo ciò che penso io.
Ah, quanto mi manca. Vorrei averla con me in questo momento. Poterla ammirare, poterla toccare, sentire il suo profumo, ascoltare la sua voce. Mi manca tutto di lei. Tutto tutto. 
Arrivo ad un semaforo. Che strano, è rosso. Aspetto immobile, ma con la mente che lavora instancabilmente. Voglio vederla. E voglio vederla ora. Chi se ne importa di che effetti avrà questo incontro, l’importante è il momento attuale. Sospiro, maledicendo me stesso e la mia mania di affezionarmi troppo alle persone. Quindi giro a sinistra, la direzione contraria a quella che avevo programmato di seguire. Quella che mi porterà da lei. Mi sembra di tornare indietro nel tempo, a quando ci eravamo appena conosciuti, quando facevo questa strada praticamente ogni sera, prima che lei venisse a vivere con me, per andare insieme a qualche locale o, semplicemente, guardare qualche bel film assieme, in tutta pace. Mancano cento metri. Cosa dirò quando la vedrò? Perché prima o poi lei dovrà uscire. Ottanta metri. Forse non dovrei dire niente, stare zitto, lasciare che siano le azioni a parlare, i gesti. Una canzone dei Led Zeppelin dice “speak to me only with your eyes”: forse dovrei prestarle ascolto. Sessanta metri. E se fosse con qualcun altro? Lo prendo a pugni? No, no, queste cose non si fanno a trent’anni suonati. Cosa gli dico? “Molto piacere grandissimo stronzo, io sono Bruce Springsteen, ma forse mi conosci già, sono una rockstar di fama mondiale e sono anche l’ex della qui presente donna. Levati dalle scatole”. No, non va bene. Quaranta metri. No, non ce la posso fare. La mia psiche non può reggere un incontro con lei. Venti metri. Non posso arrendermi. Non mi mangia mica. Al massimo sono io che la mangio. Ci siamo. Eccoci arrivati. Parcheggio di fronte al cancello. Spengo l’auto. Fisso stregato quell’edificio: tutte le luci sono spente, naturalmente. Lo sguardo va automaticamente alla finestra della sua stanza, la prima da destra: anche quella è spenta. Un tempo non avrei esitato a fiondarmi dentro quella casa, con la sicurezza che non sarei mai stato rifiutato. Ora invece so che lei, se mi vedesse, potrebbe anche prendermi a borsettate in testa. E so anche, per esperienza, che le sue borse sono molto pesanti.
Guardo l’orologio. Le cinque, ho guidato per due ore. Mi sono parsi due minuti. Non mi sembra il caso di piombare a casa sua alle cinque di mattina, e nemmeno di lanciare sassolini alla sua finestra. Aspetterò che si svegli.
 
Sono le otto. Si è appena svegliata. Le darò ancora quarantacinque minuti per prepararsi, poi mi farò avanti. O forse questa è solo una scusa per rimandare quel fatidico momento. Le luci accese nelle sue stanze mi danno nuove speranza; avere la certezza che lei si trova lì dentro, a dieci metri da me, mi conforta enormemente.
E’ il momento. Ora o mai più. In realtà il mio obiettivo non è più solo vederla. Ma è riaverla. Farla di nuovo mia. In un modo o nell’altro. Mi fermo davanti alla sua porta. Il mio dito è a un centimetro dal campanello. So che probabilmente me ne pentirò. Suono. Quel rintocco potrebbe essere una delle trombe del paradiso come una chiamata per l’inferno. Passi. Passi leggeri: sono i suoi, li riconosco ad occhi chiusi. Un passo veloce, come se non vedesse l’ora di raggiungere qualcosa. Si sono fermati. Vedo la maniglia che si abbassa. Ci siamo.
La porta si apre. Ed eccola. Lei. In tutta la sua bellezza. Quella bellezza particolare, non di quella che per strada ti fa girare la testa, ma quella bellezza che ricordi anche a distanza di anni in modo sempre nitido. La vera bellezza.
Spalanca leggermente gli occhi alla mia vista. Chissà che aspetto devo avere in questo momento. I miei capelli… perché sto pensando ai capelli in un momento del genere? Mi concentro su ciò che devo dire. Mi piacerebbe poter affermare che nelle tre ore in cui ho aspettato mi sono preparato un discorso, ma non è così. Dovrò improvvisare. Devo dire qualcosa di intelligente e ammaliante al tempo stesso.
-Ehi, ciao.
Che intelligenza. Perché non mi chiamano alla Nasa? Sono un genio incompreso.
-Che ci fai qui, Bruce?
Male. Non mi ha nemmeno salutato. Chissà perché: il suo ex fidanzato si presenta alla sua porta alle otto passate di mattina, con l’aspetto di un profugo, dicendole frasi filosofiche come “ehi, ciao”..
-Avevo bisogno di vederti. Dovevo vederti. Mi sei mancata così tanto. Mi è mancato tutto di te. Ho pensato solo a te in questo periodo. Non sai come…
Fermati Bruce. Non fare il cucciolone perseguitato. Non raccontarle di come sei stato male, non devi fare la parte della vittima.
-Se le cose stanno così, ora puoi anche tornartene a casa tua. Mi hai vista.
Fa per chiudere la porta, ma io la trattengo, prendendole la mano. Questa mossa funziona sempre con le donne. Hanno una particolare sensibilità nelle mani: percepiscono ogni tocco, seppur minimo, e lo ricordano per sempre.
-Ascoltami ti prego. Ti chiedo solo un’altra possibilità. Io non riesco a stare senza te. Veramente. Ti giuro…
-Hai già giurato una volta, ma non hai mantenuto.
-Ti giuro che io guiderei di nuovo tutta la notte per te. Per raggiungerti. O per fare farti  felice in qualunque modo. Anche solo per comprarti un paio di scarpe. Io voglio solo poter tornare da te. Voglio solo dormire ancora tra le tue braccia. Sentire il tuo profumo, ammirare il tuo viso, il tuo corpo.
Sta cedendo. Ha abbassato gli occhi. Decido di avvicinarmi un po’ di più.
-Non ce la faccio se non ci sei tu. Tu hai il mio amore. Anima e corpo. Tu sei il mio amore. Ti giuro, affronterei il vento, la pioggia, la neve, qualsiasi cosa pur di essere di nuovo con te.
-Bruce, ti prego…
-Ti amo.
Azzero la distanza che ci divideva. Le nostre labbra finalmente si uniscono: quanto ho bramato questo momento. I nostri respiri si fondono. Affondo le mani nei suoi capelli morbidi. Giuro che non la lascerò andare mai più.
 
*spazio autrice*
Ok, non chiedetemi da dove venga fuori questo orrore, perché proprio non lo so. Aspettate, lo so invece: esce dalla mia testa bacata! Perdonate tutti gli errori, le ripetizioni, le frasi inconsistenti e inutili, il personaggio di “lei” che non è assolutamente particolareggiato… non so nemmeno perché lo sto pubblicando. Spero che non faccio proprio schifo schifo.
Io e il mio ottimismo vi salutano!
Puerto Rican Jane
P. S. Se vi state chiedendo che fine abbia fatto “The river”… è andato in letargo. La trama ce l’ho ben chiara in testa, ma non riesco a svolgerla. Portate pazienza, sono un disastro di autrice.
                                                                                                             
  
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