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Autore: Karyon    07/04/2008    3 recensioni
Fanfiction prima classificata al concorso "Sirius Black".
Terza classificata al "100 prompts!" sul CoS.
"Scegliete Peter... sarete al sicuro." Ancora una volta rise. Rise e il suo animo si spezzò del tutto.
Genere: Malinconico, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Peter Minus, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The game of madness

[Mercoledì, Novembre 1, 1981]

Quella risata continuava a echeggiare nella testa, come una litania ossessiva. Buio, uno schianto, luce e risata. Continuava a rivivere quella notte, attimo per attimo, come una scena mandata a rallentatore più volte. Pioveva quel giorno. Lo ricordava bene… sentiva ancora lo scroscio della pioggia incessante, l’odore del fango nel quale si era gettato per la disperazione… era trascorso un solo giorno, una sola notte, eppure tutto sembrava svolgersi davanti ai suoi occhi in quell’istante.
Riascoltava le voci di chi era accorso al disastro, riascoltava il pianto del suo figlioccio, rivedeva la casa semi distrutta, si rigettava nel fango, si graffiava il viso a sangue; poi riavvolgeva e ricominciava. Ancora e ancora.
Stava impazzendo, ne era sicuro e non poteva fare nulla per impedirlo, anzi, non voleva.
Il ghiaccio nel bicchiere si stava sciogliendo con un debole schiocco, il vociare alto accresceva il suo mal di testa perenne. Fissò il boccale per un altro istante poi lo alzò «Alla salute!» Mormorò a se stesso, poi ingollò il liquido ambrato, tutto in un sorso.
«Dovresti smettere di bere».
Sirius si scostò una ciocca scura, ancora impastata di fango e alzò lo sguardo verso il proprio interlocutore: un vecchio, avvizzito e sdentato.
«Tom, non credo tu possa farmi da balia…» riuscì ad articolare, con un farfuglio.
«Black, ti ho osservato dal mio bancone, sei ubriaco. Non ti fa bene…»
Il bruno sentì una vertigine, come se la parola “bene” fosse dolorosa: gli angoli della bocca s’inclinarono, ghignò, poi rise: «Bene?» Fece tre le risate, «Bene…» ripeté poi, serrando il boccale ormai vuoto a due mani.
«Il bene è un lusso che non posso permettermi. La morte, quella dovrebbe essere la mia compagnia» rispose e gli occhi cominciarono ad offuscarsi.
Tom, il proprietario del Paiolo Magico, si avvicinò ulteriormente, in modo da sovrastare la confusione «Nessuno a questo mondo merita la morte per mano di altri… solo il destino può scegliere».
Lo sguardo fosco del bruno saettò verso il vecchio, la sedia si rovesciò e la mano si serrò intorno al bicchiere di vetro.
«Nessuno? Nessuno merita di morire?! Neanche il verme più strisciante che infesta questo dannato mondo?»
Il ragazzo scagliò il boccale verso una parete, frantumandolo; senza rendersene conto la sua voce, pur se roca dal freddo, si era alzata di un’ottava e tutti gli avventori erano ammutoliti.
Senza alcuna parola, si sistemò il soprabito Babbano scuro e si allontanò verso l’entrata del locale.

 

La tormenta. La neve candida ruggiva impetuosa sulla città e il vento sembrava voler spazzare ogni cosa. Sirius alzò lo sguardo verso il cielo: completamente coperto, il sole sembrava essersi spento, ma nessun londinese se n’era reso conto. Si passò le mani sul viso, sentendo la barba ispida coprirgli il mento; da quella maledetta notte aveva rinunciato a vivere. Non si era cambiato, né lavato, né aveva dormito. Aveva solo vagato, ma ogni ora il suo istinto lo riportava lì, a Godric’s Hallow. Di fronte, quelle rovine: il luogo in cui si era costruita la sua famiglia, la sua vita; il luogo in cui era nata la speranza di un mondo migliore; il luogo in cui erano morti. E lì aveva lasciato se stesso.
Si alzò la manica sinistra e fissò il suo braccio: la ferita, lunga, profonda, non si era rimarginata. Lui stesso l’aveva provocata affondandoci le unghie, graffiando, mordendo, quella stessa notte. Non aveva voluto guarirla con la magia, perché sentiva di meritarselo; meritava il dolore, anche se quella era poca cosa in confronto a ciò che aveva fatto.
Camminò per ore, probabilmente. O forse pochi minuti. Nonostante lo sguardo vitreo, la forza pressoché nulla a causa del digiuno e la neve spessa parecchi metri, riusciva a muoversi, con la speranza di rivederli. Vivi, integri e sorridenti come due giorni prima.
Guardò la vetrina del Pinky flowers, il locale tanto amato da Lily: le insegne sembravano gemere sotto il peso della neve e la persiana era chiusa… no, invece era Aprile. Lily aveva appena scoperto quel locale così piccolo, ma accogliente che vendeva ogni specie di fiori; la sua chioma fulva dondolava al suo incedere allegro e il suo sorriso abbagliava sia lui che James. L’amico invece si lamentava per la mole di pacchi che lei aveva voluto comprare.
Sirius scosse il capo e ritrovò la neve, il locale chiuso e la dura realtà: nessuna chioma fulva faceva capolino tra la folla.
Camminò ancora ed ancora. Inconsciamente si avviava verso qualsiasi luogo che aveva frequentato con James, Remus e Lily. Cinema, ristoranti, piccole trattorie, negozi. Io ogni luogo rivedeva uno di loro; Remus e il suo sorriso incerto, James e la sua camminata baldanzosa, Lily e il suo sorriso che sapeva di casa…
«Dannazione…» sibilò e nello stesso istante cadde nella neve. La sua mente diceva che era scivolato, che si sarebbe rialzato senz’altro e sarebbe andato avanti, ma sapeva che non era così. La realtà era che voleva lasciarsi morire, come un senzatetto, un orfano, perché era quello, in realtà. Sentì le prime, dannate lacrime premere per sgorgare e si piantò le unghie sul polso; quattro mezzelune si riempirono di sangue e, col dolore, sopraggiunse la rabbia che cacciò la disperazione. L’ira si mescolò all’alcool che aveva ingerito e sembrò incendiargli le vene. La risoluzione, terribile, reale, si affacciò alla mente come un’ancora di salvezza per la pazzia.
La cullò per qualche istante, addossato alla lurida parete di un casolare in disuso, come una preghiera e, nel frattempo, la scintilla scoccata così per caso nella sua mente, divenne un incendio. Qualcosa di distruttivo e nello stesso tempo ammaliante che sembrava pervaderlo di energia repressa. La voce crebbe e crebbe, fino a diventare una nuova ossessione che soppiantò la morte e il ricordo di Lily e James.

«Devo trovarlo… devo ucciderlo…» mormorò più volte, anche se, ne era certo, in quella tormenta, nessuno poteva sentirlo.
Passarono altri minuti, altre ore o forse altri giorni. Il tempo sembra dilatarsi all’infinito, quando si perde la cognizione di se stessi. La neve continuava a cadere, incessante e maledettamente candida; ormai la sua pelle chiara si confondeva con il manto nevoso e la sua mente sembrava atrofizzata. Dopotutto poteva ritenersi fortunato: tra il saltare in aria come un dannato pupazzo e il lasciarsi morire di propria iniziativa, la seconda ipotesi era migliore… già come due pupazzi… saltati in aria, come delle stupide bambole di pezza… cominciò a ridere, rise senza prendere fiato, tanto che dovette mantenersi per non scivolare ulteriormente. Qualche passante gli rivolse occhiate spaventate, come pensando che fosse pazzo e, forse, lo era davvero.

Un lampo. Impercettibile per chiunque, tranne che per lui. Nonostante la neve fitta, gli occhi offuscati, la mente paralizzata, si aggrappò con tutto se stesso a quella visione, terribile e perfetta al contempo: un lampo di bacchetta, verde.
La risata s’interruppe così bruscamente com’era cominciata, la rabbia defluì dal suo corpo e una calma gelida, impossibile, terrorizzante, lo investì. Sembrava incredibile, eppure, mentre correva a perdifiato per le stradine imbiancate, facendo gemere di dolore i muscoli indeboliti, si sentiva perfettamente calmo. Non c’è emozione per chi è già morto, così lui non poteva sentire, provare se non viveva, né respirava.
L’area metropolitana era sempre un affollamento di viaggiatori, turisti, pendolari e venditori ambulanti. La neve e la cancellazione dei treni peggioravano la situazione. Eppure, in qualsiasi condizione, non avrebbe potuto non riconoscerlo: basso, anonimo e insignificante, balzò ai suoi occhi come se fosse iridescente.
Sirius strinse i pugni ancora una volta, si ferì nuovamente, il sangue continuò a sgorgare. Calma, calma per chi è già morto, si ripeteva.
Ma lui non era calmo, non lo era mai stato. Turbolento ed esuberante, così lo descrivevano, forse solo irruente e incosciente. Si fermò a pochi metri dal piccolo biondino ventunenne che gli si parava di fronte, dandogli le spalle.
Peter Minus, che passeggiava in città dopo aver tradito; Peter Minus, che mangiava un panino, dopo aver visto il colore del sangue dei suoi più cari amici; Peter Minus, che chiacchierava con un amico, dopo aver distrutto la vita di cinque persone.
Si avvicinò a lui, di soppiatto, tremante per la furia repressa; i suoi occhi non erano che per lui. La metropolitana era scomparsa, gli uomini in bombetta e le donne indaffarate erano svaniti, il Mondo era dissolto sotto il peso della collera più cieca e devastante. Fu con un ghigno sadico, spettro del passato appena trascorso, che lo salutò:
«Peter, Minus».
L’altro tremò; forse non aveva del tutto dimenticato il passato che apparteneva a qualche giorno prima.
«S- sirius…»
Quel balbettio, quella voce acuta, quelle remore nel parlare… dolorosamente si rese conto che era sempre e solo lui. Non un Peter trasfigurato dalla sete di potere, offuscato dalla gloria, ma sempre l’impacciato ragazzino appartenente ai Marauders. Permise alla tristezza di afferrarlo per qualche istante, mentre si allontanava velocemente da lui di qualche metro, girandogli incautamente le spalle, come se fossero stati ancora i vecchi Felpato e Codaliscia; ma quando gli rivolse lo sguardo, era di nuovo realtà. Erano di nuovo traditore e tradito, ancora membro della Fenice e Mangiamorte e la tristezza svanì per permettere allo spettacolo di continuare.
«Sono qui per ucciderti, Peter». Non era mai andato forte nei discorsi, però sapeva essere maledettamente serio.
«Devi vedere se riesci, Sirius» rispose l’altro, piantando lo sguardo acquoso sul bruno.
Forse con il mutamento di partito, Peter aveva perso anche quel poco d’intelligenza che gli rimaneva: non era bravo a combattere e lui era cresciuto con i club di duelli.
Lo disse senza sprezzo, senza rabbia, con totale, impassibile indifferenza.
«Non sono più lo stupido ragazzino che può essere zittito con una battuta, Sirius Black. Sono cambiato…»
«Certo, hai scelto di essere notevolmente più servile e viscido di come eri un tempo!» Sbottò il bruno, la maschera infranta sotto il peso della menzogna, della vigliaccheria.
Peter si ritrasse come stordito, dopodiché la sua voce si alzò prodigiosamente: «Hai ucciso Lily e James, Sirius! Eri il loro Custode Segreto e li hai traditi!»
«Hai il coraggio di guardarmi in faccia dopo quello che hai fatto?» Sirius cominciò a strillare e gli occhi gli si dilatarono.
La follia, subdola, s’impadronì di lui e lo accecò; non vide. Non vide la bacchetta estratta dalla mano paffuta e goffa dell'altro e il tempo si congelò. Il boato fu talmente forte da squarciare i timpani, rendendolo sordo, la luce talmente accecante da costringerlo in ginocchio. La strada si sgretolò, friabile come sfoglia e parecchi corpi furono gettati al vento come macabri manichini.
Solo uno squittio sembrò squarciare il velo del silenzio che gli ottenebrava la mente; e, insieme con esso, la vita lo abbandonò.

«Fermati, Black!»
Un uomo dalla divisa nera lo richiamò da una distanza di sicurezza di almeno 10 metri. Se avesse avuto abbastanza forza, avrebbe urlato di piantarla con la messinscena. Aveva fallito per la terza volta in vita sua ed era morto altrettante volte. La fuga era l’unica macchia che voleva risparmiarsi e la morte, l’unica soluzione possibile.
Per un motivo sconosciuto rivide dinanzi a sé lo sguardo color nocciola di James, deluso per il suo rifiuto ad essere il loro Custode segreto. “Scegliete Peter…” aveva asserito, “Sarete al sicuro”.
Ancora una volta rise. Rise e il suo animo si spezzò del tutto.
Ancora piegato in due dalle risate, fitte, sguaiate, folli, lo trascinarono verso Azkaban, la tomba fatta di cemento e mare.
Lo squittio acuto e nauseabondo sembrava seguirlo ad ogni passo e il suo sguardo era impresso a fuoco nella sua mente, come un marchio. Impresse ogni cosa in un urlo: rabbia, dolore, ricordo, malinconia, furia omicida, speranza, rancore. Poi fu buio.



   
 
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