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The game of
madness
[Mercoledì, Novembre 1, 1981]
Quella
risata continuava a echeggiare
nella testa, come una litania ossessiva. Buio, uno schianto, luce e
risata.
Continuava a rivivere quella notte, attimo per attimo, come una scena
mandata a
rallentatore più volte. Pioveva quel giorno. Lo ricordava
bene… sentiva ancora
lo scroscio della pioggia incessante, l’odore del fango nel
quale si era
gettato per la disperazione… era trascorso un solo giorno,
una sola notte,
eppure tutto sembrava svolgersi davanti ai suoi occhi in
quell’istante.
Riascoltava le voci di chi era accorso al disastro, riascoltava il
pianto del
suo figlioccio, rivedeva la casa semi distrutta, si rigettava nel
fango, si
graffiava il viso a sangue; poi riavvolgeva e ricominciava. Ancora e
ancora.
Stava impazzendo, ne era sicuro e non poteva fare nulla per impedirlo,
anzi,
non voleva.
Il ghiaccio nel bicchiere si stava sciogliendo con un debole schiocco,
il
vociare alto accresceva il suo mal di testa perenne. Fissò
il boccale per un
altro istante poi lo alzò «Alla salute!»
Mormorò a se stesso, poi ingollò il
liquido ambrato, tutto in un sorso.
«Dovresti smettere di bere».
Sirius si scostò una ciocca scura, ancora impastata di fango
e alzò lo sguardo
verso il proprio interlocutore: un vecchio, avvizzito e sdentato.
«Tom, non credo tu possa farmi da
balia…» riuscì ad articolare, con un
farfuglio.
«Black, ti ho osservato dal mio bancone, sei ubriaco. Non ti
fa bene…»
Il bruno sentì una vertigine, come se la parola
“bene” fosse dolorosa: gli
angoli della bocca s’inclinarono, ghignò, poi
rise: «Bene?» Fece tre le risate,
«Bene…» ripeté poi, serrando
il boccale ormai vuoto a due mani.
«Il bene è un lusso che non posso permettermi. La
morte, quella dovrebbe essere
la mia compagnia» rispose e gli occhi cominciarono ad
offuscarsi.
Tom, il proprietario del Paiolo Magico, si avvicinò
ulteriormente, in modo da
sovrastare la confusione «Nessuno a questo mondo merita la
morte per mano di
altri… solo il destino può scegliere».
Lo sguardo fosco del bruno saettò verso il vecchio, la sedia
si rovesciò e la
mano si serrò intorno al bicchiere di vetro.
«Nessuno? Nessuno merita di morire?! Neanche il verme
più strisciante che
infesta questo dannato mondo?»
Il ragazzo scagliò il boccale verso una parete,
frantumandolo; senza rendersene
conto la sua voce, pur se roca dal freddo, si era alzata di
un’ottava e tutti
gli avventori erano ammutoliti.
Senza alcuna parola, si sistemò il soprabito Babbano scuro e
si allontanò verso
l’entrata del locale.
La
tormenta. La neve candida ruggiva
impetuosa sulla città e il vento sembrava voler spazzare
ogni cosa. Sirius alzò
lo sguardo verso il cielo: completamente coperto, il sole sembrava
essersi
spento, ma nessun londinese se n’era reso conto. Si
passò le mani sul viso,
sentendo la barba ispida coprirgli il mento; da quella maledetta notte
aveva
rinunciato a vivere. Non si era cambiato, né lavato,
né aveva dormito. Aveva
solo vagato, ma ogni ora il suo istinto lo riportava lì, a
Godric’s Hallow. Di
fronte, quelle rovine: il luogo in cui si era costruita la sua
famiglia, la sua
vita; il luogo in cui era nata la speranza di un mondo migliore; il
luogo in
cui erano morti. E lì aveva lasciato se stesso.
Si alzò la manica sinistra e fissò il suo
braccio: la ferita, lunga, profonda,
non si era rimarginata. Lui stesso l’aveva provocata
affondandoci le unghie,
graffiando, mordendo, quella stessa notte. Non aveva voluto guarirla
con la magia,
perché sentiva di meritarselo; meritava il dolore, anche se
quella era poca
cosa in confronto a ciò che aveva fatto.
Camminò per ore, probabilmente. O forse pochi minuti.
Nonostante lo sguardo
vitreo, la forza pressoché nulla a causa del digiuno e la
neve spessa parecchi
metri, riusciva a muoversi, con la speranza di rivederli. Vivi, integri
e
sorridenti come due giorni prima.
Guardò la vetrina del Pinky flowers, il
locale tanto amato da Lily: le
insegne sembravano gemere sotto il peso della neve e la persiana era
chiusa…
no, invece era Aprile. Lily aveva appena scoperto quel locale
così piccolo, ma
accogliente che vendeva ogni specie di fiori; la sua chioma fulva
dondolava al
suo incedere allegro e il suo sorriso abbagliava sia lui che James.
L’amico invece
si lamentava per la mole di pacchi che lei aveva voluto comprare.
Sirius scosse il capo e ritrovò la neve, il locale chiuso e
la dura realtà:
nessuna chioma fulva faceva capolino tra la folla.
Camminò ancora ed ancora. Inconsciamente si avviava verso
qualsiasi luogo che
aveva frequentato con James, Remus e Lily. Cinema, ristoranti, piccole
trattorie, negozi. Io ogni luogo rivedeva uno di loro; Remus e il suo
sorriso
incerto, James e la sua camminata baldanzosa, Lily e il suo sorriso che
sapeva
di casa…
«Dannazione…» sibilò e nello
stesso istante cadde nella neve. La sua mente
diceva che era scivolato, che si sarebbe rialzato senz’altro
e sarebbe andato
avanti, ma sapeva che non era così. La
realtà era che voleva lasciarsi
morire, come un senzatetto, un orfano, perché era quello, in
realtà. Sentì le
prime, dannate lacrime premere per sgorgare e si piantò le
unghie sul polso;
quattro mezzelune si riempirono di sangue e, col dolore, sopraggiunse
la rabbia
che cacciò la disperazione. L’ira si
mescolò all’alcool che aveva ingerito e
sembrò incendiargli le vene. La risoluzione, terribile,
reale, si affacciò alla
mente come un’ancora di salvezza per la pazzia.
La cullò per qualche istante, addossato alla lurida parete
di un casolare in
disuso, come una preghiera e, nel frattempo, la scintilla scoccata
così per
caso nella sua mente, divenne un incendio. Qualcosa di distruttivo e
nello
stesso tempo ammaliante che sembrava pervaderlo di energia repressa. La
voce
crebbe e crebbe, fino a diventare una nuova ossessione che
soppiantò la morte e
il ricordo di Lily e James.
«Devo
trovarlo… devo ucciderlo…»
mormorò più volte, anche se, ne era certo, in
quella tormenta, nessuno poteva
sentirlo.
Passarono altri minuti, altre ore o forse altri giorni. Il tempo sembra
dilatarsi
all’infinito, quando si perde la cognizione di se stessi. La
neve continuava a
cadere, incessante e maledettamente candida; ormai la sua pelle chiara
si
confondeva con il manto nevoso e la sua mente sembrava atrofizzata.
Dopotutto
poteva ritenersi fortunato: tra il saltare in aria come un dannato
pupazzo e il
lasciarsi morire di propria iniziativa, la seconda ipotesi era
migliore… già
come due pupazzi… saltati in aria, come delle stupide
bambole di pezza… cominciò
a ridere, rise senza prendere fiato, tanto che dovette mantenersi per
non
scivolare ulteriormente. Qualche passante gli rivolse occhiate
spaventate, come
pensando che fosse pazzo e, forse, lo era davvero.
Un
lampo. Impercettibile per chiunque,
tranne che per lui. Nonostante la neve fitta, gli occhi offuscati, la
mente
paralizzata, si aggrappò con tutto se stesso a quella
visione, terribile e
perfetta al contempo: un lampo di bacchetta, verde.
La risata s’interruppe così bruscamente
com’era cominciata, la rabbia defluì
dal suo corpo e una calma gelida, impossibile, terrorizzante, lo
investì.
Sembrava incredibile, eppure, mentre correva a perdifiato per le
stradine
imbiancate, facendo gemere di dolore i muscoli indeboliti, si sentiva
perfettamente calmo. Non c’è emozione per chi
è già morto, così lui non poteva sentire,
provare se non viveva, né respirava.
L’area metropolitana era sempre un affollamento di
viaggiatori, turisti,
pendolari e venditori ambulanti. La neve e la cancellazione dei treni
peggioravano
la situazione. Eppure, in qualsiasi condizione, non avrebbe potuto non
riconoscerlo: basso, anonimo e insignificante, balzò ai suoi
occhi come se
fosse iridescente.
Sirius strinse i pugni ancora una volta, si ferì nuovamente,
il sangue continuò
a sgorgare. Calma, calma per chi è già morto, si
ripeteva.
Ma lui non era calmo, non lo era mai stato. Turbolento ed esuberante,
così lo
descrivevano, forse solo irruente e incosciente. Si fermò a
pochi metri dal
piccolo biondino ventunenne che gli si parava di fronte, dandogli le
spalle.
Peter Minus, che passeggiava in città dopo aver tradito;
Peter Minus, che
mangiava un panino, dopo aver visto il colore del sangue dei suoi
più cari
amici; Peter Minus, che chiacchierava con un amico, dopo aver distrutto
la vita
di cinque persone.
Si avvicinò a lui, di soppiatto, tremante per la furia
repressa; i suoi occhi
non erano che per lui. La metropolitana era scomparsa, gli uomini in
bombetta e
le donne indaffarate erano svaniti, il Mondo era dissolto sotto il peso
della
collera più cieca e devastante. Fu con un ghigno sadico,
spettro del passato
appena trascorso, che lo salutò:
«Peter, Minus».
L’altro tremò; forse non aveva del tutto
dimenticato il passato che apparteneva
a qualche giorno prima.
«S- sirius…»
Quel balbettio, quella voce acuta, quelle remore nel
parlare… dolorosamente si
rese conto che era sempre e solo lui. Non un Peter trasfigurato dalla
sete di
potere, offuscato dalla gloria, ma sempre l’impacciato
ragazzino appartenente
ai Marauders. Permise alla tristezza di afferrarlo per qualche istante,
mentre
si allontanava velocemente da lui di qualche metro, girandogli
incautamente le
spalle, come se fossero stati ancora i vecchi Felpato e Codaliscia; ma
quando
gli rivolse lo sguardo, era di nuovo realtà. Erano di nuovo
traditore e
tradito, ancora membro della Fenice e Mangiamorte e la tristezza
svanì per
permettere allo spettacolo di continuare.
«Sono qui per ucciderti, Peter». Non era mai andato
forte nei discorsi, però
sapeva essere maledettamente serio.
«Devi vedere se riesci, Sirius» rispose
l’altro, piantando lo sguardo acquoso
sul bruno.
Forse con il mutamento di partito, Peter aveva perso anche quel poco
d’intelligenza
che gli rimaneva: non era bravo a combattere e lui era cresciuto con i
club di
duelli.
Lo disse senza sprezzo, senza rabbia, con totale, impassibile
indifferenza.
«Non sono più lo stupido ragazzino che
può essere zittito con una battuta,
Sirius Black. Sono cambiato…»
«Certo, hai scelto di essere notevolmente più
servile e viscido di come eri un
tempo!» Sbottò il bruno, la maschera infranta
sotto il peso della menzogna,
della vigliaccheria.
Peter si ritrasse come stordito, dopodiché la sua voce si
alzò prodigiosamente:
«Hai ucciso Lily e James, Sirius! Eri il loro Custode Segreto
e li hai
traditi!»
«Hai il coraggio di guardarmi in faccia dopo quello che hai
fatto?» Sirius
cominciò a strillare e gli occhi gli si dilatarono.
La follia, subdola, s’impadronì di lui e lo
accecò; non vide. Non vide la
bacchetta estratta dalla mano paffuta e goffa dell'altro e il tempo si
congelò.
Il boato fu talmente forte da squarciare i timpani, rendendolo sordo,
la luce
talmente accecante da costringerlo in ginocchio. La strada si
sgretolò,
friabile come sfoglia e parecchi corpi furono gettati al vento come
macabri
manichini.
Solo uno squittio sembrò squarciare il velo del silenzio che
gli ottenebrava la
mente; e, insieme con esso, la vita lo abbandonò.
«Fermati,
Black!»
Un uomo dalla divisa nera lo richiamò da una distanza di
sicurezza di almeno 10
metri. Se avesse avuto abbastanza forza, avrebbe urlato di piantarla
con la
messinscena. Aveva fallito per la terza volta in vita sua ed era morto
altrettante volte. La fuga era l’unica macchia che voleva
risparmiarsi e la morte,
l’unica soluzione possibile.
Per un motivo sconosciuto rivide dinanzi a sé lo sguardo
color nocciola di
James, deluso per il suo rifiuto ad essere il loro Custode segreto. “Scegliete
Peter…” aveva asserito, “Sarete
al sicuro”.
Ancora una volta rise. Rise e il suo animo si spezzò del
tutto.
Ancora piegato in due dalle risate, fitte, sguaiate, folli, lo
trascinarono
verso Azkaban, la tomba fatta di cemento e mare.
Lo squittio acuto e nauseabondo sembrava seguirlo ad ogni passo e il
suo
sguardo era impresso a fuoco nella sua mente, come un marchio. Impresse
ogni
cosa in un urlo: rabbia, dolore, ricordo, malinconia, furia omicida,
speranza,
rancore. Poi fu buio.