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Autore: _Nevermind_    14/10/2013    1 recensioni
Quando camminava la sua aura s'ingigantiva. Lo notavi da lontano un kilometro. Era impossibile non fermarsi un attimo a riflettere su quanto quel ragazzo fosse bello e all'apparenza forte. All'apparenza.
Dentro aveva un oceano di solitudine. Era probabilmente la persona più malinconica che conoscessi. Non c'era niente da fare: dimostrava di essere sicuro di se' e pieno di determinazione, quando in realtà ogni giorno moriva dentro. Sempre di più, fino a cadere nel baratro.
Ricordo ancora la lettera che scrisse prima di lasciarci.
"SCUSATEMI" era la parola più ripetuta. L'unica. A caratteri cubitali. Su tutto il foglio. In mille modi diversi.
Genere: Malinconico, Slice of life, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tanti erano i ricordi che mi aggrovigliavano i pensieri, rendendoli più intricati di quanto già non fossero.
Toccai con la punta delle dita l'albero vicino al quale ci eravamo conosciuti. Quanto mi mancava quel giorno lontano nel tempo.
Ricordavo perfettamente tutto. Gli odori, le sensazioni, le immagini. Le canzoni.
Come se fosse stato possibile dimenticare il suo sorriso. Quel bagliore splendente che ti illuminava la giornata, quella voce roca e bassa che ti avvolgeva, il cuore in gola, lo stomaco mai stato così affollato di farfalle.
Nonostante fosse passato tanto tempo notai che le cose erano rimaste esattemente come allora.
Il palo con sopra appuntate le fermate, per esempio.
Anche l'albero era sempre lì. Certo, con il passare degli anni era diventato sempe più raggrinzito, eppure c'era e questo significava tanto -troppo- per me.
Perchè nonostante fossero passati già dieci anni da quando il mio primo amore se ne fosse andato, io ancora non l'avevo dimenticato. Il suo viso sorridente era impresso nella mia memoria. E non mi avrebbe mai abbandonata.
Il mio era un amore non corrisposto. Uno di quei boccioli che rimangono tali, di quelli che la gente si dimentica di annaffiare perchè reputa che qualcun'altro lo farà al posto suo. Ero un bocciolo richiuso su se stesso, un petalo caduto da un fiore, una farfalla che sbatte le ali facendo attenzione a non farsi sentire dal resto del mondo.
Io e lui eravamo amici - o almeno, io per lui lo ero. Ci tenevamo segrete tante cose a vicenda, eppure nel momento in cui stavamo insieme tutti i problemi sembravano svanire. Sapevamo prendere tutto con leggerezza e un pizzico d'immaturità. 
Eravamo giovanissimi quando ci siamo conosciuti, avremo avuto quattordici anni. 
Lo vedevo sempre, questo ragazzo. Era alla fermata del treno, fermo, impassibile. Quasi come se stesse aspettando qualcosa che non sarebbe mai arrivato.
Aveva la notte negli occhi. Erano castani, eppure a volte sembrava quasi che s'incupissero a tal punto da diventare neri come la pece. Intravedevo le stelle in quella volta celeste che aveva negli occhi.
Adoravo il modo in cui mi guardava. Pareva che si trovasse su di un altro pianeta, che si isolasse. Aveva lo sguardo perso nei suoi sogni. 
Forse è una delle cose che mi manca di più di lui. 
Un'altra cosa che mi faceva salire il battito cardiaco incessantemente era il suo tono di voce. Lo ricordo perfettamente. Così basso, profondo, diverso. La sua voce non la possedeva nessun'altro oltre a lui.
Lui era diverso da tutti. Una persona che attira la tua attenzione e che cattura la tua mente in una rete da cui è impossibile liberarsi. Per quanto tu provi ad uscirne, non ce la fai. Perchè ormai ci sei dentro e sai meglio di chiunque altro che qualsiasi sforzo tu faccia non potrai cancellare quell'immagine dalla tua mente. Ed è questo che lui è stato per me. Un dolce ricordo a cui non riuscirò mai a dire addio.
Quando ripenso alla sua figura mi si forma un nodo in gola.
La sua postura era piuttosto insolita. Se ne andava in giro strisciando i piedi con un passo lento. Eppure teneva le spalle diritte, quasi come se volesse dimostrare al mondo che lui fosse fiero di cio' che era - di cio' che è, ovunque si trovi -, di cio' che sarebbe stato per sempre.
Quando camminava la sua aura s'ingigantiva. Lo notavi da lontano un kilometro. Era impossibile non fermarsi un attimo a riflettere su quanto quel ragazzo fosse bello e all'apparenza forte. All'apparenza.
Dentro aveva un oceano di solitudine. Era probabilmente la persona più malinconica che conoscessi. Non c'era niente da fare: dimostrava di essere sicuro di se' e pieno di determinazione, quando in realtà ogni giorno moriva dentro. Sempre di più, fino a cadere nel baratro.
Ricordo ancora la lettera che scrisse prima di lasciarci.
"SCUSATEMI" era la parola più ripetuta. L'unica. A caratteri cubitali. Su tutto il foglio. In mille modi diversi.
C'era lo "scusatemi" tremolante, quello carico di rabbia e rancore, quello leggero che nascondeva un vuoto interiore assoluto. 
Lui si sentiva sempre come se gli mancasse qualcosa. Era impossibile convincerlo del contrario; quante volte ci avevo provato. Ma non aveva funzionato.
Quando stavamo insieme sorrideva. Ovviamente era una farsa, in realtà avrebbe voluto piangere. Eppure non lo dava a vedere, e Dio solo sa quanto io rimpianga di non averlo capito prima. 
Perchè io volevo crederci. Volevo stare al gioco. Volevo davvero pensare che lui fosse felice.
Nonostante tutto io mi ero resa conto che qualcosa non andava sin dalla prima volta che gli rivolsi la parola in stazione.
"Cosa stai aspettando?" gli avevo domandato. Non mi riferivo al treno.
Lui capì subito.
"Troppe cose" rispose.
Quanto avrei voluto baciarlo. Davvero, era un qualcosa che bramavo sin da quando lo osservavo di nascosto mentre guardava la sua vita passargli davanti fermo in fronte a dei binari malandati. 
Ricordo nitidamente che avevo intenzione di confessargli tutto. Di pararmi davanti a lui, afferrarlo per la giacca e dirgli ogni cosa, una volta per tutte. 
Non ero mai stata sincera con lui. Gli avevo detto tante piccole bugie che consideravo insulse. Eppure non mi ero resa conto che le mie "insulse bugie" avevano contribuito a rendere la sua vita un casino. Non sapevo di essere una delle cause per le quali aveva deciso che la sua vita sarebbe drasticamente finita lì.
Non credevo di essere importante per lui. E invece lo ero, anche se in modo diverso da come lo era lui per me. Perchè per me era amore, per lui era una presenza costante e vicina. Un'arma a doppio taglio che aveva finito per ferirlo inconsciamente.
Perchè sì, sin dall'inizio avevo avuto io il coltello dalla parte del manico.
Eppure anche lui mi aveva fatta soffrire -e non poco.
Il momento peggiore fu quando, dopo aver litigato con una compagna di classe, ero corsa in giardino per prendere una boccata d'aria. Ebbene, c'era una finestra. Avevo guardato fuori sovrappensiero, e forse non avrei dovuto farlo.
Vidi cio' che non mi sarei mai e poi mai aspettata.
Si stavano baciando.
C'era questa ragazza dai capelli rossi, e ovviamente c'era anche lui. Non avevo idea di chi fosse, lei. E forse nemmeno lui.
Mi sembrò di aver assistito ad un funerale; era la fine, la lenta distruzione di un sogno che non si era ancora realizzato. Il bocciolo che ero era stato calpestato pesantemente e nulla al mondo sarebbe stato in grado di farlo fiorire mai più.
Quello fu il momento peggiore: ci salutammo un'ultima volta alla fine dell'anno, poi non ci parlammo più. 
Io lo evitavo perchè non mi capacitavo del fatto che amasse un'altra. Nonostante io ora sappia che quel bacio era frutto di una scommessa, il solo ricordo mi fa soffrire ancora. Come se la ferita che mi provocò assistere a quella scena fosse rimasta aperta e col passare degli anni avesse scavato in profondità dentro di me.
Poi successe qualcosa che mi cambiò la vita.
Ricordo ancora che quella sera stavo studiando per l'interrogazione di filosofia del giorno successivo. Ero in terza superiore ed era una fredda giornata di Ottobre.
Il telefono squillò due volte, poi io risposi sovrappensiero, senza nemmeno guardare chi fosse.
Mi rispose una voce che conoscevo bene: la sua. Era più di un anno che non la sentivo, e per un attimo provai felicità perchè finalmente era stato lui a cercarmi. Mi ero sentita importante e fiera, desiderata.
Eppure un istante dopo tutto quanto mi crollò addosso. Stava piangendo.
Scattai su dalla sedia, gli domandai cosa stesse succedendo.
"Mi dispiace tanto. Mi dispiace. Mi dispiace. Abbi cura di te."
Quella fu l'ultima volta che sentii la sua voce.
Uno sparo troncò il silenzio. Udii un tonfo, poi la linea cadde.
Mi accasciai a terra e provai a richiamarlo decine di volte, non poteva averlo fatto per davvero. 
Alla dodicesima chiamata senza risposta mi precipitai fuori di corsa, tentando, invano, di raggiungere casa sua.
A quell'ora non passavano né autobus né treni. Ci andai a piedi, erano circa otto kilometri. Inutile dire che passai la notte fuori, in preda ai pianti disperati e senza nemmeno avvisare i miei genitori, che chiamarono la Polizia pensando che fossi scappata di casa.
Ricordo bene quando quella fredda mattina di Ottobre mi ritrovai in piedi davanti alla casa del Ragazzo della Stazione, avvolta da una coperta, tremante e impassibile mentre la Scientifica portava via il suo corpo senza vita.
Quella è l'ultima immagine che mi rimane di lui, l'ultimo frammento della sua esistenza che sono riuscita ad afferrare, l'ultima goccia scesa dal suo viso sorridente, da quella maschera di cera che portava addosso.
I ricordi mi si attorcigliano nella mente, a dieci anni di distanza, nello stesso luogo in cui ti ho conosciuto.
Mi manchi. Mi mancherai per sempre.
Ancora adesso rimpiango di non averti detto cio' che avrei sempre voluto dirti:
"Sono felice di essermi innamorata di te".


Arrivo alla sua fermata, guardo con aria malinconica i treni passare. Mi pare di vedere la sua figura in piedi accanto a me, con lo sguardo assorto nel precipizio della propria esistenza.
E invece lui non c'è più.
  
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