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Autore: 1rebeccam    14/10/2013    20 recensioni
ULTIMO CAPITOLO scrisse all’inizio del foglio di word a lettere maiuscole, mosse il mouse e puntò il cursore sull’icona ‘centra’.
La scritta troneggiò al centro superiore del foglio virtuale.
Si sistemò per bene sulla poltrona di pelle e, sospirando, cominciò la fine del suo racconto.
Genere: Angst, Romantico, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Quasi tutti
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
Capitoli:
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Capitolo 2

 
Martedì 26 febbraio, ore 7.40
 
La fine di febbraio segna un’altra giornata fredda, gelida se si pensa che la notte precedente ha nevicato di continuo.
Guarda fuori dalla finestra della cucina, attaccando la fronte al vetro e sollevandosi sulla punta dei piedi, per osservare anche la strada sottostante. Nonostante il gelo e la neve, dopo una settimana intera di pioggia, quella giornata sembra volerli finalmente graziare con un po’ di sole.
Si chiude i bottoni della camicia rubata fin sopra il collo, come a volersi proteggere dal freddo, incurante di avere le gambe nude ed i piedi scalzi. Le è sempre piaciuto camminare a piedi nudi.
Guarda il cielo ancora una volta, sistema i capelli in modo buffo con una forcina, mette su il caffè e comincia a preparare per la colazione.
Abbondante…
Pensa ammiccando tra sè.
Quella mattina se la meritavano, visto che la sera precedente non avevano cenato; erano rientrati così tardi e così stanchi che si erano rintanati sotto le coperte il più in fretta possibile e, altrettanto in fretta, si erano addormentati.
Apre il frigo e, mentre prende uova, latte e bacon, si ritrova a sorridere sul fatto che da un po’ di tempo il suo, non è più un aggeggio inutile e moribondo, come lo ha definito lui più di una volta, ma è diventato un vero e proprio elettrodomestico indispensabile e felice di fare il lavoro per cui è stato creato.
Mette il bacon a sfrigolare in padella, rompe le uova nella terrina, ci versa dentro un po’ di latte e scuote la testa sorridendo.
Con la forchetta comincia a sbattere le uova, ma lo fa in maniera meccanica senza nemmeno badarci, il suo interesse al momento si trova fisso sui suoi pensieri.
Si è svegliata presto come tutte le mattine, è rimasta a crogiolarsi sotto le coperte e ad assaporare l’abbraccio di Castle, che si è  addormentato a pancia in giù, con il braccio appoggiato su di lei e non si è mosso da quella posizione per tutta la notte. Lo ha guardato a lungo, sorridendo nel vedergli la faccia sprofondata dentro al cuscino e quell’espressione beata di chi dorme un sonno innocente.
Si morde il labbro… innocente… beh, è una parola grossa, non passano pensieri innocenti nel cervello di quell’uomo da un bel po’, sicuramente non quando è a letto con lei.
Sorride ancora, continuando a sbattere le uova e si ritrova a chiedersi perché sorride.
Le capita troppo spesso da un po’.
Lei in effetti non è che ci abbia fatto molto caso, ma Lanie, con i suoi ammiccamenti e le sue battutine, ha cominciato a farle venire la sindrome del sorriso, visto che le ripete sempre che deve smetterla di spiattellare in faccia ai comuni mortali che è felice.
Felice!? Come felice? In che senso?
Torna in sé per un attimo, appena in tempo per salvare il bacon da morte certa per incenerimento, lo mette in un piatto e nella stessa padella versa finalmente le uova, cominciando a rigirarle per strapazzarle, facendosi risucchiare immediatamente  nel suo trans mattutino.
In che senso sono felice?
La domanda nasce spontanea in mezzo ai suoi pensieri, che hanno preso di nuovo il sopravvento sulla colazione.
Non riesce a darsi una risposta precisa, forse perché ha dimenticato da tempo la sensazione che può dare la felicità, però ha ragione Lanie, sorride, anche troppo e anche spesso.
Il bricco del caffè cerca di dirle qualcosa, ma lei non riesce a sentire il suo borbottio insistente, saltella  prima su un piede e poi sull’altro, toglie le uova dal fuoco e le mette nel piatto insieme al bacon.
Torna a pensare alla domanda che si è posta poco prima e nei meandri nascosti della sua mente, riesce a scorgere qualcosa.
Una risposta forse?
Forse!
Non sembra una risposta precisa, ma di una cosa è sicura: le piace tornare a casa con lui, le piace mettersi a letto con lui, parlare dei casi e delle sue strampalate teorie anche fino a notte fonda con lui, parlare di sua figlia con lui, organizzare i fine settimana con lui, fare l’amore con lui fino a sfinirsi. Le piace il suo modo di essere protettivo, a volte geloso, con quel suo sguardo serio e intenso che le blocca il respiro e quell’altro da cucciolo che, prima riusciva a contrastare, ma che da un po’ la mette sempre KO.
Prende un vassoio, ci sistema sopra il piatto di uova e bacon, un paio di fette biscottate, burro e marmellata, posate e tazze.
Solleva la testa di scatto.
Tazze… borbottio… caffettiera!
Corre verso la cucina e spegne il fuoco sotto il bricco del caffè, che ribolle già da un po’.
Sospira sconfitta dai suoi pensieri e versa il caffè nelle tazze.
Si dirige verso la camera da letto cercando di mantenersi lucida, poggia delicatamente il vassoio sul comodino e resta a guardare Rick ancora un momento.
Per potersi alzare è stata costretta a prendergli il braccio di peso e spostarlo, così lui ha cambiato posizione, si è girato su un fianco mettendo le mani sotto il cuscino, rivolto verso il centro del letto e così è rimasto.
Non l’ha sentita alzarsi, fare rumore con le stoviglie e rientrare in camera.
Prende una tazza di caffè fumante tra mani e fa il giro del letto per trovarsi di fronte a lui, si ferma davanti al comò e ride di  quel cassetto con i jeans che ciondolano fuori. Da quando glielo ha regalato per san Valentino, si ostina a volerci mettere dentro i suoi abiti, nonostante gli abbia anche liberato un pezzettino di spazio dentro l’armadio.
Solo un pezzettino però, meglio non allargarsi troppo
Ma lui continua a dire che è il suo regalo e ci mette dentro quello che gli pare.
Scuote la testa e si chiede come tutto questo possa farla alzare al mattino serena e pimpante, pronta per una nuova giornata di lavoro e non sentirsi stanca di lui.
Deve esserci davvero qualcosa che non va in me…  
In effetti, non solo gli ha preparato la colazione lasciandolo poltrire ancora, ma gliela sta portando perfino a letto!
Sorride.
Di nuovo!
C’è davvero qualcosa che non va in lei…
ma qualunque cosa sia mi fa stare bene!
Si siede sul letto e avvicina la tazza al viso di Castle che, dopo un paio di secondi comincia a fare strane smorfie, tira su col naso e cerca di aprire gli occhi. Si sposta di poco e di poco solleva la testa respirando più pesantemente.
Ha sentito il profumo del caffè.
Apre un solo occhio arricciandolo per la luce che lo abbaglia, poi apre anche l’altro, corruccia la fronte quando vede la tazza ad un centimetro dal suo naso e poi solleva gli occhi verso la voce che gli dà il buon giorno.
Si mette a sedere sporgendosi verso di lei e la bacia.
-Buon giorno.-
Anche la voce impastata dal sonno e quello sguardo da pulcino spettinato le piacciono… tanto.
Sono proprio messa male!
Il soggetto dei suoi pensieri mattutini prende la tazza e beve un sorso di caffè, la segue con lo sguardo quando si alza ancheggiando verso il comodino e si rende conto che non gli ha portato solo il caffè, ma una colazione in piena regola.
Eccolo quel sorriso che mi frega!
-Colazione a letto detective!? Devo essere stato magnifico stanotte per essermi meritato tutto questo!-
Gongola sollevando maliziosamente le sopracciglia e lei gli dà uno scappellotto dietro la nuca.
-Ma se ti sei addormentato ancora prima di toccare il cuscino! Sei stato magnifico a russare.-
Gli risponde con una punta di rimprovero. Lui sposta il vassoio dalla traiettoria che gli interessa e l’attira di prepotenza su di sé.
-Hai ragione… ma non sul fatto che russo. Io non russo.-
-Che ne sai se dormi?-
Gli risponde lei sulle sue labbra. La bacia, piano, le accarezza il viso con una mano e con l’altra le sfiora il collo.
-Va bene, diciamo che non russi, ma fai degli strani rumorini che non sono ancora riuscita ad identificare.-
Risponde, cercando di mantenersi distante dai suoi tocchi, ma lui la stringe a sé baciandola in modo sempre più passionale.
Faremo tardi e non ce lo possiamo permettere…
Perché lo pensa soltanto senza riuscire a dirlo ad alta voce?
-La col… colazione Castle…-
Cerca di dire, ma non riesce a finire la frase, perché lui le ha già sbottonato la camicia fino all’ultimo bottone e la sta accarezzando.
-Si, la colazione, sono affamato…-
Sussurra lui mentre le fa scivolare la camicia sulle spalle e la bacia dal collo in giù, lei gli solleva il viso prendendolo tra le mani.
Al momento il suo sguardo non è quello di un bambino e si rende conto che prima o poi dovrà trovare una cura, dovrà trovare il modo di tenergli testa, di fermarlo… di fermarsi… ma lo farà in un altro momento, non può pensarci adesso.
Lui si china a divorarle il collo e lei sospira.
No! Decisamente questo non è proprio il momento di pensare…
 
Rick si sta ancora vestendo, mentre lei riassetta la cucina.
Non hanno mangiato, almeno non quello che ha cucinato, hanno consumato altro, ma si sentono sazi e soddisfatti lo stesso. Rientra in camera e si dirige allo specchio della toeletta, sotto lo sguardo attento di Rick che sembra non stancarsi mai di guardarla.
Si sistema i capelli, si passa un velo di cipria sul viso e poco lucido sulle labbra. Prende l’orologio e fa per allacciarselo, tenendo sempre lo sguardo fisso sullo specchio che riflette Rick, ma le scivola di mano. Si riscuote solo al rumore dell’oggetto che arriva sul pavimento. China lo sguardo e resta un momento immobile.
-Accidenti!-
Esclama tra i denti, Rick le si avvicina e si china a prendere i cocci e quando si rialza davanti a lei nota il suo sguardo serio.
Kate sfiora i pezzetti di vetro rotto e le lancette ferme. Solleva gli occhi su di lui, quasi come se si aspettasse un rimprovero.
-Tranquilla, si può sistemare. Lo portiamo subito ad aggiustare, vedrai che entro un paio di giorni lo riavrai al polso.-
Lei annuisce, ma non dice una parola, sembra bloccata e preoccupata.
-Ehi… si può aggiustare… davvero!-
Le dice ancora lui e lei sorride mesta.
-Lo so, è solo che…-
China lo sguardo sull’orologio rotto e sospira, mentre Rick corruccia la fronte.
-Solo che!?-
Lei scuote la testa.
-Solo che… quando è arrivato a terra ho sentito una fitta allo stomaco, si è rotto e… ho sentito come… un brutto   presentimento…-
Rick continua a mostrare un’espressione confusa e lei sorride.
-Mi sento un po’ stupida, scusa… è l’orologio di mio padre e sai cosa significhi per me, mi sono sentita… sola… per un attimo.-
Lui la bacia sulla fronte.
-Ma che dici? Come puoi sentirti sola con me sempre tra i piedi? E poi da quando Kate Beckett è diventata superstiziosa?-
Lei solleva le spalle e lo bacia sulle labbra.
-Infatti, non sono superstiziosa, è stata solo una stupida sensazione… andiamo o faremo tardi davvero.-
Prende la giacca e gli occhi le cadono ancora su quel cassettino, dal quale adesso ciondola il pantalone del pigiama. Solleva un sopracciglio e guarda Rick.
-E cerca di tenere in ordine il tuo cassetto, o me lo riprendo!-
Lui la afferra per il braccio e la costringe a voltarsi.
-Lo sai che i regali non si possono riprendere indietro?-
Le sussurra ad un paio di millimetri dalle sue labbra e Kate gli mette le braccia intorno al collo.
-Quindi se dovessi buttarti fuori da qui, che faresti?-
-Semplice… me lo porterei dietro!-
Lei si stacca da lui con lo sguardo indignato.
-Così mi lasceresti il comò con un buco!?-
Rick solleva le spalle e annuisce.
-Certo… quel cassetto ormai è mio, ci metto quello che voglio, lo tengo come voglio e me lo porto dove mi pare.-
Si mette il cappotto e senza degnarla di uno sguardo le passa accanto e si avvia alla porta.
Kate guarda ancora il cassetto, corruccia la fronte e storce il naso.
-Mi sembra giusto… è questo che succede se tu gli dai un dito… si prende il cassetto e se lo porta via!-
Dice raggiungendolo sul pianerottolo e lui l’abbraccia ridendo, prima di entrare in ascensore.
 
Lei entra in macchina e si volta a guardarlo male, quando anche lui apre lo sportello e le si siede accanto.
-Che stai facendo Castle?-
Lui sbuffa con l’espressione di un bambino imbronciato.
-Oh… andiamo Kate! Vuoi farmi prendere un taxi anche oggi? Non ci vede nessuno, mi lasci ad un paio d’isolati dal distretto. C’è un orologiaio che conosco lì vicino, gli lascio l’orologio intimandogli che deve aggiustarlo per direttissima, prendo il caffè come al solito e ti raggiungo a piedi…-
Sfodera il suo sguardo da cucciolo e nonostante Kate si costringa a guardarlo male, dopo un paio di secondi non può fare altro che sospirare, annuendo.
-D’accordo, allaccia la cintura di sicurezza!-
Gli dice mettendo in moto, lo guarda sott’occhio e sorride tra sé alla sua espressione soddisfatta di vittoria.
Devo per forza trovare una cura al più presto o sarò persa…
 
 
La casa si trovava in una zona appartata del Greenwich Village, era una villetta su due piani, nascosta dalla strada da una grande quercia e circondata da una fitta boscaglia; un posto tranquillo e sicuro in cui continuare a vivere senza che occhi e orecchie indiscreti potessero nuocergli ancora. La cosa che amava di quel posto però, non era la casa in sé che non usava quasi mai, ma la cantina, grande, spaziosa, buia e nascosta alla vista. Vi si poteva accedere solo dall’interno, non aveva finestre perché completamente interrata e riciclava l’aria attraverso un ingranaggio di filtri e pompe che aveva costruito con le sue mani.
Quello era il suo mondo, fatto di alambicchi, centrifughe, essiccatori, bilancini di precisione, pinze, microscopio e sostanze chimiche di diversa natura. Questo era quello che lo rendeva felice, che gli faceva trascorrere le giornate o le nottate.
Non sapeva mai se fosse giorno o notte, visto che non riusciva a vedere fuori e non teneva mai un orologio vicino.
Dentro quella cantina adibita a laboratorio, con le pareti dipinte di bianco, tenuta pulita e ordinata in maniera metodica, riusciva a sentirsi vivo e il tempo non aveva nessuna importanza.
Lavorava tanto, cercava sempre qualcosa, studiava tutto quello che gli capitava sotto mano, dalla terra alle foglie, agli insetti, tutto per capire davvero la grandezza della natura o dell’universo intero. Si dedicava allo studio di malattie strane o rarissime e qualche volta era persino riuscito a trovare la soluzione a qualcuna di esse, senza mai però farlo presente al mondo. I suoi studi e le sue ricerche erano per se stesso, non per la gloria e non certo per fare un favore all’umanità, che lo aveva sempre rifiutato.
Era un uomo solitario, lo era sempre stato, viscido alla vista di chi lo aveva conosciuto in quel passato abbastanza remoto in cui aveva ancora una vita nel mondo… ma aveva quella mania.
Qualcuno l’aveva definita vizietto, ma a lui piaceva pensare che era soltanto una voglia, un desiderio che non riusciva a reprimere, qualcosa che comunque faceva parte della natura umana e in cui non vedeva nulla di male.
Per uno scienziato non c’era nulla di male nel voler dare sfogo alle reazioni chimiche che fanno parte non solo della natura, ma anche del proprio corpo. Ma quello che per lui era naturale, per gli altri era indecente e così aveva deciso di rintanarsi solo con se stesso, per non avere più problemi e fidarsi solo del suo laboratorio, di quelle ricerche che gli avrebbero dato forse, la risposta a quello che per gli altri era sbagliato.
Quando sentì bussare alla porta restò meravigliato, nessuno sapeva del suo nascondiglio, solo il fedele Abraham stava con lui, un omino smilzo e ricurvo, baciato dalla sfortuna nel corpo e nell’anima. Lui lo aveva salvato dalla una vita di immobilità assoluta, dopo avere sperimentato una medicina che gli aveva permesso di rimettersi in piedi, nonostante un’infinità di medici lo avessero dato per spacciato. Abraham avrebbe fatto qualunque cosa per lui, era il suo salvatore, gli aveva dato l’opportunità di continuare ad avere cura di se stesso, salvandolo da uno di quegli istituti per indigenti, dove sarebbe sicuramente morto in solitudine e tra atroci dolori.
Gli procurava le sostanze che gli servivano per il suo lavoro, faceva la spesa e sbrigava ogni tipo di faccenda interna o esterna alla casa. Era il suo occhio all’esterno di quella prigione che si era costruito intorno.
Bussarono per la seconda volta, si sporse dietro una persiana per capire chi fosse lo sconosciuto. Strizzò gli occhi, non riuscendo a scorgerlo bene, aveva un impermeabile scuro e il bavero alzato sulla faccia, nascosta da un cappello.
Niente di buono pensò, decidendo di non aprire, tanto non aveva fatto rumore, le persiane erano serrate, la casa poteva sembrare disabitata.
-Apri Professore… lo so che sei rintanato dietro qualche finestra a guardarmi…-
La voce lo fece trasalire, si tolse gli occhialini e si passò la mano sul viso sudato.
Rimise gli occhiali e appoggiò la testa tonda e quasi calva al muro, sospirò e strinse i pugni.
Come aveva fatto a trovarlo?
-Professore…-
Il suo ospite aveva alzato ancora la voce, non se ne sarebbe andato, doveva assolutamente aprire.
Sospirò ancora, si avvicinò lentamente alla porta e la socchiuse di poco, l’uomo si sporse verso destra per poterlo vedere, visto che era rimasto nascosto tra la fessura della porta socchiusa.
Sorrise.
-Professore, che piacere! Vuoi lasciare il tuo amico Stephan qui sulla porta?-
A sentire quel nome lui sussultò leggermente e deglutì per cercare di calmare i pensieri malsani che stavano prendendo forma nella sua mente.
-Non… non ti avevo riconosciuto… sei m… molto cambiato!-
Riuscì a sussurrare senza però muoversi dalla sua posizione strategica.
-Cambiare fa parte della natura umana! Mi sei mancato amico mio.-
Anche il sentirsi chiamare ‘amico’ lo fece sussultare, ma inghiottì un altro boccone amaro, aprì del tutto la porta e una smorfia, che sarebbe dovuta risultare una specie di sorriso, gli si aprì in un angolo della bocca.
-Mi hai un po’ sorpreso… credevo… si insomma… avevo sentito dire che… che eri…-
-Morto!?-
Lo interruppe lui scoppiando a ridere.
-Anche le dicerie fanno parte della natura umana… specie quelle non vere!-
Senza dire altro e senza aspettare l’invito, entrò in casa con passo deciso, il Professore restò con la mano sulla maniglia della porta, senza muovere un muscolo, fino a quando lui si accomodò sul divano, con un sorriso beffardo sul volto.
Chiuse la porta e si avvicinò a passi lenti e piccoli, stritolandosi le dita e continuando ad inumidirsi le labbra.
-Andiamo Professore, sei davvero nervoso di vedermi? Non crederai seriamente che io sia un fantasma?-
L’uomo s’impose di non stritolarsi ancora le dita, si tolse gli occhiali e li poggiò con un gesto lento sul tavolino basso, si asciugò il sudore ancora una volta, posò il fazzoletto nella tasca del camice bianco e si sedette sulla poltrona di fronte a lui.
Cercò di mostrarsi sicuro, appoggiò le mani sui braccioli della poltrona e fece segno con la testa al suo ospite di cominciare.
-Cosa vuoi?-
Lui sorrise annuendo.

-Bravo il mio amico Professore! Ti ho sempre parlato del mio grande sogno no? Di quel best sellers che ho in mente di pubblicare? Bene… è arrivato il momento…e mi serve il tuo aiuto!



Angolo di Rebecca:

Grazie infinite per il bentornato, siete tanto affettuose *-* GrazieGrazie!

Veniamo a "loro"
I Caskett sono proprio carucci, Kate saltella in cucina e si chiede perchè è felice
(ma che domande si fa? Con Riccardone nel suo letto!?)
E lui è tenerone come sempre... e poi c'è sto tizio che va dal Professore... 


Una piccola curiosità: questa storia l'ho iniziata proprio nella data di questo primo capitolo, 26 febbraio 2013 :)

...e Grazie Grazie alle mie due splendide e pazienti Editor (ciao Vale, ciao Lisetta <3)

Questo è il promo della storia:

http://www.youtube.com/watch?v=dTs3RhmiNJc



 
  
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