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Autore: carocrazymofo    15/10/2013    2 recensioni
New York è grande, è rumorosa, è calda, è accogliente, è stronza. Sì, perché c’è così tanta gente in giro che le persone non ti guardano neppure in faccia, ti passano accanto come se niente fosse, nessuno nota più nessuno. Per essere notato, per avere la libertà e la possibilità di interagire davvero con qualcuno e di guardarlo negli occhi, devi andare per forza in un posto vuoto – posto assolutamente difficile da trovare, se non impossibile, a New York.
Così Louis cammina, cammina, e cammina; lui le persone le nota, le guarda, perché scrive e soprattutto perché è inglese.
Nota signore anziane perse in chissà quali questioni, bambini che si entusiasmano nel vedere uno scoiattolo in città, adolescenti con gli auricolari nelle orecchie e facce incazzate, uomini in giacca e cravatta e caffè in mano.
Cammina senza una vera meta. Ha intenzione di farlo fino a quando non scorgerà un locale abbastanza sconosciuto e abbastanza isolato e ignorato da poter soddisfare le sue pretese.
Ed eccolo lì.
Genere: Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Louis Tomlinson
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Louis non sa cucinare. Non sa cucinare nonostante abiti da solo da anni ormai ed una minima capacità culinaria servirebbe.
Louis non sa cucinare forse perché non gli piace poi così tanto mangiare, preferisce fumare le sigarette, o forse perché fino a qualche anno fa era abituato a tornare da scuola, accasciarsi su una delle sedie di legno al tavolo da pranzo e accontentarsi, senza lamentele o fare domande, di ciò che sua madre gli metteva davanti al naso.
 
Ha finito il suo turno di lavoro da Bloomingdales, ha preso la metro come ogni giorno, ha attraversato con tutta la calma del mondo – perché la sua giornata si può dire sia finita – i sette isolati che separano la fermata della subway da casa sua ed è arrivato al 1634 Nostrand Avenue.
Si è tolto le Vans blu che portava ai piedi, il capellino di lana, ha percorso i pochi passi che lo dividevano dal bagno del suo non troppo lussuoso e ne troppo ripugnante appartamento e si è lavato le mani; ha buttato la t shirt nel cesto dove accumula la roba che laverà quando l’appena menzionato cesto sarà pieno e ha afferrato al volo da camera sua il caricatore del cellulare e gli occhiali da vista.
Mentre cucina – cerca di cucinare – la pasta e il pollo a cui rinuncerà poco più tardi, accende il suo pc portatile, di una marca secondo lui neppure più in commercio e di una lentezza da spararsi, che però si avvia e ha una connessione web, e questo gli basta.
Più che altro Louis lo usa per scrivere, perché scrivere gli piace e lo rilassa quasi quanto fumare e quindi, quando fa le due cose contemporaneamente, può affermare di trovarsi davvero in paradiso.
Canta a squarciagola sovrastando la voce di Ben sule note di And we danced, mentre con una mano tiene una Pall Mall e con l’altra gira il sugo sul fornello; gli occhiali da vista rettangolari gli si sono appannati completamente per il vapore dell’acqua che bolle per la pasta, e deve decidere cosa una delle sue mani deve abbandonare per un momento: gli ci vuole giusto un attimo di indecisione prima di lasciare il cucchiaio sul ripiano e pulire alla meglio le lenti con un lembo del canovaccio lì vicino.
Non soddisfatto ma neppure deluso di sé, si dirige, ancora canticchiando, nel salottinoslashsala da pranzo.
 
Louis non sa cucinare ed è per questo che oggi, come ogni giorno eccetto quando si accontenta di un panino fuori casa, si trova difronte ad un piatto di pasta troppo cruda, troppo salata, condita con un sugo bruciato e anche questo troppo salato.
Seduto sul divano di pelle del suo appartamento, avvicina con le mani il tavolino di vetro al centro del salone per utilizzarlo momentaneamente come tavola.
Un piatto, troppo pieno per una sola persona, di tubettini al sugo Mutti, un bicchiere Ikea originariamente creato come porta candele dal signor Ingvar Kamprad e una bottiglia di Coca da 1L, davvero molto molto piccola e ridicola, dimensione single si può dire.
Comincia a mangiare la pasta già scottandosi il palato al primo boccone; sorseggia la coca-cola nel porta candele mentre guarda in televisione un film su un pilota alcolizzato che ha fatto precipitare un aereo, ordinato giorni prima sul suo Sky OnDemand.
Louis si sazia davvero con poco, e come già detto prima, non gli piace così tanto mangiare; è per questo che molto più di metà del suo pasto è rimasto lì dov’era, così come il primo e ultimo bicchiere di coca che si è versato, ancora poggiato mezzo pieno sul tavolino.
Si porta una mano sulla pancia nuda, come se avesse appena mangiato per dieci persone, e sente già le palpebre calargli per il sonnellino pomeridiano. Così si alza, si gratta una spalla tatuata e afferra, dalla tracolla che giusto un’ora prima aveva appeso all’appendiabiti all’ingresso, il suo pacchetto di sigarette.
 
Louis ha una teoria tutta sua sui fumatori, o comunque sul fumare: Louis afferma, da buon fumatore accanito già da otto anni, che sono cinque le sigarette obbligatorie della giornata.
Innanzitutto c’è la prima sigaretta della giornata, quella che fumi quando sei appena sveglio, quando trascini i piedi scalzi sul pavimento, magari con gli occhi ancora chiusi per metà, e metti sù la macchinetta del caffè; ti siedi su una delle sedie della cucina, non molto convinto se si tratti di un sogno o se per davvero sei in piedi, e aspetti che il caffè esca, aspetti di sentire quel rumore, come delle fusa, e capisci che è pronto, ed è nel momento in cui haila tazza con il liquido nero e bollente davanti agli occhi che sfili dal pacchetto la prima sigaretta.
La seconda sigaretta la fumi per spezzare le ore di lavoro, di scuola o di qualsiasi cosa tu stia facendo: in questo caso, Louis, verso le 11\11.30 esce dal centro commerciale e, che piova, nevichi, grandini o ci sia il sole non importa,  deve sentire la nicotina nel corpo e la gola bruciare dopo aver parlato con clienti per tre ore consecutive; perché sì, se per delle ore stai facendo qualcosa ma hai anche solo un minuto per pensare “perché non sto fumando?” o per guardarti le mani e inorridirti nel vederle vuote e senza qualcosa tra le dita, sai che devi fumare e non pensi ad altro se non al pacchetto ancora praticamente pieno che hai nel giubbotto. Ed è in quella manciata di minuti che ti è concessa che fumi la tua seconda sigaretta del giorno.
La terza sigaretta, è ovvio, la fumi dopo pranzo: la pancia piena, il corpo rilassato e carburato, gli occhi che già vogliono farti cadere in un sonno profondo e quella sensazione che provi, come se mancasse qualcosa al pasto che hai appena consumato, qualcosa di piccolo ma essenziale, come un dessert dopo un dessert. Ed è qui che fumi la terza sigaretta del giorno.
La quarta la fumi quando, con amici, fratelli, con il capo, con sconosciuti o da solo, in qualsiasi caso, prendi il necessario caffè pomeridiano; nessuno potrebbe mai rinunciare al caffè del pomeriggio, che è diverso dal caffè mattutino o da qualsiasi altro e chiunque si ostini a sostenere che è meglio il thè dice stronzate: anche Louis che, che cazzo, è inglese dalla nascita e newyorkese da appena tre anni, afferma che niente è meglio del caffè e sigaretta del pomeriggio.
L’ultima, la quinta sigaretta arriva la sera, ovviamente: gli dedichi necessariamente quei 3 minuti; lo fai o a casa sul divano, o durante l’intervallo del film al cinema, dopo una cena di lavoro o in macchina, con la mano fuori dal finestrino. E’ come una sorta di buonanotte, una specie di rituale prima di dormire.
Questa è la teoria di Louis sui fumatori e sulle sigarette; poi, che lui se ne fumi il triplo al giorno, è un’altra storia.
 
Sfila una Pall Mall e si ributta sul divano, consapevole che, non appena avrà finito di fumare, si addormenterà profondamente.
 
E infatti è così.
 
Si sveglia e sono le 19, il film è finito da circa un paio d’ore e Louis ha tutti i segni del divano e del cuscino di pelle sulla guancia destra.
Guarda il posacenere pieno di sigarette accumulate da giorni e giorni, poi guarda il piatto di pasta ancora lì, la bottiglia di coca cola bagnata e le goccioline che scendono fino al tavolino di vetro, bagnandolo, e si rende conto di essere solo.
E’ solo in una delle città grandi al mondo.
Così si da una mossa mentalmente, spronando se stesso a uscire di casa almenoper una volta, e va a cambiarsi; indossa una delle tante t shirt tutte uguali a tinta unita, un paio di pantaloni neri, classici, e le sue Vans, ed esce.
New York è grande, è rumorosa, è calda, è accogliente, è stronza. Sì, perché c’è così tanta gente in giro che le persone  non ti guardano neppure in faccia, ti passano accanto come se niente fosse, nessuno nota più nessuno. Per essere notato, per avere la libertà e la possibilità di interagire davvero con qualcuno e di guardarlo negli occhi, devi andare per forza in un posto vuoto – posto assolutamente difficile da trovare, se non impossibile, a New York.
Così Louis cammina, cammina, e cammina; lui le persone le nota, le guarda, perché scrive e soprattutto perché è inglese.
Nota signore anziane perse in chissà quali questioni, bambini che si entusiasmano nel vedere uno scoiattolo in città, adolescenti con gli auricolari nelle orecchie e facce incazzate, uomini in giacca e cravatta e caffè in mano.
Cammina senza una vera meta. Ha intenzione di farlo fino a quando non scorgerà un locale abbastanza sconosciuto e abbastanza isolato e ignorato da poter soddisfare le sue pretese.
 
Ed eccolo lì.
 
Quasi totalmente nascosto da una delle migliaia impalcature di metallo newyorkesi, porticina di vetro sporca, neanche un accenno di musica, nessuna insegna e neppure un’anima fuori ad aspettare di entrare. Louis si avvicina, sorridente e in qualche modo positivo, e apre la porta di legno che emette un leggerissimo e quasi impercettibile suono.
Nessuno dei quattro presenti sembra notare la sua apparsa, così si siede ad uno degli sgabelli e ordina da bere una birra all’uomo barbuto e in sovrappeso dietro il bancone.
Da’ le spalle a quello che è giunto alla conclusione essere il proprietario – perchè unico accenno di personale in sala – e sorseggia dal boccale la sua Anchor Steam scrutando le restanti persone.
L’occhio gli cade immediatamente su qualcuno in particolare, qualcuno che sembra essere lì, quella sera, per qualche motivo; perché, andiamo, cosa ci fa un ragazzo del genere, in locale come questo? Pensa Louis, senza forse rendersi conto che anche quel ragazzo potrebbe porsi la stessa identica domando riferendosi proprio a lui.
Il ragazzo in questione è seduto da solo ad uno dei tavolini infondo alla sala; ha il busto portato in avanti e si regge la testa colma di capelli con una mano, mentre con l’altra scribacchia qualcosa su un foglio. La sua birra è ancora mezza piena davanti a lui e dalla totale mancanza di bollicine e di schiuma in superficie, Louis capisce che deve stare lì già da un bel po’.
Indossa una maglietta bianca con dei disegni insensati ed inquietanti, insomma, orrenda, e dei jeans neri, ma Louis proprio non capisce cosa centrino con il resto quegli stivaletti di camoscio beige quasi fosforescente. Comunque riesce a vedergli l’unto nei capelli e i tatuaggi, anche quelli senza senso, sulle braccia , e decide, forse senza sapere neppure lui il perché, di avvicinarsi.
Il ragazzo è di spalle e non può vederlo camminare verso di lui, per questo quasi sobbalza sulla sedia quando Louis gli compare affianco.
“Hey” gli dice semplicemente “Sono Louis, posso?” e indica la sedia di legno vuota accanto a lui. L’altro lo guarda per un secondo e alza le sopracciglia, annuendogli.
“Cosa scrivi?” gli chiede ancora mentre quello prende un sorso dalla sua birra rossa. Il ragazzo ingoia, si pulisce la bocca con il dorso di una mano, anche quella tatuata qua e la, e “canzoni” risponde, afferrando il foglio scribacchiato e togliendolo dalla vista di Louis.
“Dai fai vedere” cerca di insistere lui, ma come risposta ottiene un semplice movimento negativo del capo, accompagnato da una smorfia della bocca. “E dai! Anche io scrivo!” pensa di rassicurarlo e convincerlo in qualche modo,  ma fallisce ancora.
“Cos’è? Sei uno di quegli artisti complessati che scrive testi mai finiti e strimpella una vecchia chitarra?” sputa acido, ma in maniera affettuosa quasi, giusto per prenderlo in giro.
“Già” risponde semplicemente il ragazzo accanto a lui, piegando in quattro parti il foglio e infilandoselo nella tasca posteriore dei jeans “ e tu cosa sei? Uno di quegli scrittori depressi che non ha neppure scritto il titolo del romanzo che sogna di pubblicare?”  e Louis pensa che sì cazzo, questo ragazzo ha la battuta pronta e gli piace, perciò ride, gettando la testa all’indietro per niente imbarazzato “Esattamente, lavoro a Bloomingades”afferma sorridendo.
Ora anche l’altro ride, sistemandosi i capelli senza forma, ma un tempo sicuramente riccissimi, con un gesto della mano, stessa mano che poi porge a Louis “Sono Harry” si presenta e così come lui, lo fanno anche le due fossette agli angoli della bocca. “io lavoro al lavaggio cani accanto a questo pub” gli dice Harry e Louis subito capisce il perché dei capelli unti.
 
Harry e Louis parlano, ridono, bevono, prendono in giro il locale e il suo proprietario obeso, si giudicano apertamente e fumano poi, intorno alle 23, la quinta sigaretta della giornata.
 
La mattina dopo, durante la sua seconda sigaretta della giornata, Louis trova ad aspettarlo fuori all’uscita principale di Bloomingades, Harry.
 
Louis si sveglia e sono le 19, un altro film è finito da circa un paio d’ore e ha tutti i segni del divano e del cuscino di pelle sulla guancia destra.
Guarda il posacenere pieno di sigarette sue e di Harry, poi guarda i due piatti di pasta ancora lì, la bottiglia di coca cola da 1,5L bagnata e le goccioline che scendono fino al tavolino di vetro, bagnandolo, e si rende conto di non essere solo.
  
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