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Autore: Acinorev    15/10/2013    10 recensioni
La comunicazione, verbale e non verbale, si basa su cinque assiomi, ovvero cinque principi impliciti e fondamentali. Il primo dice che è impossibile non comunicare: Caren l’ha studiato al liceo, accantonandolo subito dopo perché era troppo impegnata ad uscire con Henry o con Kim.
Eppure, a ventidue anni compiuti, si ritrova a ragionare sul serio su quel piccolo concetto sbiadito dagli anni, perché Lake lo incarna alla perfezione.
Lake non parla molto, perché le parole sono spesso inutili o superflue, ma questo non vuol dire che non comunichi: Caren l’ha capito quando lui le ha accarezzato un braccio con le dita ruvide per svegliarla. Quando ha baciato il suo collo prima di uscire di casa, con la sigaretta pronta ad essere accesa e i capelli in disordine. Quando ha percorso il suo corpo con le dita e le ha dato un confine.
Lake è comunicazione pura in ogni movimento che compie, in ogni respiro trattenuto e in ogni sguardo. Caren l’ha solo compreso in ritardo.
"Lui che dice qualcosa del genere? - domanda l'altra, divertita. Subito dopo scuote la testa e riprende. - No, non mi ha detto niente. Ma poi ti ha guardata, ed io ho capito".
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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Capitolo otto – And now?

 
La settimana seguente, Caren la passa tra il bar, la televisione rotta in salotto e la missione "Salviamo Ren" portata avanti da Enriqua: un misto  di telefonate prima di andare a dormire, minuti passati insieme tra gli impegni dell’una e dell’altra, e abbracci soffocanti.
Ha cercato di non pensare troppo, per quanto non sia stato affatto facile, e di impedire ad Henry e alle sue parole di condizionarla. E non può negarlo, ha anche cercato di soffocare la mancanza di Lake.
Non si vedono da sei giorni, esattamente: Caren ha avuto un paio di giorni di riposo - uno è stata obbligata a prenderlo da Barbara, dopo il suo incontro con Henry, e l'altro le spettava di diritto -, e Lake non si è fatto vedere, a causa di turni diversi dai suoi. O almeno questa è la sua ipotesi.
La verità è che si aspettava qualcosa, da lui, anche se non saprebbe definire cosa esattamente, il che è stupido ed infantile, perché non ne ha alcun valido motivo: insomma, un paio di baci non impongono nessun dovere, giusto?
Adesso, a distanza di una settimana, Caren sta ancora rimuginando sul peso sullo stomaco che sente, quando ad ora di pranzo non deve più preparare il solito panino, non deve più affrontare i silenzi di Lake ed i suoi occhi.
«Patetica. È solo una settimana» mormora tra sè e sè, pulendo troppo energicamente il bancone.
Non c’è molta gente al bar, a parte una coppia di fidanzatini all’angolo di fianco alla finestra ed un gruppetto di amici in cui l’età media è trenta o trentacinque anni: fuori c’è il sole e il caldo sta finalmente per arrivare.
«Ehm, tutto bene?» chiede pacatamente Barbara, mettendole una mano sulla spalla. Lei quasi si spaventa, ma sospira e «sì» sussurra soltanto, senza guardarla in faccia.
«Non mi sembra.»
Caren raddrizza la schiena e si morde le labbra. Aspetta qualche secondo prima di parlare, i capelli sciolti e il maglioncino blu che si è rivelato troppo pesante per quel mattino di inizio maggio.
«Sai per caso se oggi Lake lavora?» domanda infine, senza credere di averlo davvero fatto.
La voglia di vederlo è diventata insopportabile, e lei ha bisogno di provvedere, se non vuole impazzire.
Barbara alza un sopracciglio e ridacchia con la voce stridula. «Fa il secondo turno, se non sbaglio: dovrebbe finire alle 19:30» spiega, riprendendo a pulire la macchina del caffè come se per tutto il tempo avesse solo aspettato di darle quell’informazione.
 
Appoggiata alla parete bianca, con l'intonaco rovinato ed ingrigito, inspira profondamente e picchietta il piede a terra, con la suola degli stivaletti bassi e marroni che fa rumore.
Sono le 19:37, è arrivata lì troppo presto – meglio non dire da quanto - e il suo viso è coperto da un leggero strato di fard, che però la condanna comunque alla sua solita carnagione candida. La canottiera bianca, leggermente larga, continua a scendere un po' troppo e la giacca in tessuto beige la protegge dall'arietta fresca che è comparsa all'improvviso.
Passa una mano sulla coscia destra, fasciata da un jeans scuro, e chiude gli occhi per qualche secondo.
Quando li riapre, li fissa sull'insegna luminosa del "Morning Bar", dall'altra parte della strada.
Per un istante è tentata di tornare a casa o comunque di allontanarsi il più possibile in un tempo da record, ma è una sensazione che dura davvero troppo poco, purtroppo: c’è una parte di lei che è fin troppo ostinata a rimanere in quella esatta posizione, in attesa. Inoltre, anche se avesse assecondato quel suo istinto facilmente debellabile, non avrebbe fatto in tempo ad allontanarsi senza essere vista.
Lake, infatti, è appena uscito dalla porta in vetro del negozio: una palla da basket sotto il braccio, una felpa nera che Caren gli ha già visto addosso e dei pantaloncini di un verde lucido che gli lasciano scoperte le gambe magre e pallide.
La ragazza quasi trattiene il fiato, osservando il viso al quale ha più volte pensato, anche senza volerlo realmente: è illuminato dal lampione che sta ad un metro circa da loro, e ogni particolare risalta inesorabilmente a causa del chiaro-scuro.
Lui chiude a chiave la porta ed inizia ad abbassare le serrande, producendo un rumore assordante che per un attimo riesce a distrarre Caren dal battito del proprio cuore, dedito a manifestare la punta di felicità che sta provando nell’averlo di nuovo davanti.
Non l'ha vista, e lei ne approfitta per capire cosa dire o cosa fare. Quando poi si schiarisce la voce, facendo un passo verso di lui ed uscendo dal cono d'ombra nel quale si era rifugiata, Lake si spaventa, spostandosi con un piccolo salto di lato.
«Ma che cazzo» impreca, con gli occhi leggermente spalancati e assurdamente scuri.
Caren si lascia scappare una piccola risata e guarda la sua espressione rilassarsi, mentre lui si passa una mano sul collo.
«Sei tu» mormora Lake, tra il sollevato e l'apatico. Lei annuisce e aspetta che chiuda completamente il negozio: non si stupisce più del suo tono di voce, perché ha quasi imparato ad interpretarlo andando oltre le apparenze. Se prima lo avrebbe definito freddo e distaccato, ora riesce a capire che non è assolutamente tale, se lo si associa ad ogni più piccolo movimento ed ogni singola espressione di Lake mentre parla.
È più rilassata, ora che ce l'ha davanti, e deve trattenersi dall'allungare una mano per far fronte all'impulso di sfiorargli la linea dura della mascella.
Il familiare silenzio tra loro due non esita a presentarsi, disturbato solo dal rumore dello zippo grigio mettalico di Lake, che si sta accendendo una sigaretta facendo attenzione a non far cadere la palla.
«Hai da fare?» gli chiede, posizionandosi meglio la larga cinghia della borsa sulla spalla.
Gli occhi del ragazzo, purtroppo, sono più scuri del normale a causa del buio che li circonda: eppure è facile capire che si siano soffermati nei suoi, assottigliandosi mentre lui aspira del fumo.
«Vado al campo a fare due tiri» spiega, mentre Caren ipotizza che lo sport che pratica sia proprio il basket.
Abbassa lo sguardo e «ah» dice soltanto, leggermente delusa. Avrebbe dovuto tener conto della possibilità che lui potesse avere degli impegni, dopo il lavoro, e che magari avesse avuto voglia di passare il proprio tempo libero per gli affari suoi, al posto di stare con lei.
«Mi accompagni?» è la domanda che segue, la stessa che fa riscuotere Caren, che lo guarda dritto negli occhi prima di sorridere apertamente e annuire. Dire che non se l’aspettava è dire poco, eppure è una sopresa piacevole e capace di scacciare gran parte dei suoi dubbi.
Lake si volta e inizia a camminare con il suo solito passo lento, mentre lei lo affianca con un'espressione serena sul viso. Probabilmente, se qualcuno – se lui - la vedesse in quello stato, penserebbe che sia esagerata e alquanto infantile, ma poco importa.
Quando il braccio sinistro del ragazzo si sposta sulle spalle di Caren, per avvicinarla al proprio corpo, lei si stupisce, ma ne è sinceramente felice: ormai è quasi sicura che un contatto tra di loro, di qualsiasi tipo,  sia inevitabile e in grado di farla stare bene nel modo più semplice e allo stesso tempo strano che esista.
«Come stai?» sussurra lui con la bocca sulla sua fronte, con il respiro caldo sulla sua pelle, la stessa che rabbrividisce per un istante. Il tono è tranquillo e quasi caloroso.
Caren proprio non ci riesce, a non sorridere: lo fa con la consapevolezza o la speranza di non poter essere vista, e si sente libera di circondare la vita esile di Lake con un braccio, riuscendo ad accarezzare il suo fianco ossuto.
«Meglio - ammette, sospirando. Decisamente meglio, adesso. - Tu?»
«Bene» è la risposta, seguita da un leggero bacio sulla tempia.
Caren non sa cosa le stia succedendo, esattamente: sa solo che ha il battito cardiaco un po' più veloce, ma non troppo, il fumo della sigaretta che la avvolge e la pelle di Lake che brucia sotto le sue dita. Ha anche voglia di fermarsi, voltarsi verso di lui e guardarlo dritto in quelle iridi, che cercano di celarsi con indifferenza nella notte a cui assomigliano tanto, prima di baciarlo: ma a questo cerca di non pensarci.
Sa che stanno camminando tra i respiri lenti e le poche parole sulla giornata  appena passata, ma ancora lontana dall'essere conclusa.
Sa che quel ragazzo non le ha chiesto spiegazioni sulla sua presenza lì, limitandosi ad accettarla e a cercarla, invitandola ad andare con lui: e soprattutto, sa che è come se non fosse la prima volta che lo fanno, come se fosse normale, quasi una routine della quale non c'è da stupirsi.
E chi è lei per mettere in dubbio una sensazione così genuina e confortante?
 
È difficile stabilire se Lake sia davvero tanto bravo a basket, o se sia solo un'impressione, visto che lei è una schiappa. E non solo in quello sport, ma praticamente anche in tutte quelle attività che richiedano un qualsiasi sforzo fisico.
Lo osserva da bordo campo, seduta sul cemento irregolare con le gambe incrociate: lui continua a correre, saltare, palleggiare e, quando non fa canestro, a sospirare. Padroneggia la palla come se non avesse fatto altro per tutta la vita, e Caren ne è affascinata, perché la pelle di Lake è resa ancora più chiara dall'unico lampione che si trova dall'altro lato del campo e che emana una luce ocra e flebile; perché le sue mani le ricorda grandi, ma sembrano davvero piccole rispetto a quella sfera arancione con la quale giocano senza pietà; perché le sue labbra si stringono per lo sforzo, quando salta; e perché non pensava che le sue braccia magre offrissero dei muscoli tanto fini e definiti, proporzionati al suo corpo.
Ha voglia di accarezzarli.
Si alza e si avvicina a lui, che sta palleggiando nell'area del canestro che conoscerà a memoria, dato che nessun segno sporca il cemento sotto i loro piedi.
«Posso provare?» chiede stringendosi nelle spalle, con le mani in tasca e gli occhi sul suo viso leggermente sudato.
«Sei capace?» ribatte lui, guardando il canestro e poi lei. Lo sguardo curioso e provocatorio.
«Penso di no» ammette, storcendo il naso e ridendo, mentre osserva la palla tornare tra le mani di Lake dopo l’ennesimo palleggio. In un attimo però se la trova addosso, perché le è appena stata lanciata in compagnia di un «fammi vedere» divertito.
Caren ci prova davvero, a fare canestro: va a ripescare gli insegnamenti delle lezioni di educazione fisica del liceo, facendo attenzione a dimenticare invece il viso severo e a dir poco sgradevole del vecchio professore. Posiziona le mani nel modo che ricorda essere il più giusto - o che spera lo sia -, prende la mira e lancia, aiutandosi con un piccolo salto con il quale di sicuro si è dimostrata un po’ goffa.
Il problema è che ci ha provato, ma ha fallito miseramente, perché la palla ha mancato il canestro di un paio di metri e ora sta rimbalzando fuori dal campo, sull'erba umida. L'imbarazzo e la stizza per quel tiro, però, sono rimpiazzati subito da qualcos'altro.
Prima ancora che la ragazza riesca a gonfiare le guance o incrociare le braccia al petto come una bambina, infatti, Lake la stravolge con una risata: si è piegato leggermente in avanti e ha gli occhi ridotti a delle fessure, mentre anche il naso si arriccia di conseguenza. Caren è immobile, con lo sguardo su di lui e un sorriso incredulo sul volto: non può credere che Lake stia davvero ridendo, perché non gli ha nemmeno mai visto un sorriso sul viso, quindi la scena che ha davanti è a dir poco inaspettata.
Eppure le sue orecchie accolgono con piacere e divertimento il suono che scaturisce dalle labbra aperte del ragazzo, un suono acuto e strano, in disaccordo con il suo solito tono di voce calmo o con la sua serietà. Potrebbe essere definita una risata buffa, la sua. Una risata che capisce subito le piacerebbe sentire più spesso, molto più spesso.
«Michael Jordan, sei tu?» domanda Lake, dopo una manciata di secondi, prendendola in giro e cercando di affievolire la sua ilarità, ma senza grande successo.
Caren gli tira una pacca scherzosa sul braccio e  «insensibile» borbotta, velando un sorriso di finta offesa, mentre lui si avvicina per abbracciarla.
 
Dopo circa un'ora e mezza - o due? -, sono ancora sotto il canestro, la palla è ancora tra l'erba e la testa di Caren è sulle gambe tese di Lake.
Con il busto tirato su che la sovrasta, lui sta fumando - fuma più di quanto lei pensasse -, ma ha la mano sinistra tra i capelli biondi della ragazza, che sfiorano il cemento. Ogni tanto muove impercettibilmente le dita, quasi giocando e accarezzandola.
Non vorrebbe azzardare troppo, ma Caren è quasi convinta che lui non possa fare a meno di avere un contatto con lei, o forse anche con gli altri. Cerca sempre un pretesto – anche insignificante – per lambirla, e lei finge di non dare importanza alla cosa, ma in realtà aspetta con ansia di scoprire sempre nuovi modi di conoscere il suo corpo, nuove carezze e nuovi sfioramenti delicati. Ed è proprio in questi momenti che lei capisce quanto effettivamente Lake abbia ragione nel dire che spesso parlare non serve a niente.
Nel tempo passato con lui, ha imparato che non non importa che sia di poche parole, perché riesce a farle sapere tutto quello che vuole e che dovrebbe conoscere: la sua passione per il basket - nata quando aveva praticamente sei anni, ma mai trasformata in qualcosa di più per paura di macchiarla di presunzione -, la sorella Tracy che vive a Dublino con il marito e il figlio di appena un anno, il sogno di aprire una palestra, la madre con il diabete - "compra i biscotti di nascosto: quelli con la glassa sopra, hai presente? È impressionante" - e lo stipendio un po' troppo basso ma che si aggiunge al gruzzoletto che ha in banca.
Ha capito che potrebbe rimanere sdraiata sul cemento per altre ore, solo ascoltando la sua voce calma. Che parla mille volte più di lui, anche se riesce a sentirsi ascoltata ad ogni parola, anche dopo uno dei suoi soliti discorsi fatti di fantasticherie e voglia di dire. E ha capito che probabilmente Lake la chiamerà "Jordan" ancora per molto tempo.
«Comunque grazie. Per quel giorno in bagno» sussurra ad un certo punto Caren, dopo qualche minuto di silenzio. Alza gli occhi sul suo viso e lo guarda fumare con lo sguardo perso davanti a loro. Non hanno ancora accennato all’argomento, e lei sente il bisogno di farlo.
Lui finalmente le presta la sua attenzione e «cosa ti ha fatto?» chiede semplicemente, aspettando una sua risposta ma senza metterle pressione. E la sua domanda è precisa: non è stata un vago “cosa è successo?”, ma qualcosa di più profondo e netto. Lake sembra essere già sicuro che, qualsiasi cosa sia accaduta, l’abbia ferita e le sia stata inflitta da Henry tutt’altro che involontariamente: è così facile capirlo?
Caren sospira ed osserva il cielo sopra di loro: sono poche le stelle che si vedono, ma riesce a concentrarsi su una di esse, quella più luminosa.
Non è sicura di essere in grado di raccontare tutta la storia, forse perché non l’hai mai fatto con nessuno perché tutti la conoscevano già, o forse perché buttarla fuori a parole la renderebbe più reale, dopo esser stata relegata nella sezione “brutti ricordi” della sua mente per così tanto tempo. Eppure decide di provarci lo stesso: inspira profondamente e deglutisce quella decisione.
«Henry era nel mio stesso corso di biologia, quando ci siamo conosciuti al penultimo anno di liceo – comincia, in attento ascolto di se stessa, pronta a notare qualsiasi cenno di debolezza. – Un progetto insieme, poi una colazione e alla fine ci siamo ritrovati a vivere la solita storiella di due semplici studenti alle prese con il primo amore. Dopo il diploma io contavo di iscrivermi a scienze politiche, ma non sapevo assolutamente che lui avesse cambiato idea: al posto di seguire la carriera che il padre gli offriva nella sua azienda pubblicitaria, mi propose di andare via. Era già stato a qui a Worthing per far visita a certi parenti, e aveva un paio di amici disposti ad aiutarlo: chiamami stupida, ma io accettai subito di seguirlo».
Fa una pausa per riascoltare quelle parole nella sua mente, che ora, a distanza di anni, sembrano davvero insensate: all’epoca le sembrava di star vivendo l’avventura di una vita, con il ragazzo che tanto amava e lontana da ogni costrizione di responsabilità. Era libera e terribilmente innamorata.
«Sei stata coraggiosa» è il commento di Lake, che in qualche modo la stupisce. È un così bravo ascoltatore, da far dimenticare della propria presenza.
«E stupida – ripete Caren, sospirando. Poi chiude gli occhi per un attimo e torna a fissare quella stella sopra di loro. – Ero felice, sai? E ammetto di esserlo stata per parecchio tempo, perché alla fine avevo trovato un semplice lavoro in un call center che non era il massimo, è vero, ma che mi permetteva di pagare l’affitto insieme ai soldi che Henry guadagnava al supermercato dove faceva da cassiere. Avevo conosciuto Enriqua, quella di cui ti ho parlato, e avevo Henry. Stavo bene, in fin dei conti, ma forse è proprio questo che avrebbe dovuto preoccuparmi».
Un’altra pausa.
A Caren piace parlare: si trova a suo agio con le parole, perché riesce ad usarle come meglio crede senza troppe difficoltà, cosa che invece non vale anche per i suoi atteggiamenti, a volte troppo impacciati e goffi, o semplicemente troppo istintivi. Preferisce avere il controllo di una frase ben strutturata e rielaborata, anziché avere a che fare con un movimento di troppo o un respiro più corto degli altri.
Per questo il suo racconto non lascia alcun particolare all’immaginazione, e forse le fa bene: forse, dopo tutto quel tempo, ha solo bisogno di parlare di ciò che ha taciuto per il troppo dolore, di essere compresa da qualcuno come Lake.
Ascolta il fumo uscire lentamente dalle labbra di Lake, poi riprende. «Una mattina di circa un anno fa, mi sono svegliata ed Henry non era a letto – spiega, assottigliando gli occhi nel ricostruire la scena nella sua mente. – Di suo c’era solo un bigliettino sul tavolo in salotto: c’era scritto che era partito, anche se non precisava per dove, che aveva bisogno di tempo per pensare perché non capiva più i propri sentimenti e che non avrei dovuto cercarlo. Fino al giorno prima andava tutto bene, capisci?»
Caren sente la mano di Lake stringersi tra i suoi capelli. «Io comunque l’ho chiamato lo stesso, l’ho chiamato così tante volte da arrivare a conoscere perfettamente l’intonazione di ogni lettera pronunciata dalla sua segreteria telefonica. Alla fine è passato un mese, e lui è tornato: l’ho scoperto solo perché me l’ha detto Vins, un nostro amico. A quanto pare era stato in giro per l’Europa, e chissà da quale paese si era portato dietro la sua nuova ragazza – dice severamente, ripensando a lei e ai suoi capelli neri come la pece, quasi quanto i suoi occhi. – Ovviamente si sono lasciati dopo neanche due settimane, ma era evidente che Henry avesse fatto chiarezza sui suoi sentimenti, anche se non ha mai avuto le palle di dirmelo direttamente. Nemmeno io le ho avute, d’altronde: semplicemente non ci siamo parlati più, come se fossimo due semplici estranei senza nessun passato».
Le ha fatto bene parlare di quella storia, non c’è dubbio, ma allo stesso tempo sente il cuore lacerarsi sempre di più: è impressionante come riesca ancora a riprovare sulla propria pelle il dolore che la lancinava solo un anno prima.
Dopo circa un minuto di silenzio Lake dà un colpetto con l'indice sulla sigaretta, facendo cadere la troppa cenere accumulata, poi prende un tiro e guarda la ragazza, che nello stesso istante è tornata ad osservarlo. «Ti manca?» domanda semplicemente, senza commentare l’intera storia. Evidentemente sa che non ce n’è bisogno.
«Mi è mancato per tanto tempo - ammette la bionda, abbassando la voce. - Per così tanto che ora non so più se sia solo una specie... Una specie di abitudine» spiega, confessando quel piccolo segreto che le fa aggrottare leggermente le sopracciglia. In fondo sarebbe una bugiarda, se dicesse che non ci pensa più agli occhi di Henry, al suo modo di guardarla come se volesse farle capire di averla in pugno, al suo modo di baciarle la spalla quando voleva svegliarla.
Lake la osserva per qualche secondo, spostando la mano sinistra fino ad accarezzarle l’attaccatura dei capelli con il pollice. Getta la sigaretta e si piega su di lei, arrivando a così pochi milimetri dalle sue labbra schiuse, che la ragazza è costretta a respirare la sua stessa aria ancora impregnata di fumo.
«Ti manca, in questo momento?» chiede ancora. Le parole quasi inudibili e gli occhi che la inchiodano, che vogliono suggerirle la risposta, anche se non è necessario.
Caren si sente mancare il fiato, ha le mani che tremano impercettibilmente e l'osso sacro che non sopporta più il cemento sotto di sé. «No» sussurra soltanto, stupendosi della sensazione di sollievo che prova nell'ammettere quella verità.
Le labbra di Lake si inclinano all'insù, e lei non se ne stupisce nemmeno, perché ormai sa che i suoi sorrisi bisogna solo saperli provocare e che ci vuole molto meno di quanto si pensi. Quello di cui si sorprende, invece, è il caos che nasce al centro del suo petto, quando quel sorriso muore sulle proprie labbra, che da troppo tempo non saggiavano le sue.





 
 

Buooooonasera (: Perdonatemi per il leggero ritardo ma l'università e la mia vita mi si sono rivoltate contro e stanno cercando di distruggermi ahahah Spero che sia valsa la pena aspettare!
In realtà non ho molto da dire su questo capitolo: giusto nello scorso una di voi mi ha detto che avrebbe voluto vedere Lake al di fuori dello scenario del bar, e avrei voluto dirle che sarebbe successo presto, ma vabbe ahhaha In realtà lui è sempre uguale, anche se pian piano penso (spero) che alcuni suoi comportamenti siano sempre più chiari: c'è ancora qualcosina da scoprire su di lui! Anche Caren non si stupisce più delle sue poche parole e del suo tono a volte un po' distaccato, nonostante non facciano assolutamente parte di sè, e potete già vedere quanto lei sia diversa :)
Comunque, Lake ha i suoi modi di fare (quasi non si accorge di essere sparito per una settimana praticamente, anche se alla fine si nota il suo interesse) e a quanto pare è anche un buon ascoltatore: finalmente la storia tra Caren ed Henry è più chiara, YAY, quindi magari ora lo odierete sul serio ahahaha Però non voglio dire molto perché mi piacerebbe sapere le vostre impressioni :)

Vi ringrazio moltissimo per tutto, come sempre! E spero che vi sia piaciuto leggere questo capitolo, nonostante non succedano grandi sconvolgimenti! Fatemi sapere la vostra opinione se ne avete voglia :)

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Adios, 
Vero :)

  
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