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Autore: Flami Destrangis    16/10/2013    6 recensioni
Durante la presentazione dell'ultimo libro di Yusaku Kudo a Tokyo, a seguito di un errore Conan torna a rivestire i panni di Shinichi, risolvendo il macabro caso di omicidio in cui si trovano implicati. Nonostante cerchi come al solito di nascondere la sua comparsa, il giorno successivo sul giornale compare una foto della serata in cui sono ritratti lui e Ran. La nuova apparizione del detective liceale più famoso del Giappone sembra destare molto interesse: ma, allo stesso tempo, smuoverà le acque di una storia che non tutti vogliono riportare a galla.
“Mi piacerebbe correre fuori, lavarmi tutto di dosso. Lasciare scorrere sulla pelle ogni problema, ogni preoccupazione, ogni maschera e ruolo ed essere soltanto l'uomo che c'è oltre questo paio di occhiali e quella cravatta che mi piace tanto portare. Che cosa resterebbe secondo te?”
Il padre sembrò lanciargli uno sguardo disperato, come a chiedere aiuto. Come se avesse davvero paura che potesse non rimanere più nulla oltre tutto quello che ogni giorno lo ricopriva. Conan sorrise appena e gli porse la copia di "In bianco e nero" che teneva in mano.
“Ma che domande sono, papà. Lo sai anche tu: resterebbero i tuoi libri"
Genere: Drammatico, Generale, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ai Haibara/Shiho Miyano, Gin, Ran Mori, Shinichi Kudo/Conan Edogawa, Un po' tutti | Coppie: Ran Mori/Shinichi Kudo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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In bianco e nero
 


La prima attrice: “E' morto! Povero ragazzo! E' morto! Oh che cosa!”
Il primo attore: “Ma che morto! Finzione! Finzione! Non ci creda!”
Altri attori da destra: “Finzione? Realtà! Realtà!E' morto!”
Altri attori da sinistra: “No! Finzione! Finzione!”
Il padre: “Ma che finzione! Realtà, realtà, signori! Realtà!”
Il capocomico: “Finzione! Realtà! Andate al diavolo tutti quanti! Luce! Luce! Luce!”
(da L. Pirandello, “Sei personaggi in cerca d'autore”)
 


4. Human Nature




“E' oltremodo incredibile come spesso siano le persone più intelligenti a commettere gli errori più banali, stupidi e impensabili. Non trovi, Shinichi?” 
Yusaku si era chinato per riporre in una borsa il piccolo smoking, ormai inutilizzabile. I polsini della camicia si erano del tutto sfasciati, i bottoni della giacca  erano sparsi per terra, i pantaloni erano in più punti scuciti. Le scarpe erano finite sotto al lavandino, schizzate via da piedi improvvisamente diventati troppo grandi.
Shinichi aveva appena indossato i pantaloni che il padre e il dottor Agasa gli avevano portato. Seduto per terra, la schiena nuda appoggiata alla parete e i capelli incollati alla fronte da quel sudore freddo che non sembrava intenzionato ad abbandonarlo, aprì appena gli occhi, deciso a non accogliere quella constatazione che alle sue orecchie sapeva terribilmente di provocazione. 
Con un filo di voce roca e un abbozzo di sorriso, disse solo: “Grazie per avermi detto che ho una notevole intelligenza.”
“Shinichi, come ti senti?” chiese a quel punto il dottor Agasa. Il ragazzo sembrava terribilmente debilitato, e il raffreddore, che permaneva, non era migliorato. 
“Questa trasformazione mi ha dato il colpo di grazia. Ma ora non c'è tempo per stare male. Mi passi la camicia, dottore.”
Quello obbedì, porgendogli una camicia che Yusaku aveva portato con sé per ogni evenienza. 
Shinichi si alzò piano, come se stesse compiendo lo sforzo più faticoso della sua vita. La camicia non gli calzava a pennello: anzi, era larga sia sulle spalle che sulle maniche, ma non era quello il momento per preoccuparsene. I pantaloni neri erano già più della sua misura, e le scarpe non eccessivamente grandi: entrambi questi indumenti erano stati, per così dire, presi in prestito da una delle divise per camerieri avanzate. Aprì uno dei rubinetti, buttando il suo viso sotto ad un getto di acqua fredda. L'unico risultato fu che si sentì più sveglio di prima. Sapeva che l'unico rimedio per quel suo raffreddore, in quel momento, era pensare. Darsi da fare, scervellarsi su un problema, essere coinvolto fino al collo nel rischio. Come Sherlock Holmes, la sua mente si ribellava all'inerzia: doveva avere qualcosa su cui spremere le meningi. 
“E' successo qualcosa in sala?”
“A breve dovrebbero arrivare i risultati delle analisi sui bicchieri.”
“Dottor Agasa, ho bisogno di un favore.”
“Dimmi, Shinichi.” 
“Dica a tutti che Conan non si sentiva bene, e che ha dovuto riaccompagnarlo a casa.”
“Ma come faccio?” ribatté quello. “A nessuno è permesso abbandonare l'hotel.”
“Allora dica che ha chiamato un taxi, che l'ha riportato a casa. O che qualcuno è venuto a prenderlo. L'importante è che Conan abbia lasciato questo albergo. Bentornato, Shinichi.” disse Yusaku sorridendo, e rivolgendosi al figlio. Gli passò un braccio intorno alla spalla, e si fermò a osservare lui e suo figlio riflessi allo specchio.
“Indubbiamente, mi assomigli sempre di più.”
“E con questi,” aggiunse il figlio, ridacchiando e ponendo sul naso gli occhiali di Conan, “siamo davvero quasi identici. Mi mancano solo i tuoi baffetti da intellettuale.” 
Nel frattempo, Agasa era uscito per fare quanto richiesto. Mentre camminava a passo svelto, per quanto il suo fisco poco atletico potesse concedergli, andava pensando a quello che avrebbe detto Ai non appena venuta a conoscenza della situazione. Shinichi, sovrappensiero, aveva confuso l'antidoto all'APTX4869, uno dei farmaci più astrusi mai creati e che sfiorava i limiti della fantascienza, con una banale pillola per il raffreddore. Davvero la piccola scienziata ci avrebbe creduto? Oppure avrebbe pensato che, ancora una volta, il detective innamorato aveva fatto di testa sua? Il dottore era più che convinto che il maldestro errore di Shinichi fosse stato commesso in buona fede: quel ragazzo teneva più di qualsiasi altra cosa alla vita altrui. Non avrebbe mai rischiato di mettere a repentaglio i suoi più cari amici comparendo ad un evento tanto importante, rivelando così a chi lo credeva morto di essere ancora vivo e vegeto. I pensieri che si affollavano nella mente del dottor Agasa erano più che fondati. Shinichi, infatti, mentre osservava la sua immagine allo specchio, pensava già a come avrebbe potuto mascherare la sua improvvisa e inaspettata apparizione. Doveva evitare di farsi vedere al di fuori dell'albergo, dove le telecamere e i giornalisti erano stanziati in attesa dell'uscita della polizia e di un eventuale assassino da fotografare. Cercò di non pensare a quello che avrebbe detto Ai, e l'immagine della scienziata fu scacciata via dal volto di Ran, che si materializzò nella sua mente. La ragazza sorrideva, vedendolo arrivare. Poi si avvicinava, prima a piccoli passi, poi di corsa, e infine gli gettava le braccia al collo, dicendogli che le era mancato, che non vedeva l'ora di vederlo, che con lui tutto aveva un sapore diverso e il mondo si colorava improvvisamente.
“Ehi Shinichi. Una chiamata da Megure.”
Il volto di Ran sfumò, e il giovane detective ritornò alla realtà. Un bagno, una camicia troppo larga, un caso da risolvere. Anzi, due casi da risolvere: ormai Shinichi considerava anche se stesso un caso estremamente complesso: nascondere ogni suo movimento da occhi indiscreti non era così semplice come poteva sembrare. Sentì solo allora la suoneria del telefono del padre.
“Rispondi.”
“Non possiamo tornare in sala?”
“Non sono ancora sicuro di voler comparire di fronte a tutti.”
“Ho capito. … Pronto, ispettore?”
Restò un attimo in silenzio. Probabilmente l'ispettore gli stava chiedendo dove fosse finito, perché rispose: “Sono dovuto uscire un attimo per andare al bagno.”
Ancora silenzio. L'espressione di Yusaku si fece dapprima stupita, poi preoccupata e infine pensierosa. Annuì, ma ricordandosi che l'ispettore non poteva vederlo, si affrettò ad aggiungere: “Arrivo subito.” , e bloccò la conversazione.
“Che è successo?” chiese Shinichi, ansioso di avere notizie. Megure doveva aver comunicato qualcosa di molto importante, a giudicare dall'espressione del padre. Yusaku ripose il telefono in tasca e si appoggiò al marmo del lavandino.
“Hanno controllato gli altri bicchieri.”
“E?” incalzò l'altro, intuendo già quale sarebbe stata la risposta. Era scritta lì, negli occhi sconsolati del padre.
“Il veleno era presente in altri due calici. Le vittime designate erano tre.” 
Stettero un attimo in silenzio. Yusaku aprì il rubinetto, passandosi dell'acqua sulla fronte. Le lenti degli occhiali si bagnarono di minuscole goccioline trasparenti.
“Le nostre ipotesi erano corrette. L'omicida ha letto il libro, ora ne sono più sicuro che mai.” 
“Sospetti di Arthur, vero?”
“Dico che è il caso di interrogarlo. Quando gli ho attaccato quella microspia addosso, ha detto una strana frase..” 
“Che cosa?” chiese subito Yusaku, interrompendo Shinichi.
“Ha fatto un commento, qualcosa del tipo: è l'arte. E' andata come doveva, ma non è stato perfetto.” 
“E' andata come doveva, perché qualcuno è morto. Perché l'interpretazione si è tramutata in realtà.”
“Non è stato perfetto, perché non sono morte tre persone, né gli omicidi sono avvenuti dopo la fine dello spettacolo. Ma è stato orribile comunque. Non è contro ogni sentimento, papà? Dobbiamo ritenere una fortuna che il signor Sakamoto sia morto, perché così facendo ha inconsapevolmente salvato la vita ad altre due persone. A che livello capita di ridursi.”
“Tutto quello che è accaduto stasera non è solo contro ogni sentimento, Shinichi. E' contro ogni logica. Mi sembra di essere caduto in un vortice senza fine, che ci spinge sempre più giù. E tutto è cominciato da quel libro.”
“Non fartene una colpa.”
“Non è facile non pensare di essere la causa di tutto.”
“Comunque sia, non abbiamo ancora provato le nostre ipotesi. Non è detto che Arthur Newman sia il colpevole.” Shinichi pronunciò quella frase con tono incerto, come se non ci credesse nemmeno lui. Un maldestro tentativo di smantellare un'ipotesi ben costruita, nel tentativo di alleviare il cervello martoriato del padre.
“Se non è lui, è stato comunque qualcuno che ha letto quel libro. Maledetto libro: non c'è niente che valga la vita di una persona.”
Calò il silenzio tra i due. Entrambi non stavano forse pensando a nulla: l'emozione era salita fino al cervello, e i sentimenti si stavano scatenando in un lotta furiosa per avere la meglio l'uno sull'altro. La ragione ne usciva sconfitta in partenza.
“Non cercare di convincerti, non riusciresti mai ad odiare quel libro.” 
Aveva parlato il cuore di Shinichi. Quello di Yusaku, colpito in pieno, non rispose. Un'altra freccia stava per arrivare.
“Potresti ficcarti in testa duemila pensieri, tremila convinzioni, quattromila sensi di colpa. Potresti pensare che nulla di tutto ciò è giusto, e avresti il mio pieno appoggio. Ma non riusciresti mai a odiare davvero quel libro: ne sei l'autore, ed è come tuo figlio. Le parole sono frutto della tua mente, fuoriuscite attraverso uno squarcio nella tua anima, e volate via fino alla carta. Ci sarà sempre un filo di incredibile complicità che ti legherà a In bianco e nero. E lo sai perfettamente, vero? E' forse questo ciò che ti pesa di più. Non riuscirai ad odiare quel libro, per quanto ti sforzi di farlo.”
Yusaku, immobile come una statua, continuava a fissare il marmo del lavandino. Non rispondeva, cercava di chiudersi, di allontanarsi dalla mente scrutatrice del figlio. Shinichi, come ritornando in sé, si accorse di aver esagerato. Ma che diavolo aveva detto? Non era certo quello il momento. Alle volte era davvero un pessimo appoggio per le persone che gli erano intorno. 
“Mi dispiace, io..”
“Lascia stare.”
“Ma..”
“Ho detto che non importa.” tagliò l'uomo, con voce imperiosa. Non voleva un'altra parola a riguardo, e il tono alto e potente ne era la testimonianza. Shinichi non osò replicare, e rimase zitto, facendo un passo indietro. 
“Scusa, non dovevo alzare la voce.” continuò Yusaku, rendendosi conto di aver esagerato. Il ragazzo scosse la testa, come a tranquillizzarlo. Tra loro due non dovevano esserci incomprensioni. 
“Ora sarò meglio andare a informare l'ispettore della nostra ipotesi, per interrogare Arthur. Dobbiamo togliere ogni dubbio dalla mente.” aggiunse ancora lo scrittore. La voce suonava affaticata. Quella serata sembrava lunga una settimana. Voleva solo che terminasse, non importava come: ormai al lieto fine ci aveva rinunciato da un pezzo.
“Ho paura che la notizia della mia comparsa possa finire sui giornali. Prima di sparire, le mie foto erano su tutte le testate principali.”
“Non ci sono giornalisti nell'hotel. Metteremo tutto a tacere in seguito, come sempre. Non preoccuparti.”
“E va bene. Però mi sa tanto che questi devo toglierli.” disse, sfilando dal viso gli occhiali di Conan. Involontariamente li azionò, e sulla lente comparve la schematica mappa munita dei punti cardinali. Un puntino rosso si muoveva illuminandosi a intermittenza.
“Cavolo.” bisbigliò.
“Che c'è?”
“Si sta muovendo. La microspia.. Arthur Newman si sta muovendo. E' fuori dall'albergo. Ma come ha fatto ad uscire, dannazione?”
“La stanzetta dietro la tenda.” disse Yusaku, come se avesse avuto un'illuminazione improvvisa. 
“Ma non c'era alcuna porta lì!”
“C'è una specie di passaggio a cui si può accedere. Sulla parete di destra di quella piccola saletta, in basso, vi è una piccola porticina, si apre come un'anta. Da lì vi è un corridoio che una persona sufficientemente bassa e magra può percorrere a gattoni, e che attraversa  il perimetro della sala: permette anche di uscirne. Il proprietario dell'albergo mi ha spiegato che è stato costruito di recente: spesso vengono fatte delle rappresentazioni teatrali, e quel passaggio permette, in caso di emergenza, di portare qualsiasi cosa sul palco o agli attori senza che il pubblico se ne accorga, in quanto è in collegamento diretto con il corridoio esterno ed è invisibile a chi è nel salone. Da lì può essersi intrufolato in un altro bagno, e fuggito dalla finestra.”
“E come faceva lui a sapere di tutto questo?”
Yusaku alzò lo sguardo, fissando il figlio negli occhi. Sembrava che gli fosse appena tornato in mente un'altra cosa, estremamente fondamentale.
“Era con me quando me ne hanno parlato.” 
Restarono un secondo in silenzio. Un interminabile attimo, prima che Shinichi sbattesse il pugno sul muro, urlando: “Dannazione, dobbiamo sbrigarci!”
Spalancarono contemporaneamente la porta del bagno e presero a correre, lasciando che sbattesse rumorosamente alle loro spalle. Shinichi continuava a controllare i movimenti di quel pallino rosso, mordendosi il labbro inferiore nel tentativo di scaricare i nervi. Quello li aveva fatti fessi, se l'erano lasciato sfuggire sotto il naso.
“Procede lentamente, è a piedi.”
“Bisogna avvertire l'ispettore, Shinichi!”
“Non c'è tempo ora per spiegargli tutto, rischiamo di perderlo. Io me la voglio giocare fino in fondo questa partita, e tu?”
Il padre rispose senza un attimo di esitazione. La voce sicura trasmetteva la certezza che ce l'avrebbero fatta.
“Ci puoi scommettere. Usciamo dal retro, eviteremo di incontrare i giornalisti.” 
Corsero a perdifiato lungo il corridoio, fino a raggiungere le uscite secondarie dell'albergo. Degli agenti presidiavano le porte, guardandosi intorno con espressione annoiata. Erano probabilmente delusi per il compito marginale che era stato loro assegnato: controllare delle uscite secondarie poco frequentate da cui nel novanta per cento dei casi non sarebbe passato nessuno. Furono quindi molto sorpresi quando si videro sfrecciare davanti due persone, di cui una che gridava: “Subito a destra dopo la porta!”
Non fecero in tempo a fermarli che quelli erano già fuori. Gli agenti, consultandosi con uno sguardo, si lanciarono subito all'inseguimento, elettrizzati per l'inaspettato avvenimento. Forse quei due erano i colpevoli che l'ispettore cercava all'interno della sala? Se li avessero acciuffati, allora sì che la loro carriera avrebbe preso una piega davvero positiva. Uno dei due agenti prese la ricetrasmittente dalla tasca, sputandoci dentro parole e saliva.
“A tutte le unità, stiamo inseguendo due individui sospetti che sono scappati dall'uscita sul retro numero quattro dell'albergo. Si stanno dirigendo verso il quartiere di Beika. Ripeto: stiamo inseguendo due elementi sospetti che hanno lasciato di corsa l'hotel varcando il nostro posto di guardia.”
Se avessero saputo che i due individui sospetti altro non erano che Yusaku Kudo e il figlio, uno dei più famosi detective del Giappone, probabilmente sarebbero arrossiti per la vergogna. Eppure, la loro azione non si sarebbe rivelata del tutto inutile. Shinichi e Yusaku stavano inseguendo il più importante sospettato per l'omicidio. I due agenti stavano inseguendo Shinichi e Yusaku. Per una sorta di proprietà transitiva stavano dunque inseguendo anche l'omicida.
“Ehi, ci sono dietro!” esclamò lo scrittore, osservando gli agenti che li rincorrevano. “Ma tu guarda: siamo riusciti a smuovere la polizia senza perdere un secondo di più.”
Shinichi sorrise nella sua corsa, guardandosi indietro e vedendo i due poliziotti che li rincorrevano cercando di stare al loro passo. Ad uno sguardo veloce, sembravano due uomini di mezza età. Uno aveva una ricetrasmittente in mano. L'altro sembrava già provato dallo scatto improvviso a cui era stato sottoposto.
“Sono dannatamente lenti. Rischiamo di seminarli.” 
Pronunciato queste parole, Shinichi stesso si accorse di avere il fiatone. Il raffreddore provava notevolmente il suo corpo, e anche la trasformazione appena subita di certo non doveva giovare alla sua forma fisica. E se non avesse retto lui per primo a quell'inseguimento? No, il puntino era sempre più vicino e si muoveva troppo lentamente per pensare di sfuggir loro. Ma non poteva permettersi rischi, il fiato gli si stava mozzando in gola. Vedeva il padre un passo avanti a lui, che si girava in continuazione in cerca di indicazioni. Ma sì, in fondo quella non era davvero la sua battaglia. Era la sfida terribile in cui Yusaku si era ritrovato catapultato.
“Papà!” urlò, per cercare di superare il frastuono delle macchine. Si trovavano ora in una strada principale. Si sfilò gli occhiali dal naso, e accelerando raggiunse il padre che correva poco avanti. “Prendili tu, fai strada. Questo raffreddore mi uccide il fiato e la trasformazione mi ha inferto il colpo di grazia. Se non dovessi più farcela a correre, allora vai avanti senza perdere altro tempo.”
Rimase zitto, per evitare di sprecare altre boccate d'aria preziose. Yusaku prese gli occhiali senza dire altro, stringendo forte la stanghetta della mano destra. Se gli fossero caduti sarebbe stata la fine.
“Di qua!” urlò, tagliando per una traversa laterale, con Shinichi dietro che lo seguiva. Il puntino rosso era davvero vicinissimo. E procedeva sempre più lento, come se si stesse fermando. Sentirono delle sirene in lontananza: forse anche delle auto della polizia si erano mosse? Ma quella via laterale era pedonale, troppo stretta per consentire il passaggio di un'autovettura. Li avrebbero irrimediabilmente persi, loro che scorrazzavano per la metropoli in cerca di due persone di cui non avevano nemmeno visto il viso. 
Yusaku sembrò intuire i pensieri del figlio: “Non preoccuparti, chiameremo l'ispettore e gli altri una volta sul posto. L'importante ora è prenderlo.”
Sbucarono in una delle grandi arterie che costeggiava il fiume. Più in là, illuminato dalle luci artificiali e dalle macchine che vi passavano, un imponente ponte metallico permetteva il passaggio. Le lucette sembravano tante piccole stelle al livello del mare: e, con le loro luci finte e accecanti, impedivano la visione di tutti quegli astri che maestosamente puntellavano il cielo.  La luce della luna filtrava appena attraverso un manto di nubi che la attraversava piano, coprendone i raggi fasulli. Di tanto in tanto se ne vedeva uno spiraglio, e una luce grigiastra che rifletteva le nuvole andava ad espandersi come diffusa con delicatezza. Era lo scenario perfetto per un film ai limiti dell'orrore.
“E' qui, da qualche parte.” disse piano Yusaku, osservando quel pallino rosso. Non poteva fermarsi, o ripartire dopo quella corsa sarebbe stato più difficile che continuare. “Ma dove? Su quel ponte, forse.. no..” 
Alzò gli occhi a guardare la metropoli che si estendeva davanti a lui. Arthur Newan era lì, a meno di un chilometro. Scrutò a destra e a sinistra, rallentando appena, cercando il posto dove il giovane poteva essersi fermato. Sì, perché quella luce rossa non si muoveva più. Solo qualche piccolo passo che la microspia rilevava appena. Si avvicinarono al ponte, ma la lucetta indicava un luogo successivo. Ed era alla loro destra, come se Arthur fosse in mezzo al fiume. E se si fosse suicidato? Se fossero arrivati troppo tardi? Fu allora che vide, a circa trecento metri, un ponte pedonale. Non particolarmente largo, e non molto frequentato, dato che il passaggio pedonale vi era anche sul ponte che si era appena lasciato alle spalle. Ma quello che aveva davanti era un trionfo dell'architettura, con le sue grandi arcate  e i lampioni che lateralmente lo illuminavano, sbucando dal muretto che permetteva ai passanti di fermarsi un attimo ad ammirare il cemento e i vetri dei grattacieli.
“Sul ponte pedonale!” urlò, accelerando ancora di più. “Shinichi, ti precedo!”
Non fu in grado di definire da dove le sue gambe trovassero quella forza per schizzare avanti, sempre più veloce. Sentiva l'aria sferzargli la pelle, scombinargli i capelli e cacciargli gli occhiali quasi sugli occhi: era come un maratoneta alle prese con lo scatto finale verso la vittoria. Verso il traguardo. Ma non c'era nessuna striscia da abbattere ad attenderlo; nessun applauso, nessuna fama, nessuna gloria, nessuna soddisfazione, nessun orgoglio. Solo un groviglio di pensieri da sciogliere. 
Man mano che si avvicinava vedeva una figurina esile stagliarsi appena al centro del ponte. Non c'erano altri passanti: era come se su quella stradina volante di pietra la confusione della città non potesse accedere. Le macchine che passavano poco distanti sembravano appartenere ad un altro mondo. Rallentando, Yusaku superò i paletti che delimitavano il ponte, impedendo l'entrata ai veicoli. Gli insetti svolazzavano intorno alla luce dei lampioni, di tanto in tanto sbattendo sul vetro. Insieme creavano un brusio appena percettibile, eppure chiaramente riconoscibile. Lo scrittore riprese fiato, camminando. Arthur era immobile, appoggiato al muretto che faceva da parapetto: fissava il fiume nero che si increspava appena sotto i loro piedi. Più lontano, il ponte metallico illuminato, il simbolo della città che si erigeva attorno a loro. Rimasero qualche minuto in silenzio. L'attore non sembrava intenzione a scappare, o a compiere qualche azione spericolata: era semplicemente lì, immerso in una surreale tranquillità. Teneva in mano, stretti al petto, alcuni fogli riuniti in un ordinato plico. 
Yusaku si chiese se si fosse accorto di lui. Arrivano delle parole a confutare ogni suo dubbio: “Non dubitavo che prima o poi qualcuno mi avrebbe trovato. Ma sono felice che sia stato tu.”
La sua voce non tradiva una particolare emozione. “Vorrei solo sapere come hai fatto a capire che ero qui.”
“Questo non ha importanza, ora.”
“Hai ragione.” ammise quello. “Non ha importanza.”
Yusaku si avvicinò ancora di più. Erano a circa un metro di distanza. Appoggiò una mano sul parapetto, e parlò più con la voce apprensiva di un padre che con il tono di un accusatore.
“Che cosa hai fatto, Arthur?”
Decise di usare l'inglese. Sapeva che Newman conosceva abbastanza bene il giapponese, ma usando la sua lingua madre avrebbero potuto conversare più fluentemente. Non voleva incomprensioni in quel dialogo.
Il giovane si girò a guardarlo. Gli sembrò quasi che le pupille gli tremassero, oltre quei vetri così spessi.
“Cos'ho fatto? Non lo so. Volevo far vivere la mia arte.”
“La nostra arte è già viva, e lo sarà sempre. E' dentro di noi, dentro ognuno di noi. Ed è per questo che è più reale di qualsiasi altra cosa.”
“Sarebbe stato lo spettacolo perfetto.” sussurrò l'altro, tornando a guardare davanti a sé. Yusaku si accorse che non lo stava ascoltando. “Sarebbe stato come il suo..”
“Come il suo? Di chi stai parlando?”
“Quello di suo padre.” 
Era intervenuta una terza voce. Shinichi, ansimante, li aveva raggiunti. Tossì, parlando a fatica. Rosso in viso e con i capelli attaccati alla fronte per il sudore che quell'influenza lo condannava a subire, si sforzò di non cedere.
“Tuo padre è morto sul palco in un terribile incidente. E' morto mentre recitava, e gli spettatori, attoniti, non capivano più se si trattasse di finzione o realtà. Era quello che volevi ricreare, vero? Volevi ricreare quell'episodio?”
“Volevo raggiungere il massimo. Toccare la vetta in cui realtà e fantasia si fondono in un unico plasma dai contorni indefiniti. E poi non mi sarebbe importato più di nulla. Sarei stato come papà.”
Il tono si stava incrinando. Gli occhi divennero lucidi.
“Lo so che è difficile, la morte di tuo padre, quell'infanzia così dolorosa.. non ti chiedo di dimenticare. Ma puoi provare a ricominciare.” Yusaku lo stava quasi implorando. Quel ragazzo gli aveva distrutto l'anima, era vero. Aveva ucciso. Ma sembrava così dannatamente fragile. 
“Non pensavo che avrei avuto paura dopo..” continuava quello. Era come se non li sentisse, come se stesse conversando con se stesso. L'ultimo disperato monologo della sua carriera. Un soliloquio delirante che si espandeva nell'aria come una melodia data dai tasti stonati di un pianoforte rotto.
“Dammi la mano. Ti aiuterò, te lo prometto.” 
Yusaku tese il braccio, ma il giovane sembrò non accorgersene. Shinichi li osservava, guardava il padre tentare di ricomporre i pezzi di quella serata distrutta. Ebbe ad un certo punto la strana sensazione di essere di troppo su quel ponte, ma non seppe spiegarsi perché. C'erano il regista e l'attore. Lui non aveva un ruolo preciso in quella scena della tragedia.
Arthur si girò per un attimo, e sbarrò gli occhi.
“Papà.” sussurrò soltanto.
Yusaku sentì gli occhi diventargli lucidi. Quel ragazzo si era macchiato di qualcosa di orribile: ma ora sentiva soltanto la tristezza dilaniargli il cuore. Non lo comprendeva, forse non l'avrebbe mai compreso. Riusciva a provare una terribile pena e compassione per quella mente che si stava sgretolando davanti ai suoi occhi.
“Sì, sono io. Dammi la mano, Arthur. Torniamo a casa, insieme.”
“Papà, mi dispiace...”
Piangeva silenziosamente. Le lacrime gli scendevano sulle guance, e andarono a bagnare i fogli che teneva stretti al cuore.
“Va tutto bene, va tutto bene. Dammi la mano, e non preoccuparti di nulla.”
Si avvicinava piano, un passettino alla volta. La mano sempre porta in avanti, verso quel ragazzo che aveva preso a tremare.
“Ho paura, papà.”
“Non devi averne, non ti succederà nulla.”
“Ho paura che sarà tutto buio. Ho paura che avrò freddo, e non smetterò più di tremare.”
Yusaku capì improvvisamente cosa presagivano quelle parole oscure. Sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Doveva fermarlo, subito. Ma al contempo doveva agire con calma.
“Dammi la mano, Arthur. Vieni con me.”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. 
“Vedo le stelle. Sembrano piccole, ma sono luminose.. come mi dicevi da piccolo, te lo ricordi?”
“Certo che me lo ricordo, Arthur. Le guardavano insieme, in quelle notti..” si fermò, non sapendo che altro inventare. Non poteva azzardarsi oltre, o avrebbe rotto quella complicità.
“Ma se andremo lassù, e sono così luminose, non avremo freddo. Non devo avere paura, è tutto finito.”
“No, Arthur, non farlo, dammi la mano, ti prego!” alzò improvvisamente la voce, incrinata dalla tristezza e dalla disperazione.
“Grazie di tutto, papà. Ti voglio bene. Sto arrivando.” 
Sorrise malinconicamente a Yusaku. Ma ora aveva smesso di tremare. Sembrava tranquillo, quasi rassegnato. Beatamente calmo. Lanciò in aria il plico di fogli che teneva al petto. Le pagine bianche si dispersero volteggiando nella notte. Poi si sporse oltre il parapetto, lasciandosi scivolare con grazia, quasi come una graziosa farfalla trafitta che tenti di spiccare il volo, e improvvisamente si accorga di non esserne più capace.
“Noo!” urlò Yusaku, balzando in avanti. Afferrò la camicia, ma tutto quello che ottenne fu di ritrovarsi un lembo di stoffa bianca  in mano. Arthur si era lasciato cadere in silenzio, sorridendo. 
“No...” disse ancora, appoggiandosi al parapetto. Si accorse solo allora che Shinichi era accanto a lui, ancora sporto in avanti oltre il muretto. Probabilmente aveva tentato di afferrare Arthur. 
Yusaku sentì le lacrime bagnargli le guance. Era finita nel peggiore dei modi. Non era riuscito a salvare nemmeno chi avrebbe potuto. Si portò le mani alle tempie, e cadde sulle ginocchia, avvertendo improvvisamente tutta la stanchezza accumulata. La tensione di ore gli era cascata addosso in un attimo. Qualcosa si era sciolto dentro di lui, scorrendogli improvvisamente dentro: e questo qualcosa bruciava da morire.
“Papà..”
Shinichi si era chinato accanto a lui, portandogli un braccio intorno alle spalle. Si inginocchiò, cercando di stargli il più vicino possibile. Sapeva che ora il padre stava soffrendo come non mai. Anche lui aveva avvertito una profonda tristezza durante quel dialogo fatto da frasi scomposte e lacrime silenziose, e anche lui ora provava una profonda rabbia per non essere riuscito a salvare nemmeno quella vita. Ma sapeva che per Yusaku tutto ciò doveva essere ancora più forte. 
“Quel maledetto libro. Se solo non lo avessi scritto...”
Nel momento stesso in cui lo disse, un foglio si poggiò sulla sua spalla. Lo prese in mano, e vi lesse il copione di quella serata. Il soliloquio del serial killer, tratto dal suo romanzo. Si accorse che era bagnato. Stava piangendo, senza una parola né un singhiozzo. Si alzò in piedi, protendendo il braccio in avanti, e lasciò cadere quella pagina, che andò a mischiarsi con quelle altre poche che ancora svolazzavano. Dovevano essere tutte le parti che Arthur aveva interpretato. In quel momento capì che Shinichi aveva ragione. Avrebbe potuto forse convincersene, ma avrebbe mentito a se stesso: non avrebbe mai potuto odiare quel libro, non avrebbe mai potuto odiare la sua arte. Perché era ciò che faceva battere il suo cuore e respirare i suoi polmoni. Uno strano silenzio li stava avvolgendo. Le vittime di quella notte non le avrebbe mai dimenticate.
“Riposate in pace.” disse piano.
Si chiese perché stesse piangendo le stesse lacrime per la vittima e l'assassino. Non seppe darsi risposta: forse non conosceva abbastanza a fondo se stesso.
Gli insetti continuavano a disegnare le loro traiettorie irregolari intorno alla luce dei lampioni. Sbandavano senza un apparente controllo. Yusaku si soffermò un attimo a guardarli: in fondo, la natura umana non era poi così diversa da quei cerchi insensati e privi di regole. Era così diversificata e così incomprensibile che non avrebbe mai smesso di affascinare, ma allo stesso tempo non sarebbe mai stata capace di dare risposta alcuna ai suoi misteri.




L'odore della nicotina era il profumo di quella vecchia macchina nera. Se vecchia la si poteva definire, poi. La carrozzeria sembrava appena verniciata e ripulita, e la luce la faceva scintillare come se fosse appena uscita dalla fabbrica. A guardala così, passeggiare lentamente per le vie notturne della città, ci si sentiva in un altro tempo e in un altro mondo, immersi improvvisamente in un passato dal gusto saporito e amaro allo stesso tempo. Il motore della  Porsche 356A borbottava, facendo scorrere le ruote di quel gioiellino avanti per le vie del quartiere di Haido. All'interno, due uomini stavano seduti in silenzio. Quello alla guida era di corporatura robusta, le grosse spalle larghe occupavano interamente la grandezza del sedile e le mani ampie e un po' callose tenevano saldamente il volante. Sul viso delimitato da un'imponente mascella quadrata e da lineamenti duri e marcati, portava un paio di occhiali da sole ormai fuori moda. Non sembrava importargli del fatto che guidare di notte con occhiali del genere di sicuro non favoriva la visibilità. Accanto a lui, un altro uomo dai lunghi capelli di un biondo particolarissimo, tra il cenere e il platino, si era appena acceso una sigaretta. Il colletto dell'impermeabile era completamente alzato, e gli copriva in parte il viso sottile e asciutto. Stringeva gli occhi verdi fino a farli diventare due fessure, che andavano assottigliandosi verso il naso leggermente appuntito. Era senza dubbio un bell'uomo: assieme a quella giacca nera, sembrava avvolgerlo un'aurea di fitto mistero. Di tanto in tanto guardava fuori dal finestrino o dal parabrezza, squadrando qualche passante con noncuranza e attenzione allo stesso tempo: era come se nulla potesse sfuggirgli, ma allo stesso quel senso di superiorità che era insito in lui lo faceva elevare più in alto, potendosi permettere, con una sola occhiata, di comprendere tutto un bel pezzo prima degli altri.
“Ehi, Aniki, che ne dici di quel tizio di prima?” chiese l'uomo al volante, rompendo il silenzio. La sua voce era grossa e roca. Tossicchiò, schiarendosela.
Il biondo fu lapidario: “Non penso ci darà seccature, è troppo stupido e poco idealista per mettersi contro di noi. Ci darà quei soldi. In caso contrario, vedremo di prenderceli in un altro modo.”
La sua voce trasmetteva un'estrema calda. Era imperturbabile come una statua di ghiaccio incapace di sciogliersi anche alle temperature equatoriali del deserto. L'altro ridacchiò, capendo l'allusione. In caso contrario, avrebbero dovuto fare quello che facevano sempre. Prendersi ciò di cui avevano bisogno e far sparire ogni traccia del loro passaggio. Questo implicava spesso lasciarsi qualche cadavere alle spalle, ma ciò non importava. I morti tornavano solo a tormentare la coscienza dei più deboli. Per i più forti rimanevano sottoterra, ossa e cenere quali erano.
“Perché non facciamo un brindisi per festeggiare la riuscita dell'affare?”
“Non abbiamo niente da festeggiare, Vodka. Era un'operazione che avrebbe potuto svolgere anche l'ultima ruota del carro. Passiamo alla base e poi per oggi abbiamo finito.”
Non sembrava intenzionato ad aggiungere altro. L'omone chiamato Vodka deglutì, forse un po' deluso o forse un po' spaventato. Il capo sembrava nervoso, nonostante l'uomo che aveva incontrato quella notte, un famoso imprenditore implicato in un traffico di stupefacenti e che tenevano costantemente sotto ricatto, avesse accettato di dare loro quei soldi senza fare storie. Decise che era meglio non contraddirlo e lasciarlo in pace, almeno fino a che la sigaretta non fosse riuscita a calmarlo.
“Come vuoi, Gin.”
Continuò a guidare in silenzio. Erano quasi giunti in prossimità della grossa arteria cittadina che costeggiava il fiume. Mancava ancora molto per arrivare alla base, e non si prospettava un bel viaggio. Non almeno con Gin così di malumore. Si immisero nella circolazione della strada principale, cominciando a procedere con il fiume al loro fianco. In lontananza si vedeva il grande ponte metallico di recente costruzione. E, un po' più vicino, accanto al ponte pedonale di solito deserto, una serie macchine parcheggiate e luci lampeggianti. Ora che erano più vicini, potevano distinguere chiaramente una piccola folla sul ponte: la maggior parte portava una divisa a loro ben nota.
“Accidenti, la polizia. Ma che diavolo staranno facendo qui?” sbottò nervoso.
“Calmati, Vodka. Non sono certo qui per noi. Non è nemmeno un posto di blocco. Guardali, qualche idiota deve essersi buttato nel fiume. Prima di incrociare il ponte c'è una traversa, gira e andiamocene. Non mi va comunque di passar loro accanto.” 
Gin aveva dato istruzioni come suo solito, e Vodka si apprestava ad ubbidire. Il biondo era la mente, l'omone accanto le braccia. Non mancavano di certo le volte in cui si sporcava personalmente le mani: anzi, c'erano casi in cui non avrebbe ceduto il lavoro sporco a nessuno per alcun motivo. Ma c'erano altre volte in cui non ne valeva davvero la pena, e in quel caso era Vodka ad agire. 
“Perfetto, capo. Meglio così, lo sai che sono allergico a questi dannati sbirri.”
Gin probabilmente non ritenne la constatazione degna di nota, e la lasciò cadere. Come da ordine, svoltarono nella piccola traversa laterale. Prima di girare, Vodka diede un'ultima occhiata alle figure sul ponte, ormai vicinissime. A parte gli uomini in divisa e un basso e grassoccio omone dall'impermeabile arancione, c'erano altre due persone. In una frazione di secondo focalizzò il volto del più giovane tra i due. Un ragazzo dai capelli castani che portava una camicia troppo larga per lui. Gli sembrò di averlo già visto da qualche parte: ma dove? Non riusciva a ricordare. Eppure quella faccia era conoscente, ed era sicuro di non confondersi con qualcun altro. Infine girò il volante e l'immagine sfocò.
“Ehi Gin, uno di quelli sono sicuro di averlo già visto da qualche parte.”
“Dei poliziotti?”
“No, sul ponte ce n'erano altri.”
“Chi era?”
“Un ragazzo, avrà avuto al massimo diciotto anni.”
“Di solito non abbiamo a che fare con i poppanti.”
“Sarà, ma..”
Vodka non fece in tempo a finire la frase. Gin lo interruppe, non curandosi più di quanto gli stava dicendo. 
“Tra poco c'è il notiziario alla radio. Sentiamo se il colpo messo a segno da Korn a Niigata riscuote ancora interesse.”
Accese la piccola radiolina portatile che tenevano sul cruscotto, sintonizzandosi sul canale giusto. La sigaretta di stava ormai consumando. Dopo qualche interferenza iniziale, il segnale si stabilizzò. Il notiziario doveva ancora cominciare, e un'ultima canzone si diffuse tra i sedili in pelle e l'odore del tabacco. Seccato, Gin premette il tasto di spegnimento. L'avrebbe riaccesa più avanti. Non poté però evitare che le prime note del ritornello, profuse da una voce limpida e malinconica, facessero vibrare l'aria.

 
“If they say
why, why, tell 'em that it's human nature,
Why, why, does he do me that way”



 
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Eccomi qui, in terribile ritardo. Chiedo perdono! Purtroppo però gli impegni fioccano, e non ho molto tempo per scrivere: quindi i ritmi di aggiornamento saranno più o meno questi, come già avevo anticipato. Spero vogliate seguirmi comunque :) Allora, in primo luogo devo ringraziare davvero tutti coloro che  hanno recensito, e hanno fatto sì che in questi giorni terminassi il capitolo: leggere e rileggere le vostre recensioni mi ha dato davvero molta carica :) Inoltre questo è un capitolo a cui tenevo particolarmente, quindi spero che vi sia piaciuto e mi farebbe davvero piacere sapere cosa ne pensate. La comparsa degli Uomini in Nero inizialmente non era prevista, ma.. non ho saputo resistere. Le mie dita fremevano per scrivere su Gin e Vodka <3 Deliri a parte.. una piccola comunicazione: nello scorso capitolo è comparso Subaru Okiya: sarà l'unico personaggio “recente” a comparire nella fanfiction. Insomma, non ci saranno né Sera né Bourbon. Lo dico prima che qualcuno poi possa rimanere deluso :( Mi dispiace, ma mi piace soffermarmi sui personaggi e cercare di caratterizzarli bene: non ho abbastanza tempo in questo periodo per poter gestire una storia con troppi personaggi e inoltre.. beh, fin dall'inizio l'intervento dei due non era previsto :) Poi va beh, non si sa mai, ma in linea di massima il progetto è questo. 
La citazione iniziale, come ho scritto, è tratta da “Sei personaggi in cerca d'autore”: qualsiasi persona che affermi di amare la scrittura e la lettura dovrebbe leggerlo: se non l'avete fatto, ve lo consiglio vivamente: mi ha davvero aperto un mondo nuovo :) La canzone finale, invece.. è “Human Nature” di Micheal Jackson. Secondo me è semplicemente meravigliosa, e metà del capitolo l'ho scritta ascoltandola. Non a caso il titolo è omonimo a quello della canzone :) E il perché.. beh, penso sia abbastanza chiaro.
Grazie ancora a tutti, davvero grazie! 
A presto,
Flami
  
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