Aveva immaginato
qualcosa del genere.
Non c’era nulla di
imprevedibile.
Era stato lontano
più di un anno.
Non una lettera,
non una chiamata.
Dunque, non c’era
niente che non andasse.
Quel senso di
imbarazzo, di lontananza, come quando si deve riprendere un dialogo a lungo
interrotto, era naturale.
E lui, del resto,
lo conosceva bene.
Era così, tutte le
volte che sentiva Steven al telefono.
Ma lo sguardo di
Reid - quello sguardo distante, estraneo - lo sguardo con cui lo aveva accolto,
senza dire una parola, era un muro alto centinaia di metri. Un muro dietro cui
quel ragazzo si era sempre nascosto, riparandosi dalle ferite delle sua
sensibilità...ma che non era mai stato invalicabile, per lui.
Per Lui...c’era
sempre stata una porta, o anche solo un pertugio, attraverso cui Spencer gli
permetteva di affacciarsi, di fare parte della sua vita.
E adesso, invece,
quella barriera sembrava così spessa, così solida, come i bastioni di una
fortezza.
Permetteva ancora a qualcuno di attraversare quella
parete?
Esistevano persone
a cui consentiva di entrare nella sua mente, nella sua affettività, senza
rinchiudersi nella sua assoluta, deserta solitudine?
I suoi occhi erano
così diversi. Così distanti da tutto. Da tutti.
Dove era andato a
finire lo sguardo di Spencer che lo aveva colpito dal giorno che lo aveva
incontrato: quello sguardo che, pur nella sua insicura elusività, sembrava
sempre dire: “ho bisogno di qualcuno che mi comprenda”?
L’idea che non ci
fossero più passaggi per stare davvero vicino a Reid...e il solo sospetto
che fosse stato lui a sbattersi per sempre quella porta alle spalle...gli
facevano paura.
La sua schiena non
era più abbastanza forti da sopportare una responsabilità come
quella.
Hotch appoggiò la
mano sulla spalla di Spencer.
“Tutto bene...?”
Il ragazzo stava in
piedi vicino alla macchinetta del caffé, fingendo di scegliere una bevanda e
rimanendo col dito a mezz’aria sul codice.
“Benone” fece lui,
con quella sua espressione talmente finta che fece scappare ad Aron un
sorriso.
Non era proprio
bravo a recitare.
Nella sala accanto,
Gideon stava parlando con Morgan e JJ di semplice quotidianità. Loro gli
raccontavano della Strauss, di ciò che era successo dopo che lui se ne era
andato, di Rossi. E lui ascoltava, senza dire niente di sé, di cosa aveva fatto
in quel lungo anno. Eppure, c’era una tensione che si tagliava a fette
nell’aria, ed era proprio il viso di Jason ad emanarla: Hotch lo avvertiva con
chiarezza. Chissà perché era tornato. E chissà da quanto lo aveva fatto...quanto
aveva aspettato prima di decidersi a venire da loro. Doveva essergli costato
molto. Tornare dalla gente che si è lasciata così, senza una parola, era un po’
come doversi mettere a confronto con la durevolezza dell’affetto altrui. E
essere pronto anche a sentirsi dire che non c’è più posto.
“Vorrei...andare a
casa” disse all’improvviso Reid.
“Forse dovresti
aspettare”
Il ragazzo scrollò
le spalle.
“Preferisco di
no”
“Aspettalo” insisté
Hotch “E parlargli con calma, da solo...”
“Chi ti dice che io
voglia parlargli?”
Aron fece un mezzo
sorriso
“So fare il mio
lavoro”
Reid si liberò
della sua mano sulla spalla.
“Hai sbagliato
profilo” disse seccamente.
Fece un paio di
passi, poi si fermò.
“Scusami. Hai
ragione, io...” scosse la testa senza voltarsi indietro “Mi dispiace. Voglio
andare a casa, ora...”
E si incamminò a
capo basso verso l’uscita.
Mi hanno accolto
con un calore che non mi era nemmeno sognato di desiderare - pensava Gideon.
Perché, perché allora aveva la sensazione che andasse tutto
storto?
Andiamo, lo sai
bene, Jason - gli rispose una vocina
fastidiosa dentro di sé - non sei pur sempre un
profiler?
Era vero, lo
sapeva.
Sapeva che quella
dolcezza non serviva a cacciare il suo dolore, non lo rendeva di nuovo uno di
loro, un loro compagno, un loro amico. Quella dolcezza lo aveva fatto restare
solo l’uomo che era stato via per tanto tempo, ed era tornato da un lungo
viaggio.
La dolcezza non
lasciava posto all’espiazione.
“Reid...”
Lui si bloccò, e
rimase lì, con le chiavi di casa in mano, il braccio a
mezz’aria.
Non si aspettava di
certo di trovarsi Gideon accanto alla porta.
Resse lo sguardo
solo un attimo, poi infilò la chiave nella toppa, senza
rispondere.
“Reid...” si
avvicinò Gideon, appoggiandogli la mano sul polso
“Ascolta...”
Il ragazzo abbassò
la testa, rimase un istante in silenzio.
Poi ritirò il
braccio, scrollando via la mano di Gideon bruscamente.
“NO” esclamò, secco
“Ascolta TU”
Lo fissò dritto
negli occhi, e Gideon si rese conto di aver appena valicato un limite da cui
nessuno dei due sarebbe potuto tornare indietro.
“Ascolta tu”
ripetè, sbattendo un pugno contro la porta.
“Io credo di averti
ascoltato anche troppo. Ti ho ascoltato sempre, tutte le volte, come se la tua
voce fosse l’unica importante, come se una tua parola valesse sempre la pena di
essere conservata con cura. Ti ho ascoltato talmente a lungo, e talmente spesso,
da fare di te il mio punto di riferimento. Un punto di riferimento così
importante, che quando te ne sei andato ho dovuto lottare per rimanere in piedi,
per non perdere la strada. Ma tu, invece, hai mai ascoltato me? No, certo. Io
non parlo molto, vero? Non sono bravo ad esprimere i miei sentimenti. Ma tu sei
Gideon, il grande profiler, non ti è così difficile leggere la testa della
gente!” agitò le mani in aria, in quel modo così suo e al tempo stesso con una
rabbia così estranea al Reid che conosceva “Beh, se avessi cercato di leggere la
mia, una buona volta, avresti saputo cosa avrebbe voluto dire per me...!
Cosa avrebbe voluto dire la tua stra maledetta lettera, cosa avrebbe voluto dire
negarmi il diritto a dirti anche solo una parola! Pensi che sia un presuntuoso,
vero? Un presuntuoso a pensare che ti avrei convinto: che se mi avessi parlato,
saresti rimasto! Oppure avevi paura proprio di questo: di lasciarti convincere?“
si calmò un poco, e spostò gli occhi verso un punto indefinito alla sua destra -
dopo averli tenuti - per tutto il tempo - fissi in quelli di Jason “Ma io non
avrei cercato di convincerti, Gideon. Non lo penso, almeno. Ciò che credo...è
che ti avrei detto una sola cosa. Che prima di riflettere sull’opportunità di
continuare a fare o meno il profiler, forse avresti dovuto riflettere sul
significato di voler bene a qualcuno...” fece una pausa, nella quale Gideon
cercò di trovare di nuovo il contatto coi suoi occhi, ma inutilmente. Adesso,
Reid teneva la testa bassa, lo sguardo nascosto sotto i lunghi capelli. Sembrava
immensamente triste. “...quando vuoi bene a qualcuno...una madre, un amico, un
figlio...e induci quella persona a fidarsi di te, a credere che tu gli sarai
accanto, che può chiudere gli occhi e buttarsi, perché tu lo prenderai...in quel
momento, tu ti assumi una responsabilità. Ed è una responsabilità più
grande dei tuoi drammi sul lavoro, dei problemi esistenziali, delle domande
sull’esistenza o meno del lieto fine. La responsabilità che ti prendi per un
altro, è più grande di quella che ci si prende per se stessi...perché...Perché
se vieni meno alla tua responsabilità verso una persona che si fida...questo
gesto...è peggio di ucciderla!”
Non se lo
aspettava.
Non si aspettava da Reid parole tanto
forti.
E...e sì, sapeva di avergli fatto male...ma non fino a
quel punto.
Non fino al punto di risvegliare nel quieto e razionale
Spencer una reazione tanto intensa.
Era stupito.
Turbato. Ma non si sentiva ferito. Quelle sue frasi...erano quanto di più
lontano da una ferita che lui riuscisse a immaginare. Quelle frasi tanto brusche
e dirette...erano qualcosa di molto più simile...a una
carezza...
“Reid, io sono
stato...”
“Un BASTARDO!”
esclamò Reid, stringendo i pugni “Un CODARDO E UN EGOISTA! E
ora...”
Lo fissò di nuovo
negli occhi: erano così lucidi - notò Gideon - che doveva star facendo un bello
sforzo per trattenere tutte quelle lacrime.
“...E ora te ne
vieni qui, sotto casa mia, con quell’aria da ‘per piacere perdonami’ e mi
chiedi di ascoltarti!!! Sai che ti dico? VAI AL DIAVOLO,
GIDEON!”
Un sorriso luminoso
comparve sul volto di Jason. E per la prima volta nella vita si sentì così
profondamente amato, che quell’affetto da solo sarebbe bastato a riempire il
resto della sua esistenza. Nessuno lo aveva mai fatto sentire tanto
indispensabile. Nessuno gli aveva mai detto “hai la responsabilità di me”. Ora
era pronto ad essere accolto. Ora era pronto a farsi
perdonare.
Prima che il
ragazzo potesse finire di gridare la sua imprecazione - così strana e stonata,
se venuta da Reid - Gideon gli fu davanti, lo afferrò per le spalle e lo strinse
a sé.
“Spencer...”
Disse solo. Come se
nel pronunciare il suo nome - il nome con cui lo aveva chiamato solo una volta,
su quella lettera - potesse trasmettergli tutto l’affetto che provava, e la
riconoscenza che gli doveva.
Reid rimase
spiazzato per un attimo. Sbattè le ciglia, stordito, mentre sentiva la lana del
maglione di Gideon sui palmi delle mani.
Ora, tutte le cose
sarebbero andate a posto.
“Jason...bentornato!”
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