Capitolo 4: Eventi di casuale Provvidenza
Il grande complesso sotterraneo di abitazioni, laboratori, ambienti di
sostentamento e l'intera rete di gallerie comunicative venivano
martellati da
onde sismiche di eccezionale potenza che si intensificavano sempre di
più,
compromettendo qualsiasi cosa ne venisse colpita.
I secondi oltrepassavano i minuti e sembrava durassero ore. Il tempo
scorreva
inesorabilmente e con lui il sangue che in quei rigidi attimi si
riversava sul
pavimento di ogni locale occupato.
Fanny aveva riaperto gli occhi dopo quella breve quanto istintiva
preghiera, ma
presto fu costretta a richiuderli poiché una polverosa nube
di detriti le si
stava riversando tutt'attorno.
Quasi non riusciva più a respirare a causa della polvere e
dell'angoscia, ma si
fece forza e si scansò quel che bastava per evitare la
cassaforte, che era in
procinto di fare breccia nel soffitto abbattendosi su di lei.
Affrontò il dolore delle ferite alle mani e
consumò le sue ultime forze per
strisciare sul pavimento cosparso di frammenti di vetro. Vedeva
nell'angolo del
bagno l'unica e ultima possibilità certa di non essere
travolti dal pesante
forziere e, graffiandosi tutto il corpo, raggiunse l'angolo della
stanza. Da lì
riuscì a gettare un ultimo sguardo al soffitto che ad attimi
sarebbe franato,
poi perse conoscenza. Un istante dopo la terra smise di emettere le
assillanti
urla di disperazione che per decenni vennero assorbite dagli abissi del
globo.
Ma il pianeta insofferente e sconvolto non sarebbe potuto sottostare
all'oppressione dell'artificioso impero del caos, instauratosi da
quando la
pecrossite infettò il ciclo naturale del mondo. Da decenni
Madre Natura anelava
all'armonia e all'equilibrio del creato, nei secoli sfigurato dall'uomo
e in
quegli ultimi anni dalla sua creazione ultima.
Ci furono periodi in cui Madre Natura sfogava i propri impeti di rabbia
in
devastanti cataclismi che si abbattevano in ogni parte del mondo;
tuttavia
nessuno che appartenesse alle comunità di sopravvissuti ne
era mai stato
vittima o anche solo testimone. Le tuonanti scosse si erano interrotte,
pennellate di luttuosi minuti si susseguivano sulla tela della
dissoluzione,
dipingendo l'effigie della Morte in una cornice intagliata nella
speranza e
adornata dall'inganno. Chi riuscì a scampare alla catastrofe
si aggirava
ininterrottamente per la città in cerca di altri
sopravissuti, finché i propri
polmoni glielo avrebbero permesso. Molte tubature che portavano l'aria
esterna,
tanto irrespirabile quanto fondamentale, erano state recise e le
fuoriuscite
interessavano la maggior parte della città. I condotti di
ventilazione diffondevano
il gas letale nei luoghi dove questo non poteva arrivare a causa delle
barriere
tagliafuoco, che isolavano gli ambienti in caso di emergenza. Ma questa
risultava una trappola mortale per chiunque non avesse altre vie di
fuga, e
anche per chi ne aveva. L'unica soluzione era giungere alle serre che
disponevano di un sistema di filtraggio e di circolazione dell'aria
molto più
efficiente rispetto a quello degli altri locali; se la miscela aerea
avesse
raggiunto le piante queste sarebbero morte asfissiate.
Non era facile però recarsi ai vasti vivai: gran parte della
città aveva subito
un blackout, diverse strutture erano allagate, i tunnel di collegamento
risultavano impraticabili a causa delle barriere tagliafuoco e delle
macerie,
anche se quest'ultimo disagio permise l'isolamento di alcune gallerie
dal gas
tossico. Ma anche se qualcuno fosse riuscito a raggiungere i vivai cosa
avrebbe
fatto poi? I filtri di quell'ambiente, pure potenti, non furono
progettati per
depurare l'aria. Quel compito spettava ai purificatori, che tuttavia
non
avrebbero potuto svolgere il loro compito senza elettricità.
Venticinque secondi. Tanto bastò a decimare gli abitanti, da
diecimila che
erano a un migliaio. Tuttavia numerose vite furono stroncate nei
successivi
dieci minuti a causa delle lesioni, dell'atmosfera, della
disperazione...
Le probabilità che qualcuno riuscisse a salvarsi da una
situazione simile erano
una su un milione; neanche se tutta la popolazione della
città fosse
sopravissuta ci sarebbero state possibilità apprezzabili di
mettersi in salvo.
Passò più di un'ora dal disastro e, se fino ad
allora si sentiva qualche sordo
passo, qualche soffocato colpo di tosse, qualche urla straziante
implorante
aiuto, ora vigeva la quiete e l'oscurità più
totali.
Fanny incominciava a riprendere conoscenza. Riacquisì per
primo il senso della
vista, poi quello dell'udito e infine l'olfatto. Il tatto in
realtà non lo
aveva mai perso, continuamente sottoposto a dolori lancinanti com'era;
furono
proprio quei dolori a risvegliare la ragazza. I suoi occhi erano
offuscati e a
malapena distingueva i colori, si sentiva frastornata e non riusciva
neppure a
rialzarsi. Si fece coraggio e si adagiò con la schiena al
muro. La testa le
girava ancora, ma le forme si stavano delineando e i colori
riprendevano
tonalità. Aspettò ancora qualche istante prima di
portarsi in piedi, mentre si
copriva con una mano il profondo taglio che si era procurata sul
braccio,
strisciando tra i vetri. Appoggiò la testa alla parete
piastrellata che la
fiancheggiava, chiuse gli occhi e fece qualche respiro profondo; quindi
si alzò
reggendosi a un radiatore. Muoversi le era difficile: il pavimento era
seppellito sotto più di mezzo metro di travi, blocchi di
roccia, lamiere e
l'arredo del piano superiore. L'imponente cassaforte era piombata di
sotto
pochi secondi dopo la fine del sisma, incastrandosi con uno spigolo nel
pavimento per poi abbattersi contro la porta, sfondandola.
Fanny si fece faticosamente strada tra le macerie, salì
sopra la cassaforte per
poter uscire dalla stanza ma notò che la serratura del
forziere era sbloccata a
causa dell'urto. Esitò qualche istante, poi aprì
lo sportello. Vi trovò una
dozzina di custodie metalliche, alcune contenenti documenti cartacei,
altre
gettoni metallici colorati: i "crediti" che venivano utilizzati come
denaro. Vide una scatola in particolare, diversa dalle altre
perché di
plastica; racchiudeva dei rotoli flessibili di un materiale che non
aveva mai
visto. Ne prese uno, lo distese e si accorse che lungo
un'estremità si
collegava ad un cilindro ricoperto di pulsanti sottilissimi di ogni
genere. Uno
riportava il simbolo di accensione tipico dei dispositivi elettronici,
così lo
premette: il rotolo diventò luminoso e su di esso iniziarono
a scorrere parole
ed immagini di qualità e fluidità formidabili.
Capì subito che era uno di
quegli arnesi iper tecnologici di cui i vecchi al bar parlavano per ore
e si
ricordò che furono fondamentali per trasportare con
facilità dati di ogni tipo,
quindi avrebbero potuto esserci anche filmati e fotografie della
guerra. Fanny
si trovava davanti a una pila intera di carta elettronica, ideata
ancora prima
del Duemila e progettata per funzionare anche con quantità
di energia minime.
Divenne funzionale ed economicamente accessibile a tutti solo dopo un
quindicennio di miglioramenti e implementazione di applicazioni sempre
nuove,
fino a diventare un eccellente calcolatore mobile dotato di tutte le
funzioni
di un normale computer, e forse anche di più. Come la
maggior parte dei
consegni elettronici, venne deteriorato a causa della pecrossite e reso
inservibile. Tuttavia i superstiti riuscirono, tra le altre cose, a
conservarne
qualcuno di ancora funzionante ma rimasero dimenticati, forse di
proposito, in
una scatola rinchiusa in una cassaforte. Fanny spense la pergamena
digitale e
la rimise nella custodia, che aveva intenzione di portarsi appresso
finché gli
sarebbe stato possibile, per esaminarne i contenuti con più
calma. Ancora non
poteva immaginare però cos'era realmente successo alla
città e ai suoi
abitanti, compresi i suoi genitori. Dolorante e ancora un pò
confusa, si
muoveva barcollando per il piccolo salotto in soqquadro gettando lo
sguardo dappertutto,
nella speranza di ritrovare la madre. Cercò in ogni stanza
della casa, anche in
cucina, dove si legò uno straccio umido intorno alla
profonda ferita sul
braccio. Cominciava a sentirsi debole, non riusciva a chiamare aiuto e
il fatto
di non essersi imbattuta in Franciska appena uscita dal bagno la
rendeva
agitata e maldestra nei movimenti. Il cuore stava accelerando il
proprio
battito, gli occhi stavano lentamente appannandosi e si sentiva la
testa
esplodere. Si apprestava a girare la maniglia della porta d'uscita ma
il
groviglio di dolori e sensazioni non glielo permise;
collassò nuovamente ad un
passo dalla soglia.
Mezz'ora dopo.
Jacob non rispondeva. Ma Nathan insistette, continuando a chiamare il
suo nome.
«Rispondi, maledizione! Passo.» La voce di Nathan
stava assumendo tratti di
nervosismo e paura, ma egli andò avanti a chiamarlo.
Avanti, amico, rispondi. - pensò, fissando la
ricetrasmittente che stringeva
nella mano tremante, poi ritentò.
«Jacob, sono Nathan, mi ricevi? Passo.»
Alla radio giunse un segnale disturbato dal quale si potevano
distinguere urla
e colpi di fucile. Nathan ascoltava terrorizzato, poi all'improvviso la
trasmissione cessò. Nathan urlò il nome
dell'amico alla trasmittente, ma non
riceveva risposta. Si aspettava il peggio, quando dalla radio giunsero
dei
respiri affannati, seguiti dalla voce di Jacob.
«Nathan... sono io... Passo...» disse a fatica.
«Jacob! Grazie al cielo... Sei ancora vivo! In che condizione
ti trovi? Ce la
fai a raggiungermi? Passo.»
«Sto bene, non ti preoccupare... Quell'ammasso di latta l'ho
fatto
accomodare... all'inferno. Ho qualche lieve graffio, ma... non
è nulla in
confronto alla testa... crivellata che quel robot si è
guadagnato. Passo.»
«Ah Ah! L'umorismo è l'ultima cosa che
abbandoneresti, vero? Ora, l'armatura
gli si sta schiarendo? Passo.»
«Lo sta facendo proprio ora. Passo.»
«Cavolo, la nostra sala dei trofei traboccherà se
andiamo avanti così. Bene,
ora sbrighiamoci, raggiungimi nel settore... Dannazione!»
«Nel settore cosa? Nathan, che diamine sta succedendo?
Passo.»
«Ho una traccia di calore sullo schermo! E' molto debole,
devi fare in fretta!
Settore... eh... settore DQ-24, ala est! Vado a controllare, tu muoviti
con
quel maledetto primo soccorso! Passo.»
«Nathan, a che piano? Passo.» Jacob attese qualche
secondo, «Nathan, sei ancora
lì? Ah, al diavolo.»
Ma Nathan aveva già riposto la radio ed il visore a
infrarossi nello zaino e,
indossando la maschera antigas, correva verso l'obiettivo. Jacob si
diresse
alla successiva barriera tagliafuoco che doveva manomettere per poter
raggiungere
l'amico e soccorrere la persona che Nathan aveva individuato.