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Autore: Michelle Verace    18/10/2013    10 recensioni
Stati Uniti d'America, Washington, Seattle, 2014.
Kevin ha diciannove anni, è stato bocciato tre volte e non è un genio incompreso.
Tra donne, feste e alcool, quando l'unico obiettivo della sua vita è realizzare il suo più grande sogno di diventare attore, non avrebbe mai immaginato di innamorarsi di Michelle, sedici anni, che potrebbe già essere all’ultimo anno di liceo. Perché lei non è come tutte le altre: molto più che intelligente, è stata sottoposta a un test che ha scientificamente dimostrato che il suo quoziente intellettivo è nettamente superiore a quello della maggior parte del genere umano. Ma quello che entrambi non sanno è che una setta di scienziati, decisa a rivoluzionare la razza umana attraverso macchinari ultratecnologici capaci di trasmettere gli impulsi nervosi da un cervello a un altro e di duplicarli all'interno di uno stesso organismo, è seriamente intenzionata a ucciderla e ad eliminare dalla faccia della terra tutti quelli come lei, i geni, per creare un mondo senza differenze.
Kevin si ritroverà ad affrontare forze più grandi di lui e inimmaginabili pericoli, per proteggere la ragazza che ama.
Anche a costo della sua stessa vita.
[LA STORIA VERRA' RISCRITTA COMPLETAMENTE E PUBBLICATA CON UN NUOVO TITOLO]
Genere: Azione, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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- Questa storia fa parte della serie 'DC Enterprise'
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S e c o n d o   c a p i t o l o
 
 
 
 
 

La prima cosa che faccio quando torno a casa è accendere il portatile per collegarmi a internet.
Mamma mi chiama dal piano di sotto, è pronta la cena, dice, e io urlo che non ho fame, o che mangerò più tardi i loro avanzi ─ non ricordo. Sono così concentrato su quello che devo, che voglio fare, da non prestare attenzione a nient’altro. Mi tolgo le scarpe dai piedi, infilo i pantaloni della tuta e una maglietta sgualcita e poi mi accomodo sul letto. Navigo in rete da nemmeno due minuti quando mio padre sale a portarmi la cena.
«Ehi.» Ha l’aria stanca, leggere rughette attorno agli occhi e i capelli scompigliati. Lui e la mamma si sono sposati giovani e, nonostante abbiano soltanto quarant’anni, il duro lavoro che sono costretti a fare per quattordici ore al giorno rende ancora più evidenti i primi segni della vecchiaia.
Non siamo poveri, ma nemmeno tanto ricchi da poterci permettere di pagare degli interventi chirurgici ─ ammesso che ce ne sia bisogno. E so anche quanto abbiano dovuto sacrificare per me, per darmi la possibilità di studiare e di diventare qualcuno, in un futuro non troppo lontano. Più volte ho cercato di spiegargli che mandarmi a scuola non mi servirà mai a niente, che tutto ciò che voglio fare è diventare attore. Ma loro non mi ascoltano. Ed è stato così, proprio per questo motivo, che ho smesso di studiare. Non che prima combinassi granché.
«Ciao.» Non alzo la testa dal PC. Allungo solo una mano per afferrare il piatto, con gli occhi volutamente incollati allo schermo. Se lo guardassi, come ho evitato di fare da troppo, troppo tempo, ormai, cadrei nella sua trappola, capirei. E io non voglio capire. Non voglio rinunciare ai miei desideri, ai miei sogni.
«Tutto bene a scuola?» Si siede sul bordo del letto. Non posso fingere di non averlo notato. Del resto, non ci riesco mai. Questa è la solita conversazione che facciamo tutti i giorni. Rifiuto di mangiare a tavola insieme a loro, mi faccio portare il cibo in camera, due parole di circostanza e tutto finisce lì. Non che sia mai iniziato.
«Mh.»
Se dicessi sì o no, cambierebbe qualcosa? Torneremo di nuovo punto a capo. Perciò lascio libertà di interpretazione: a loro la possibilità di capire quello che vogliono.
Genio, scrivo sulla barra di Google. Thompson.
So solo il suo cognome. E non ho la certezza che lo sia, un genio. Chi mi dice che non sia solo un’ottima alunna? Una… secchiona? Che sia brava in matematica, punto e basta? Non lo so. Eppure lo sento.
I suoi occhi hanno parlato.
 
«Perché dici così?»
 
Sì, perché dico così?
«Kevin, potresti guardarmi un attimo?»
E poi come faccio a sapere se è “famosa” oppure no? Di solito, quando si riscontrarono casi del genere, i media intervengono.
Il primo link che compare è quello di Wikipedia, con il conseguente significato di “genio” e un riquadro con ulteriori note aggiuntive. Scorro la lista e l’argomento si infittisce ancora di più. Forum, siti specialistici, foto, il nome di Einstein dappertutto, e poi…
«Mi stai ascoltando?»
… Thompson. Michelle Thompson. Michelle.
Sposto il mouse sul link che capeggia nella seconda pagina di ricerca e clicco. C’è la sua foto. È lei. Sembra solo… un po’ più piccola. Avrà quattordici anni. Brufoletti, apparecchio ai denti, occhiali da vista… Ha proprio l’aria da secchiona. I capelli sono lunghi fino alle spalle, gli occhi luminosi, di un grigio-verde così particolare che...
«Kevin Christopher Morgan, sto parlando con te.»
È bellissima.
«Che cosa vuoi?»
«Non parlarmi così, sono tuo padre.»
Lui non esiste, mi ripeto. Non gli interessa sapere quello che voglio.
«E io sono tuo figlio. Come la mettiamo?» Non dovevo parlare. Dovevo ignorarlo. Devo ignorarlo. A che serve dire la mia, se loro non mi ascoltano? A che serve parlare, quando le carte sono già state servite, se la sentenza non cambierà mai?
«Esatto, sei mio figlio e proprio per questo, finché vivrai sotto il mio tetto, farai come ti dico io.»
«Bene.» Chiudo il portatile di colpo, mi alzo di scatto e comincio a rivestirmi. Abbandono i pantaloni della tuta e la maglietta per terra. Infilo le scarpe, indosso i jeans e il maglione.
«Che intendi fare?» Mio padre mi guarda allibito. James Morgan non se lo aspettava.
«Me ne vado.» borbotto. Ho la gola secca, i muscoli tesi e la mascella contratta. Non so cosa sto facendo, non ho più il controllo di me stesso.
«Non puoi andartene!» Urla? O sussurra soltanto? Non lo so.
Ho bisogno di andarmene.
Scendo le scale di corsa, le conto a una a una. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto. Visto, mamma? Visto, papà? So contare. Non ho bisogno di andare a scuola. Non ho bisogno di studiare.
«Kevin!»
«Dove stai andando?»
«Fermati!»
«KEVIN!»
Mamma mi chiama, mamma pronuncia il mio nome.
Ho bisogno di andarmene.
Sono fuori in un attimo. Fa freddo, non importa. Il mio stomaco brontola, ho fame. Frugo nelle tasche, ma mi accorgo di aver lasciato il portafogli a casa. Resisterò. Non posso tornare indietro.
Mi seguiranno? Corro. Corro via prima ancora che riesca a dare una risposta a questa domanda. In realtà non so nemmeno che cosa stia facendo di preciso. Che cosa voglio dimostrare? E, soprattutto, a chi?
Il maglione non serve a scaldarmi e i jeans sono freddi. Riesco appena a ignorare i brividi che mi corrono lungo la spina dorsale, ma il mio orgoglio mi impedisce di ammettere che tutto quello che ho fatto è stupido. È la prima volta che faccio una cosa simile. I miei non se lo aspettavano. Io non me lo aspettavo. Non sono così, non sono il tipo che abbandona tutto e fugge senza un vero motivo… No. No, no, no. NO. Un motivo c’è. Un motivo c’è eccome. Sono stanco di fare sempre come mi dicono. Non vogliono che io lavori, malgrado abbia cercato più di una volta di convincerli a permettermi di farlo. Si aspettano che io diventi un avvocato, o qualsiasi altro reietto rispettabile della società. E che perciò vada a scuola, ottenga il diploma e poi mi iscriva al college.
«Non lo farò mai.» Sputo per terra, e poco mi trattiene dal scagliare un pugno contro la grata dell’officina all’angolo. Mi trovo in un vicoletto che non conosco dove la luce dei lampioni non arriva. Nessuno mi vede. Io non esisto. Qualcuno ha scritto sul muretto di una staccionata “Al mondo non c’è giustizia” e poco più sotto, con la bomboletta rossa, “Dio è morto”.
Dio è morto.
Sarà vero?
Sì.
«No.» In un primo momento non mi accorgo neanche di averlo detto. So solo che, quando alzo lo sguardo e noto una chioma castana aggirarsi a qualche metro da me, cancello tutto, smetto di pensare a chiunque non sia lei.
Lei, lei che lì, lei, lei, lei, lei.
Devo seguirla senza che mi veda? Tornarmene a casa? Farmi avanti?
Mi avvicino furtivo e mi sento come un ladro… o peggio. Mi convinco che lo sto facendo per il suo bene, che l’unica cosa che mi interessa è evitare che qualcuno le si avvicini per… per… per molestarla. Non deve accaderle nulla di male e so che sarà al sicuro finché non la perderò di vista ─ non che ne abbia intenzione.
Che cosa voglio fare? Che intendo dimostrare?
Sono un vigliacco. La verità è che non ho il coraggio di avvicinarmi.
Potrebbe pensare male di me, o che la stia perseguitando…
 
«Sei strano.»
«L’hai già detto.»
«Sei davvero strano!»
«Quando sorridi, ti si formano le fossette alle guance.»
«Ora sei decisamente strano.»
 
È probabile che l’opinione che ha di me cambierebbe in peggio.
No. Non posso farmi vedere.
Però posso osservarla. Dove sta andando? Indossa dei pantaloni neri, stretti, incredibilmente e fottutamente aderenti, così aderenti che, se fossi debole di cuore, sarei già cascato ai suoi piedi. Di spalle non riesco a vedere che maglietta abbia, ma non sembra avere freddo, perché si muove con naturalezza. Non sembra affatto la secchiona che dà l’impressione d’esser in quella foto o a scuola. È… sexy. Come posso dirlo se non posso neanche guardarla in faccia? Non posso neanche essere sicuro che sia lei.
Michelle. La lingua scivola sul palato, come la coda di un serpente.
Nonostante non si accorga di me, non voglio rischiare. Mi fermo ogni due minuti, poi, quando è abbastanza lontana ─ ma non troppo da scomparire dalla ma vista ─ riprendo a camminare.
Alla fine ritorniamo sulla strada principale. Superiamo tutti i vicoletti che delimitano la periferia e ci inoltriamo nella parte più interna della città. Seattle, braccata dall’Oceano Pacifico, chiamato Puget Sound, e il lago Washington, sorge su sette colli: First Hill, Capitol Hill, Queen Anne Hill, Beacon Hill, Denny Hill, Magnolia e Crown Hill. Si estende su una superficie di duecentodiciassette chilometri quadrati ed è grandissimo agglomerato urbano, sede di una delle più importanti industrie aereonautiche statunitensi. Mio padre lavora nei cantieri navali mentre mia madre è operaia in un’industria alimentare e del legno. È incredibile quanto tempo trascorrano lì, l’uno tra il traffico portuale e l’altra in uno stabilimento a due chilometri da casa. Non li vedo molto spesso.  
Adesso siamo a Pike Place Market. Michelle si è appena fermata davanti ad uno Starbucks, il primo ad essere stato aperto nel 1971. Nonostante l’ora tarda è ancora ricolmo di gente. Ma non mi importa degli altri.
Perché è lì? È martedì sera, e di solito quasi nessuno della nostra età frequenta il locale alle undici. Ci sono stato un paio di volte anche dopo la mezzanotte, ed è risaputo che nei giorni infrasettimanali sia bazzicato per lo più da trentenni. Solamente il venerdì diventa il punto di incontro della maggior parte degli adolescenti.
Entra, si siede in fondo, di fianco ai cestini della spazzatura e di spalle ai bagni femminili. Ha la sguardo rivolto verso la vetrina, quindi potrebbe facilmente vedermi se alzasse un po’ di più la testa. Apre un libro di cui non riesco a leggerne il titolo e non arriva neanche a metà pagina che un cameriere le si avvicina per prendere le ordinazioni. Poi casualmente i suoi occhi incrociano i miei, così, senza un motivo apparente. Come se sapesse che la sto spiando e non ne fosse affatto sorpresa.
Mi ha guardato. Ho paura di sembrare una ragazzina… o peggio. Un molestatore. Uno stalker.
E adesso? Bella domanda. Che faccio?
Scuote la testa. Più che sorpresa sembra incredula… e divertita, molto divertita. Le sue labbra si incurvano in un sorriso… Sta ridendo? Di me?
Se ne pentirà, penso. Se ne pentirà amaramente.
Distoglie subito lo sguardo, e inizia a parlare con il cameriere. Gesticola un po’ ─ da lontano sembra avere le dita affusolate, da pianista ─ e il ragazzo, che avrà poco più della mia età, più che fissarla con semplice disinteresse pare fare apprezzamenti sul suo corpo perché i suoi occhi cadono troppo spesso sulla scollatura. Come faccio a esserne tanto certo? Ho il radar, io, per i brutti ceffi.
«… e muffin al cioccolato, grazie.»
Non mi sono neanche accorto di essere entrato. Mi preoccupo solo di incenerire il cameriere. Probabilmente, quando tornerà con le sue ordinazioni, le lascerà il numero di telefono e lei… lei non ha nemmeno fatto caso al modo in cui la guardava prima! Incredibile!
Mi scontro volontariamente con il ragazzo continuando a camminare verso il suo tavolo, senza voltarmi per chiedergli scusa o controllare la sua espressione. Non mi interessa. L’importante è che le stia lontano.
«Hai fatto conquiste.» Come mi esca questa frase non lo so. Tutto ciò di cui sono sicuro è che non mi sono mai sentito tanto geloso di qualcuno. Neanche quando Puck ci prova con le ragazze che mi interessano.
Michelle alza la testa e lascia vagare gli occhi su di me. Se le piaccia quello che vede è difficile da capire, perché il suo sguardo neutrale non lascia spazio a chiarimenti. È peggio di un cubo di rubik, questa ragazza.
«Parli del cameriere o del ragazzo che mi spiava da fuori?»
Decisamente sì. È molto ─ molto ─ peggio. «Touché.» Alzo le sopracciglia e scosto la sedia per sedermi di fronte a lei, più teso di quanto dia a vedere. Non mi perde di vista neanche un secondo, e allora mi rendo conto che non è affatto la sprovveduta verginella che credevo. È ancora più bella di quanto ricordassi. Non indossa gli occhiali e i suoi occhi sono più intensi e penetranti, ora che posso fissarla apertamente, senza il timore che possa scoprirmi. «Aspetta… non starai flirtando con me?»
Piega la testa di lato e incrocia le braccia sul petto, abbandonando il libro sul tavolo. L’ho incuriosita. L’ho incuriosita davvero. È interessata?
«Questo non è flirtare.»
«Ah sì?»
«Sì.» Sembra decisa, sicura di sé. Lo è. Mi piace. Tanto. Troppo. L’ho già detto? Deve essere assolutamente mia, e di nessun altro.  
«Per la cronaca,» Schiocco la lingua e la guardo con le palpebre socchiuse dall’alto in basso proprio come farei ─ anzi, faccio ─ con qualunque altra ragazza, «a meno che tu non lo sappia già…»
«Già lo so.» Mi ha interrotto per stuzzicarmi?
Le lancio un’occhiataccia. Lei finge di non farci caso. «Quel cameriere ha intenzione di lasciarti il suo numero. Ci scommetto un bacio che te lo nasconderà accanto alla bustina di zucchero del caffè»
«Un bacio?» Come mai sembra non aver ascoltato nulla di quello che ho detto? E cos’è quel ghigno perfido che le sta nascendo sulle labbra?
«Esatto.»
Si concede del tempo per osservarmi in silenzio, come se stesse valutando la sua risposta. Poi riprende l’uso di quella sua lingua incredibilmente tagliente. «Chi ti dice che non me l’abbia già dato?»
Sobbalzo sulla sedia. Non può… non può… «Non l’ha fatto. Vi ho visti tutto il tempo e non si è mai avvicinato tanto da…»
«Mettiamo in conto che tu abbia appena perso la scommessa.» Adesso sono io, quello curioso. «Quel bacio lo concederesti davvero?»
Non capisco dove voglia arrivare. Vuole… vuole che la baci? «Perché, vuoi prenotarti?»
«Rispondimi.» Implacabilmente sexy.
«Sì.»
«Bene.» Non sembra per nulla sorpresa. È come se… avesse verificato per l’ennesima volta il successo di un esperimento ben congeniato. Fruga nelle tasche della giacca e allunga un foglietto spiegazzato verso di me. Otto cifre in penna blu. Il ragazzo non ha perso tempo, a quanto pare.
La fisso negli occhi. «Lo chiamerai?»
«Ora non ha importanza.» Si piega sul tavolo e sorride ancora di più. Mi chiedo se sia umana. «Hai un pegno da pagare.» 
Non lo è. Mi stendo anch’io verso di lei, finché i nostri visi non si trovano a qualche centimetro di distanza. Le accarezzo la guancia, scostandole i capelli dalla spalla e schiudendo le labbra. Non ho mai desiderato tanto qualcosa ─ qualcuno ─ come in questo momento. È… nervosa almeno la metà di quanto lo sono io? Non ho neanche il tempo di dare una risposta a questa domanda, che Michelle subito si allontana da me.
Il sorriso è ancora lì, sulla sua bocca. Vuole prendermi in giro, forse?
«Oh, ma... non mi riferivo a me.»
Sgrano gli occhi di scatto. «E a chi…»
«Al tuo amato spasimante.» dice, e indica con un cenno impercettibile della testa il cameriere che, ignaro di tutto, si sta avvicinando al nostro tavolo con le ordinazioni di Michelle. Pensando che non me ne accorga, mi lancia una breve occhiata di… invidia?, e prima di allontanarsi di nuovo rivolge un ultimo sguardo alla ragazza che mi ha appena illuso.
Scuoto febbrilmente la testa. «Non ci sperare.» Sono incredulo. Non me lo sarei mai aspettato. È… fantastica. E sto bene, non mi sono mai sentito tanto meglio. Mi diverte, è ironica, con la risposta sempre pronta. Riuscirebbe ad eccitare chiunque con i suoi modi di fare ed è impossibile non rimanere affascinati da lei. 
Ride, e noto che ha i denti bianchissimi e dritti. «Ci avrei scommesso che avresti risposto così.»
Chissà come e per quale motivo, le sue parole mi fanno ricordare una cosa. «Che ci fai in giro a quest’ora?»
Distende le labbra in una piega sottile, abbassando lo sguardo. Inizia a sorseggiare dalla sua tazza di caffè e fissa il suo libro come se non lo vedesse davvero, come se… guardasse qualcosa attraverso. «Mi sono chiesta la stessa cosa quando ti ho visto spiarmi.»
«Non ti stavo spiando.» Inutile difendermi, lo so.
«Credevo avessimo già chiarito che non sei bravo a mentire.» Ecco.
«Rispondo soltanto se rispondi prima tu.»
Sospira pesantemente. Ogni traccia di divertimento è sparita dal suo volto. «Niente di che… In realtà, vengo… vengo spesso qui.» Ha lo sguardo basso, troppo.
«Nemmeno tu sei brava a dire le bugie.» le faccio presente prendendole il mento tra il pollice e l’indice e sollevandoglielo perché possa ricambiare il mio sguardo. Ci fissiamo in silenzio per qualche tempo, seri in viso. «Di me ti puoi fidare.» la rassicuro, non sapendo neanche bene il perché.
«Sai,» Prova a sdrammatizzare, ma è tesa, inquieta, «è la stessa cosa che dicono i traditori prima di voltar le spalle agli altri.»
«Io non sono un traditore e non volto le spalle a nessuno.»
Inarca un sopracciglio. Non l’ho affatto convinta. «Nemmeno alle tue fidanzate?»
«Non ho nessuna fidanzata.» ribatto in tono duro. «Loro sanno a cosa vanno incontro. Sesso è, e sesso rimane, quello che facciamo. Io non faccio alcuna promessa.»
«Dovresti ricordarglielo, ogni tanto.» È gelosa?
«Perché, ti dà fastidio?»
«Affatto…»
«Be’, in ogni caso non hai ancora risposto.»
Ci riflette su, nascondendosi la faccia tra i capelli. Sembra imbarazzata, molto più che tesa, adesso. Ha la mascella contratta, gli occhi grigio-verdi implacabili e seducenti, le labbra strette in una linea sottile. Osservo il suo petto alzarsi e abbassarsi al ritmo del suo respiro, cercando di imitare il battito del suo cuore.
«Ho,» Si stropiccia le guance con le mani, «ho litigato con i miei.»
«E perché mai?»
«Non è… non è tanto semplice da spiegare; è complicato.» Mi guarda in un modo che non riesco a comprendere. Si sente incompresa, si sente in qualche modo… sola? Diversa?
«Se ti fa sentire meglio, anche io ho litigato con i miei genitori.» L’ho detto. Ecco. Bene. Non mi piace parlare della mia famiglia, ed è per questa ragione che evito sempre l’argomento con chiunque. Non li nomino neppure. Ma con lei, con una ragazza che conosco appena, l’ho appena fatto.
«Non mi fa sentire meglio, ma… ti ringrazio.» Sembra sincera.
E la mia espressione non riflette altro che stupore. «Per cosa?»
«Mi hai… fatto sentire bene… per qualche minuto.» Aspetto la bleffa, una bleffa che non arriva. «Perciò grazie per avermi pedinata.» Sorride, ed io ricambio istintivamente.
«Non ti ho pedinata… non subito almeno.»
Si porta la tazza alle labbra e dà un ultimo sorso al suo caffè. Quando l’abbassa all’altezza dello stomaco, mi accorgo che le è rimasto uno sbaffo all’angolo della bocca, e la mia gola diventa secca.
«Ciò non toglie che tu l’abbia fatto.»
La fisso insistentemente ed avvicino una mano al suo viso. Mi guarda senza capire, e allora la rassicuro con un sorriso dolce e scherzoso, strofinandole il pollice sulle labbra. «Caffè», spiego, per giustificarmi. Poi mi alzo, allungando una mano verso di lei.
«Che c’è?» È ora di andare, e sono certo che lo sappia già, nonostante l’abbia chiesto.
«Vieni, ti accompagno a casa.»
 
 
 
 
 
Mi arrampico sulla finestra e manometto la finestra per entrare.
Ho appena lasciato Michelle a casa e, sebbene non avessi alcuna voglia di ritornare, la stanchezza ha incominciato a farsi sentire. Avrei potuto gironzolare per strada ancora un po’ ma le chiamate perse sul cellulare mi hanno ricordato che i miei genitori mi stanno aspettando.
Non so davvero che cosa mi abbia preso ma… l’idea di rivederli, di… di bussare alla porta di casa e ritrovarmi a faccia a faccia con loro mi…
Disgusta, non so scegliere termine migliore. Sono scappato, ho reagito come avrebbe fatto un bambino ─ non un uomo, me ne rendo conto. Eppure, non riesco a pentirmi. Sono troppo egoista per farlo.
Decido di lasciar perdere. Mi svesto, indosso una canotta e i pantaloni della tuta che avevo indosso prima di scattare in piedi dalla rabbia.
Il computer è ancora come l’ho lasciato. Lo riavvio e mi ricordo della ricerca che ho fatto su Michelle. Avrei dovuto chiederle spiegazioni, invece me ne sono completamente dimenticato. Digito la password e…
Impossibile visualizzare la pagina.
«Com’è possibile?»
Sbuffo, imprecando contro la connessione a internet, e apro un’altra finestra di Google. Genio. Thompson. Pagina 2. Clicco, clicco, clicco.
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Ed è fulmineo, improvviso. Come un lampo. Il display si oscura. Poi si riaccende. Un occhio umano mi fissa dall’altro lato dello schermo.
«Ma cosa… ?»
Tutto scompare. Tutto diventa immobile.
 
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Note d’autore:
Ho letto questo capitolo così tante volte che mi sanguinano gli occhi (y). Che bella prospettiva, eh? Parlando dei personaggi e di ciò che è successo: non vi preoccupate se non ci avete capito nulla, ogni cosa a suo tempo; troverete le spiegazioni che vi servono. C’è un motivo, se Kevin si è comportato in questo modo… un motivo che non ha (quasi) niente a che fare con il suo sogno di diventare attore. Per quanto riguarda Michelle… quella ragazza è un enigma perfino per me, e proprio come voi anche io devo ancora capire cosa le passa per la mente. Kevin è più prevedibile, in un certo senso sono io a “muoverlo”. Lei invece… mi ricorda Effie di Skins, e proprio per questo, più che per la sua somiglianza fisica con l’attrice, ho scelto Kaya Scodelario come suo prestavolto. Per quanto riguarda Kevin, sono andata più “a caso”: Jeremy Irvine mi ha conquistata, ha il suo stesso sguardo, punto e basta, e io lo amo (y). Ovviamente potete immaginarli diversamente… e in realtà sono curiosa di sapere quale attore/modello avreste associato a loro.
Detto questo, vi lascio.
Ringrazio tutti coloro che hanno letto e, in particolare, chi ha anche recensito. Non mi aspettavo così tanti commenti (mettendo in conto che sono anche una nuova iscritta).
Per contattarmi o altro, ecco i link: Facebook e Ask.
   
 
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