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Autore: Marta J de Villefort    20/10/2013    0 recensioni
Ho scritto questa fanfiction di getto tra il dicembre 2009 e i primi mesi del 2010 dopo aver visto a garganella decisamente troppe puntate di Dragon Ball Z in francese. Il risultato è l’accrocchio di stupidera che vedete.
Le due o tre persone che l’hanno già letta, a suo tempo, dicono che è loro molto piaciuta. Persino a chi di Palladidrago non sapeva una mazza (e non ne sa tuttora, salvo quanto appreso da questa sciocchezza).
Spero vivamente che piaccia anche a voi e che vi diverta. Sarebbe bello se mi lasciaste un commento, anche se negativo: saprei che siete passati e che la lettura non vi ha lasciati indifferenti.
E saprei anche per chi pubblicherò i capitoli successivi :) Buon divertimento.
Genere: Comico, Demenziale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Take 2. Dove si tratta dei rischi connessi all’inciampare nei propri pensieri

 

 

 

 

 

Passa un giorno. Ne passano due, ne passano tre. Dopo quelle apparizioni improvvise, la camera né la casa hanno risentito del minimo cambiamento, vale a dire grazie al cielo niente danni. In compenso, nessuna notizia dell’uno come dell’altro.

Vale a dire, oddio: lo so come va a finire, lo ben so. Una di quelle solite battaglie all’ultimo sangue, all’ultimo sudore, in questo caso particolare pure all’ultima lacrima (e d’accordo, ci sto sull’ultima lacrima. Ma avrei di più da dire sulla questione, se solo gli interessati mi ascoltassero); e infine Cell sgarrupato in, verosimilmente, particelle subatomiche da una gigantesca esplosione bluazzurrinobianca tutta sparaflesciata.

(En passant… Hiroshima ha proprio lasciato il segno a ‘sti giappi, non c’è che dire).

Comunque sia: dicevo, nessuna notizia.

No news is good news, si dice. Chissà perché, però, l’idea non mi convince per niente. Quando si suol dire i presentimenti.

Beh, dunque, un giorno due giorni tre giorni, non succede niente.

Al quarto giorno mi suona la sveglia la mattina—l’unico, sfigato giorno in cui ho scuola alla mattina e perciò mi tocca per forza alzarmi, pena la perdita di preziosissimi appunti e, devo ammettere, una lezione seriamente coi fiocchi. Priit priit priit priit sì arrivo priit priit priit priit sì mi alzo priit priit priit priit sì sta’ zitta porca troia mi alzo dal letto saltellando sulla moquette gelata volo a spegnere il cellulare e salto di nuovo nel letto al riparo e soprattutto al caldo sotto il magnifico piumone.

No way.

Un quarto d’ora dopo quell’altra:

In the day we sweat it out in the streets of a runaway American dream at night we ride through mansions of glory in suicide machines sprung from cages out on highway nine chrome-wheeled fuel-injected and steppin’ out over the line

Sì, sì, ho messo “Born to Run” come sveglia sul cellulare.

Che volete?

Mi tirava.

Quest’altro però è più vicino perché l’ho appoggiato sul comodino (il primo telefono lo tengo lontano per quella che credevo una furbizia tecnica: obbligandomi ad uscire dal letto, speravo incoraggiasse il completamento dell’atto dell’alzarsi. Malheureusement dopo un mese ha smesso di funzionare), perciò non ho che da allungare la zampa per farlo tacere.

Comunque mi sveglio, sì, ho capito e smettila.

Allungo la zampa, dunque. Occhi chiusi, sinapsi obnubilate e tutto: insomma il solito package deal del risveglio. Non becco il cellulare. Bruce continua a cantare, e dovrei per mezzo dell’udito individuarlo più facilmente. Strambo, ma no. Al suo posto sento coi polpastrelli un altro oggetto.

Lo palpo.

Degli occhiali.

Che non sono i miei.

Insomma, son costretta ad aprire gli occhi e portarmeli nello spazio visivo—molto vicino alle pupille, naturalmente. Come in ogni telefilm, in una scena del genere la protagonista si stropiccia gli occhi perché non crede a ciò che vede, giusto? Ed io, precisamente, mi stropiccio gli occhi: ho in mano dei Wayfarer neri.

Wayfarer.

Neri.

Quelli dei Blues Brothers.

Ora.

(E anche quelli di Audrey in Colazione da Tiffany).

Comunque.

Amo quegli occhiali. Sono una figata. Li volevo comprare, sul serio, neri classici e tutto, proprio uguali a quelli lì che ho in mano in quel momento. Però alla fine ho scelto gli Aviator. Una volta da bambina avevo persino degli occhiali simili: naturalmente non dei Wayfarer originali, questo è chiaro – d’altra parte avevo tipo otto o dieci anni all’epoca, dei Ray-Ban originali sarebbero stati un concetto eccessivo – però insomma la forma, il colore, erano praticamente uguali. Wayfarer di sottomarca.

Ma infine, ecco, chemminchia mi ci fanno dei Wayfarer neri sul comodino?

Fossi in una fanfiction, ora allungherei l’altra mano sul letto, nella direzione opposta (letto che, sia detto per inciso e manco a farlo apposta, è matrimoniale), per controllare lo stato di occupazione—ANZI NO ASPETTA UN ATTIMO se fossi in una fanfic tanto per cominciare sarei fighissima, avrei dieci decimi e soprattutto il co-occupante del letto—perché è chiaro che ci sarebbe un co-occupante, particolarmente dato che il letto in questione è doppio e che comunque io sono la Mary Sue di me stessa: che razza di Mary Sue sarei se dormissi sola la notte? Se dormissi, soprattutto, la notte.

Allora, divago.

Se fossi in una fefè, dicevo, in questo preciso istante il co-occupante del letto – dopo aver magari mugugnato qualche verso incomprensibile in seguito al suonare della sveglia – sentendo che mi sto svegliando allungherebbe un braccio nel sonno per rapprocciarmi e non squinternare il momento magico del sonno di coppia… Infatti la sento: una mano che sotto le coperte mi abbraccia più o meno all’altezza della vita e mi attira a sé e no aspetta un momento questo è un plot twist che non volevo e non l’ho mai desiderato e non posso cadere vittima dei plot twist in questo modo così stupido.

Zompo fuori dal letto con una parabola di un metro e mezzo (gli spazi nella camera son quelli che sono) e me ne resto lì come una pirla per un buon dieci minuti a placare la tachicardia e scrutare il letto in ogni suo dettaglio per verificarne scientificamente la vuotezza. I dieci decimi continuano a non esserci ma il braccio c’è stato e sono sicura, nel trauma, di aver visto un cranio e una chioma nera sul cuscino di fianco al mio.

E poi restano sempre quei Wayfarer sul comodino.

… Dei quali mi occuperò in futuro, perché adesso ho troppa fame. D’altra parte mica posso aspettarmi di arrivarne a capo prima di andare a scuola, e tantomeno prima di fare colazione. Come quando hai un tarlo nel cervello, quell’idea che sei sicuro di sapere o ricordare, e chepperò non ti viene in mente nel momento in cui ti serve (una delle esperienze più snervanti tu possa mai condividere col tuo cervello, una delle ragioni per le quali lo strozzeresti volentieri) ma che balza fuori, inaspettatamente, dopo un po’ di tempo—forse perché è proprio il tempo che le serve per, come dicono, “maturare”, o qualcosa del genere.

Ma insomma ho fame.

Perciò fingo di ignorare la questione degli occhiali.

Mica mi aspettavo che quelli non sarebbero stati l’ultima delle cose strambe di quel giorno. Tutt’altro: non furono che i primi.

I secondi li ho trovati in un modo altrettanto accidentale.

Un’ora dopo la faccenda degli occhiali, sono pronta per andare a scuola: cappotto sciarpa cappello, persino gli stivali ho già messo, tanto sono convinta di essere pronta ad uscire.

Sbagliato, Marta.

I guanti?

Nelle tasche del cappotto no; nelle tasche della borsetta no; nella borsa del computer no; sulla sedia accanto alla porta no; sul ripiano in soggiorno no; sul divano in soggiorno no; cavoli ora devo attraversare casa (la moquette!) con su le scarpe.

Oh beh.

In bagno, nulla.

(D’altra parte quale pirla terrebbe i guanti di lana in bagno?).

In camera: sul letto no; sul comodino no; sulla cassettiera no; nella cassettiera – e lì metto a soqquadro i cassetti un per uno – no; nelle scatole accanto alla cassettiera – che pure svuoto con metodo – no.

Dovemminchiasonofiniti i guanti.

Di sfuggita mi scappa l’occhio sull’orologio. È tardi! Non posso perdere altro tempo o entro a metà lezione. Mi serve un paio di guanti, anche un paio qualsiasi, anche della proprietaria purché siano dei guanti, ché io a fine novembre a Parigi non esco senza guanti ché fa un freddo pinguino che ti raccomando.

Insomma, nella mia consueta isteria nervosa volo da un lato all’altro della stanza occhieggiando e frugando ogni angolo possibile alla ricerca, se non mi è dato di trovare i miei, di qualcosa provvisto di ditah che possa coprirmi le mani.

Finalmente guardo il tavolino dell’angolo—per la prima volta nella mia vita, dato che è talmente pieno di scatoline e ninnoli e cianfrusaglie della proprietaria che ne ho timore. Stavolta però sono resa temeraria dalla necessità: e dunque comincio ad aprire cofanetti, spostare piattini ed insomma a mettere a soqquadro anche quello.

Yuhuu! C’è qualcosa: piegati con cura in una scatola che sembra fatta per loro, trovo dei guanti bianchi.

Wow.

Dimentica d’un tratto del tempo che scorre – il mio Bianconiglio interiore ogni tanto va dal Cappellaio Matto a bersi qualche tè – comincio a rigirarmi i guanti fra le mani come se fossi da Zara. Infine mi infilo il destro.

Non l’avessi mai fatto.

Aaahhh i guanti più morbidih della Storiah.

Subito mi infilo anche il sinistro e poi comincio, con metodo e assoluto piacere, ad aggiustarmeli: perché sono decisamente piuttosto grossi per me, con le dita un po’ troppo lunghe e soprattutto l’avambraccio (perché attenzione, non ho curato di specificarlo ma detti fighissimi guanti mi son lunghi fin quasi al gomito, vale a dire uno dei sogni di una vita quasi avveratoh), dicevo, soprattutto un avambraccio larghissimo. Per questo faccio un po’ fatica a farli entrare nelle maniche: e alla fine decido che è meglio stiano sopra alla manica del maglione piuttosto che sgualciti sotto. Ora mi restano le dita larghe, ma oh beh. Overall, sono un po’ come i guanti per lavare i piatti (quelli che uso, che appartengono alla proprietaria, mi sono pressappoco altrettanto più grandi), però sono incommensurabilmente morbidih (che sarà? Capretto? Vacchetta? Coniglietto? Ho finito dolci bestiole) e subito ho l’istinto a non togliermeli mai più in tutta la mia vita.

(Un po’ come con gli ultimi stivali che ho comprato, d’altra parte).

No giuro, son guanti di una comodità che uno non se la sogna nemmeno, tanto sono comodi. Per contro, invece, il tessuto esteriore sembra sintetico, ed apparentemente non ha lo stesso souci di morbidezza perché piuttosto ha la faccia resistente.

Bianco sparato, tra l’altro.

In quel momento di contemplazione, Bianconiglio walks in, ed io schizzo nevrastenicamente in direzione dell’ascensore.

Naturalmente la metropolitana non mi tradisce, ed attraverso una sapiente (per non dire fortunata) combinazione di coincidenze e posizionamenti strategici (tipo salire sul primo o sull’ultimo vagone a seconda della corrispondenza con l’uscita dal binario. Non l’avete mai fatto? Non ci credo. Obsoleti), riesco a penetrare non vista in classe con un solo quarto d’ora di ritardo—relativamente poco, dopotutto, considerato si calcoli su due ore di corso.

Insomma sono finalmente a scuola, pronta a seguire e concentrarmi.

Inutile dire che non ho tolto i guanti.

Mentre aspetto che il pc si carichi (e soprattutto si connetta ad internet ché la posta, santiddio, la postah non ho avuto mica il tempo di controllarla in mezzo a quella baraonda incomprensibile) mi impegno a prestare orecchio alla prof, che oggi parla di Europa sociale e Fondi di Coesione.

Mi impegno.

Sì: mi impegno.

Ma quegli occhiali, ma da dove mi sono cicciati?

In una parola: è intelligente (per la verità su questo avrei molti dubbi) ma non si applica. Malgrado gli sforzi, non riesco a scrollarmi quel dubbio dal cervello. Sicché perdo tutti gli interessantissimi contenuti della séance, saluto distrattamente i compagni di classe che pure (maybe) ci provano anche, a rivolgermi due parole gentili messe in croce, guardo nel vuoto ed occasionalmente scatto sulla sedia o sbuffo, causando i citati compagni di classe a lanciarmi dubbie occhiate (e probabilmente a rivedere le loro intenzioni di rivolgermi una parola gentile).

Salvo il fatto che continuo a rimuginarci sopra, però, nessun miglioramento accade di lì ad un po’ di ore: come d’abitudine torno a casa, pranzo, esco per andare dalle bambine, torno indietro, passo da Monopoli a procacciarmi la cena, entro in casa, faccio per disfare i sacchetti del supermercato e, finalmente, prepararmi la cena.

Un momento.

Rewind un attimino.

Perché qui avviene la terza individuazione, il terzo strambo avvenimento della giornata che marca il DURO scontro con l’irrealtà.

Sono sulla soglia di casa con diciotto borse su dieci dita e due spalle, ed il mio unico desiderio è di raggiungere il tavolo, o almeno una sedia, dove posare l’immane bagaglio (ennesima dimostrazione che non si dovrebbe mai fare acquisti a stomaco vuoto, e no, non vale solo per lo shopping): perciò, appena riesco malamente ad aprire la porta d’ingresso dopo aver lottato con strenuo coraggio con le chiavi, mi fiondo dentro, lanciata verso gli obiettivi poc’anzi enunciati allo scopo di alleggerire le mie sofferenze.

Ho detto che mi sono lanciata, vero?

Infatti poi sono anche caduta. Io e le mie diciotto borse.

Le uovah!

Zio re no ti prego fa’ che non sia successo niente alle uova—ricerca lampo nei sacchetti, check-up di tutti gli acquisti delicati (olive marmellata sidro mozzarelle cacchio speriamo non mi si sia spiaccicato nessun frutto) e poi, dalle profondità dell’oltretomba alle altitudini del settimo cielo, un tale sospiro di sollievo che avrei sollevato i sassi se l’avessero desiderato. Al che, è tempo della spontanea domanda: ma com’è che sono caduta?

Dalla posizione mezzo-accasciata a terra che mantengo, mi giro un po’ a destra e a sinistra per sorvolare i dintorni—sarò inciampata in qualcosa?

Sono inciampata in qualcosa.

ECCOME se sono inciampata in qualcosa.

Ricordate Janice di Friends? La ex di Chandler, quella brutta e stupida da cui lui passa cinque o sei stagioni a scappare, puntualmente ritrovandosela nei luoghi e momenti meno opportuni finché non riesce a levarsela definitivamente di torno sposando Monica.

Ecco, in quel momento ne sono stata per certo la copia sputata.

O.

MIO.

DIO.

Accanto a me giacciono (o meglio: sono io che giaccio, mentre loro, loro se ne stanno dritti in piedi, belli solidi e inamovibili) degli stivali: stivali blu, con finiture e bordini rossi, suola completamente piatta, punta e un cordino annodato alla caviglia. (Tra l’altro leggermente giganteschi, cosa che non mi aspettavo, ma then again, avrei dovuto immaginarmelo).

Poiché li riconosco, ho un tuffo al cuore.

E proprio in quel momento, mentre ancora il cuore non aveva ripreso il suo battito, sudden realization hit me. Per un moto involontario mi reggo la pancia col braccio destro e mi porto la mano sinistra alla fronte—mano ancora guantata, e l’inevitabile due più due che la comprensione improvvisa di tutti quei segni mi ha appena inoculato mi porta a verbalizzare mentalmente anche di chi siano i guanti che ho indossato con tanta felicità durante tutta la giornata.

Tale verbalizzazione mentale mi si traduce, assai più prosaicamente, in un output vocale quale una delle risate più isteriche siano mai uscite dalla mia gola (e io sono una che ha un debole per le risate isteriche): ma non è che un flebile tentativo di evadere dalla necessità di prendere atto dello stato delle cose.

Il quale stato delle cose non ho alcuna voglia di razionalizzare, per piatto e semplice terrore che precipiti più rapidamente di quanto (sospetto) già andrà a fare.

   
 
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