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Autore: Orologio    20/10/2013    0 recensioni
Giulia era affascinata, aprì bocca per dire “Sì, la prendo!”, quando, prima ancora che riuscisse a parlare, delle urla, provenienti dal pianerottolo, raggiunsero la stanza da letto in cui si trovavano lei e Pablo. Non riuscì a capire bene cosa stessero dicendo i due uomini, le uniche parole in spagnolo che riuscì a capire e a tradurre mentalmente furono “stronzo”, “vaffanculo” e “sei una testa di cazzo”, poi il tutto fu interrotto da un suono di vetri rotti. Giulia si voltò di scatto a guardare Pablo con aria alquanto terrorizzata e quando incrociò i suoi occhi, captò rassegnazione e rabbia nel suo sguardo. Lui sorrise flebilmente e poi le disse di non preoccuparsi, erano i due fratelli dell’appartamento di fronte che ogni tanto scoppiavano in delle furiose liti, ma che di solito potevano essere considerati dei vicini di casa modello.
Genere: Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo 3.


La sveglia suonò, gracchiante e fastidiosa come solo una sveglia puntata alle sei del mattino può essere. Giulia aprì stancamente i suoi occhi grigioverdi e la spense con un gesto deciso e violento. Lei detestava le sveglie. Era il 4 settembre. Era la mattina della sua partenza. E solo dopo un lungo sbadiglio se ne rese veramente conto, solo allora la smorfia che aveva in viso si trasformò in un sorriso a trentadue denti. Dalla finestra sbucavano i primi raggi di un sole settembrino che iniziava a farsi più pallido, preludio di un autunno ormai alle porte. Si alzò in fretta e corse in cucina ad accendere il gas sotto la macchinetta del caffè che aveva preparato la sera prima. Tutto era pronto per la partenza, aveva organizzato ogni dettaglio. La valigia era appoggiata al divano in salotto e i vestiti con cui aveva deciso di affrontare il viaggio erano appesi nell’armadio. Corse in bagno a sciacquarsi il viso e raccolse i lunghi capelli mossi in una treccia laterale. Si stupì di vedere la sua faccia molto meno stanca del previsto riflessa nello specchio. Si truccò leggermente, giusto per dare un po’ di tono alle guance pallide e si infilò i jeans, la maglia larga che usava sempre durante i viaggi e la felpa bordeaux più comoda che possedeva. Dopo aver bevuto il caffè bollente rischiando di ustionarsi la gola si ritrovò incredibilmente già pronta ed era in piedi solo da venti minuti. Sorrise pensando che l’emozione la rendeva decisamente più reattiva del solito e sfogliò un vecchio giornale in attesa del taxi che aveva prenotato la sera prima per portarla alla stazione Centrale a prendere l’autobus che l’avrebbe condotta all’aeroporto di Bergamo. Il suo volo partiva alle nove, ma aveva deciso di fare tutto con largo anticipo in modo da evitare brutte sorprese, era pur sempre un banalissimo mercoledì mattina e il rischio di rimanere imbottigliati nel traffico sulla strada per l’aeroporto non era del tutto remoto. Mangiucchiò qualche biscotto che sua madre le aveva dato la sera prima per affrontare il viaggio, prima di salutarla con un velo di commozione ad annebbiarle lo sguardo. Per la prima volta in vita sua non sapeva quando avrebbe rivisto la figlia e questo, inevitabilmente, la riempiva di preoccupazione e di tristezza. Senza neanche accorgersene, in un istante erano le sette e il momento di scendere in strada a prendere il taxi era arrivato. Sorrise di nuovo –da quanto tempo non era così di buonumore? Salutò con occhi affettuosi il suo piccolo monolocale e prendendo la valigia uscì dall’appartamento.

Il volo partì e arrivò nella calda Barcellona stranamente in perfetto orario. Giulia scese dall’aereo e si diresse verso il recupero bagagli. Una strana sensazione iniziava a invaderla: da un lato una sorta di dolceamara malinconia, alla fine non era la prima volta che metteva piede in quell’aeroporto e l’ultima volta, quasi dieci anni prima, ci era stata con Luca, il suo ex storico. Dall’altro però l’euforia aumentava in maniera esponenziale ogni secondo di più. Una volta presa la sua valigia si diresse fuori dall’edificio e salì sull’autobus che l’avrebbe portata in centro città. Aveva prenotato qualche notte in un ostello molto carino, caratteristico ed economico, dal momento che Pablo, il famoso proprietario del delizioso appartamento, non aveva dato alcun segno di vita. 
Verso l’ora di pranzo –almeno quella che in Italia è considerata tale, Giulia era nella sua stanza, piccola ma accogliente. Disfò la valigia e dopo una doccia ristoratrice decise di uscire per fare un primo giro di perlustrazione, quando inaspettatamente il suo cellulare iniziò a suonare. Guardò sul display il numero ma non lo riconobbe, dal momento che non era memorizzato e, per giunta, non aveva il prefisso italiano ma quello spagnolo. Senza sapere cosa aspettarsi accettò la chiamata e pronunciò un italianissimo “pronto?”
Giulia fu completamente stordita dalla voce del suo interlocutore, che in un secondo iniziò a parlare in modo incredibilmente veloce in spagnolo, tanto che lei non capì nulla se non “hola” e “me llamo Pablo”. Dopo un iniziale attacco di panico, riuscì non senza difficoltà a farsi capire e scoprì che l’appartamento che aveva visto online purtroppo era in via di ristrutturazione ma che, se voleva, lui disponeva di un altro carinissimo monolocale, un po’ più piccolo e spartano, ma anche più economico e che si offriva di mostrarglielo quel pomeriggio. Giulia accettò entusiasta e i due si diedero appuntamento in Plaça de Catalunya per facilitare lei, visto che le strade di Barcellona le erano pressoché sconosciute ma la piazza era talmente famosa e turistica che difficilmente si sarebbe potuta perdere.
Alle cinque si trovava davanti all’Hard Rock dove avevano deciso di incontrarsi. Era un po’ agitata: in effetti si trattava di un vero e proprio “appuntamento al buio” dal momento che non aveva la più pallida idea di che aspetto Pablo avesse. Dieci minuti dopo un ragazzone sulla quarantina, alto e dalla pelle olivastra, le si avvicinò con fare incerto e sorridendo pronunciò un “Julia?” aspirando con enfasi la J iniziale. Lei sorrise e dopo due chiacchiere di presentazione iniziò a seguire Pablo. I due si inoltrarono per delle viuzze labirintiche, larghe probabilmente solo un paio di metri. Dopo un quarto d’ora di camminata Giulia aveva definitivamente perso il suo senso dell’orientamento e, senza avere la minima idea di dove si trovasse, la sua guida si fermò di colpo davanti a un cancelletto in ferro battuto che separava la stradina semideserta da un piccolo giardinetto che si ergeva di fronte a un condominio su due piani dipinto di un arancione scuro e caldo, come il sole al tramonto. Pablo estrasse dalla tasca dei suoi bermuda un mazzo di chiavi e dopo aver aperto il cancello e il portone della casa fece entrare Giulia. Si ritrovò nel buio e fresco ingresso, per terra delle mattonelle a scacchi nere e bianche. Salirono una rampa di scale e si ritrovarono su un pianerottolo: c’erano due spesse porte in legno scuro una di fronte all’altra. La porta alla sua destra però era macchiata con dell’inchiostro rosso sangue –il che la inquietò un po’, e per terra erano appoggiati dei secchi di vernice. Pablo le spiegò che il suo appartamento era quello a sinistra, mentre lì abitavano due fratelli che, tra l’altro, avevano vissuto per parecchi anni in Italia e quindi sapevano parlare bene la sua lingua. Giulia sorrise e l’uomo impugnò l’ennesima chiave per aprire la grossa e pesante porta del monolocale. Si ritrovarono subito in quello che doveva essere il salottino-cucina. A terra sempre le piastrelle a scacchi bianche e nere e una finestra con un balconcino pieno di piante illuminava la stanza. Era spartana, sì, ma deliziosa. Sulla sinistra un cucinino e a destra una sedia a dondolo in vimini, un tavolino basso in legno, un minuscolo divano color porpora. Accanto al divano c’era una porta, anch’essa di legno scuro. Pablo la aprì e Giulia si ritrovò in una piccola ma adorabile stanza da letto: parquet a terra, un grosso letto matrimoniale in ferro battuto con un copriletto dal sapore orientale, un armadio né grande né piccolo e una piccola porticina bianca che portava al bagno, anch’esso minuscolo ma carinissimo con le sue piastrelline verde acqua. Giulia era affascinata, aprì bocca per dire “Sì, la prendo!”, quando, prima ancora che riuscisse a parlare, delle urla, provenienti dal pianerottolo, raggiunsero la stanza da letto in cui si trovavano lei e Pablo. Non riuscì a capire bene cosa stessero dicendo i due uomini, le uniche parole in spagnolo che riuscì a capire e a tradurre mentalmente furono “stronzo”, “vaffanculo” e “sei una testa di cazzo”, poi il tutto fu interrotto da un suono di vetri rotti. Giulia si voltò di scatto a guardare Pablo con aria alquanto terrorizzata e quando incrociò i suoi occhi, captò rassegnazione e rabbia nel suo sguardo. Lui sorrise flebilmente e poi le disse di non preoccuparsi, erano i due fratelli dell’appartamento di fronte che ogni tanto scoppiavano in delle furiose liti, ma che di solito potevano essere considerati dei vicini di casa modello. Lei non fu molto convinta dalle sue parole, dal momento che un falsissimo sorriso si fece spazio sul suo viso e questo la intristì molto, perché, vicini di casa a parte, quel monolocale era davvero perfetto. Stava ormai per rassegnarsi all’idea di dover cercare un’altra soluzione quando Pablo le propose di fare la conoscenza dei due. “Tanto cos’ho da perdere? Peggio di così non può di certo andare” pensò lei, e acconsentì.
Pablo le fece di nuovo strada e in pochi secondi si ritrovarono di fronte a quella porta inquietantemente macchiata di rosso. Bussò tre volte e un altro suono di vetri rotti fece perdere un battito a Giulia. Si udirono dei passi pesanti al di là del legno e quando la porta si aprì, lei sentì un uomo urlare in spagnolo “che cazzo vuoi Pablo? Non è il momento adatto…siamo impegn…” . Ma prima che potesse terminare la frase, lui spalancò sufficientemente la porta da includere anche la ragazza nel suo campo visivo e si zittì.
Per lei fu come ricevere uno schiaffo in pieno viso. Quell’uomo era di una bellezza disarmante, raramente, anzi forse mai in vita sua, aveva visto un uomo così vergognosamente bello. Lui guardò prima lei, poi Pablo con aria interrogativa e quando quest’ultimo spiegò che era una turista italiana che probabilmente sarebbe stata la nuova affittuaria dell’appartamento di fronte, lui sorrise e si presentò in italiano.

“Mi chiamo Javier, molto piacere”

E non appena Giulia sentì la sua voce con il tipico accento spagnolo decisamente marcato, non poté far altro che balbettare il proprio nome in trance. Ma quando Javier –oddio, che nome, solo pensarlo la accendeva fino al midollo- si mise a urlare “vieni qui, abbiamo una nuova vicina, è italiana!” e da dietro l’angolo comparve il fratello, per Giulia fu come ricevere un altro bollente schiaffo in pieno viso, perché lui, se possibile, era ancora più bello dell’altro.

“Ah sì? Adoro le italiane…piacere, sono Josè” e le strinse la mano in una morsa maledettamente sensuale.

Fantastico, pensò lei, Javier,Josè e Julia. Tre J alla riscossa.
  
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