Fandom:
Saint
Seiya
Rating: Per tutti
Personaggi/Pairing: Saori Kido, OC, Sorpresa
Tipologia: OneShot
Genere: Sentimentale, Fluff
Disclaimer: Personaggi, luoghi, nomi e tutto ciò
che deriva dalla trama
ufficiale da cui ho elaborato la seguente storia, non mi appartengono
ma sono
di proprietà di Masami Kurumada. Altresì, il
vecchio sacerdote e Momiji Matsuri
mi appartengono.
Note: OneShot collegata a Momiji Matsuri ma non appartenente
alla raccolta.
Compare Satoshi-jii. Buon compleanno, Mia Dea.
SONO
CRESCIUTA
Il
lieve stormire di foglie appena appena
mosse dal vento profumato di terra bagnata accompagnava la silenziosa
marcia di
una figura umana attraverso gli stretti sentieri del boschetto di
bambù che
portava al Santuario Nonomiya; non si distingueva bene il viso, celato
da un
paio di spessi occhiali da sole ma la lunga coda di cavallo in cui i
capelli
erano legati la identificava come una ragazza.
A
passo svelto, la fanciulla, che indossava
una semplice tuta da ginnastica bianca, salì i quattro
gradini della piccola
scalinata che fungeva da accesso al Tempio, prendendo fiato solo una
volta
arrivata in cima; poggiò la borsa nera da viaggio che teneva
a tracolla in un
angolo della piazzola spazzata e tirata a lucido e ne estrasse una
borraccia.
Il
viso arrossato e il respiro accelerato le
conferivano un’aria estremamente giovanile, quasi umana, a
dispetto dall’aura
di mistero che la attorniava.
“Sei
in ritardo, figliola.”
Una
voce gentile e quasi sbruffona la fece
voltare e sulla soglia dell’edificio principale
notò la figura di un sacerdote
dai capelli bianchi come la prima neve. Lei sorrise, alzandosi in piedi
e
inchinandosi leggermente: “Chiedo scusa ma sono venuta sin
qui a piedi e mi
sono attardata a dare un’occhiata in giro.” disse,
levandosi gli occhiali e
mostrando un paio di graziosi occhi color nocciola.
Il
vecchio rise: “E il tuo maggiordomo dove
l’hai lasciato?” chiese, facendole strada verso gli
edifici più nascosti del
complesso, “A casa, sono partita senza che nessuno se ne
accorgesse. Questa
cosa dovevo farla da sola, non sono più una
bambina.” dichiarò risoluta; il
sacerdote sorrise appena, baciandole galantemente la mano,
“No, sei davvero
cambiata, piccola Saori, lo leggo nei tuoi occhi e anche la decisione
che hai
preso di venire sin qui da sola ne è la prova
lampante.” decretò serio lui,
porgendole il braccio mentre si reggeva col bastone.
Camminarono
in silenzio per qualche minuto
sino ad arrivare sotto un acero, le cui foglie avevano cominciato ad
assumere
la caratteristica tinta rossastra; sotto, c’era una tomba
addobbata di fiori,
fiori di ogni forma e colore, fiori bellissimi e profumatissimi che si
muovevano piano al soffio del vento.
Saori
restò interdetta per qualche istante a
quella vista: “Ah, non guardare me!”
esclamò con una sfumatura di allegria
l’anziano religioso, intento a fumare allegramente una pipa,
“Qualche giorno fa
si sono presentati qui alcuni ragazzi in tuta da lavoro, tra cui un
piccoletto
che conosco molto bene, si sono offerti loro di addobbarla a questo
modo, non
so come abbiano fatto ma hanno scoperto che tu ogni anno in questo
giorno vieni
qui, Saori-chan, e mi hanno anche detto che questo è il loro
regalo per te.
Hanno aggiunto che non si può rimproverare nulla ai
morti.” spiegò il sacerdote,
“e che non è necessario che tu venga qui ogni
anno. Perché loro non hanno più
nulla contro tuo nonno, volevano che tu lo sapessi.” sorrise
sornione.
Lady
Kido, reincarnazione in Terra della Dea
Athena sentì gli occhi pizzicare e le ginocchia cedergli.
Cadde
sul terreno soffice e umido ma non le
importava nulla perché il cuore le traboccava di una gioia
improvvisa e senza
confini.
Sapevano…
I
suoi fratelli sapevano di quel rito che si
perpetrava di anno in anno nel primo giorno di Settembre, il giorno in
cui lei
era venuta davvero al mondo, il giorno in cui un Aiolos morente
l’aveva
affidata a Mitsumasa Kido, il primo vero giorno della sua vita.
Nemmeno
lei sapeva il motivo di quel rito
annuale, era diventata ormai un abitudine a cui non era mai riuscita a
rinunciare, come se non volesse veramente lasciare andare
l’anima di suo nonno,
come a volerlo continuamente ringraziare per qualcosa, aggrappandosi a
un’anima
che così facendo condannava a restare sulla
Terra…
Era
una cosa estremamente infantile, non
adatta a una Dea, se l’era detto molte volte, ma il cuore non
aveva voluto
sentire ragioni.
Ma
ora, aveva compreso.
Era
cresciuta in quell’anno, era cambiata
rispetto alla sua ultima visita a quel luogo, era cambiata tantissimo.
Ma
era riuscita a farlo solo grazie a quelli
che ormai erano suoi fratelli: non più solo i Bronze
forgiati dal fuoco delle
battaglie e dal sangue gli uni degli altri, ma la sua famiglia.
Loro
avevano sotterrato i sentimenti malevoli
che provavano, che giustamente provavano, e così facendo le
avevano fatto
capire veramente quello che doveva fare; doveva smetterla di farsi del
male
cercando un perdono che non poteva esserci perché non
necessario e doveva
lasciarsi alle spalle il passato.
“Ho
già visto quello sguardo!” gemette
scherzosamente il sacerdote, “Jabu-kun aveva la stessa
scintilla.” rise lui;
Athena lo guardò stralunata: “Cosa?”
esclamò sorpresa, “Lo conosce?”
domandò. Lui
annuì: “Certo, quella peste di ragazzino dai
capelli neri. Anche lui ci ha
messo un po’ a capire quello che doveva fare; potrei
ribattezzare il Santuario
come Tempio Dei Compleanni, sono già due le persone che
hanno imparato qualcosa
nell’anniversario della loro nascita, che sia un segno del
Buddha?” ridacchiò.
Poi,
le passò un fazzoletto candido con un
tenero sorriso stampato sul volto pieno di rughe: “Non
preoccuparti, piccola
Saori… Ci penso io a ripulire, ma tu ora hai qualcosa da
fare… “ disse lui,
tendendole una mano per aiutarla a rialzarsi.
Sì,
aveva molte cose da fare.
“Io
ti consiglio di andare nella foresteria
del Tempio prima di andare…” le
suggerì, sussurrandole all’orecchio:
“Credo ci
sia qualcuno che vuole vederti.”.
E
Saori obbedì.
A
passo malfermo, cominciò prima a camminare
e poi, una volta ritrovata la fiducia nelle due gambe, a correre: e
corse,
corse, corse fino a raggiungere infine l’edificio in legno a
lei tanto
familiare da cui sentiva provenire qualche voce che borbottava, bassa e
indecifrabile.
Sarebbe
entrata, li avrebbe abbracciati e
forse avrebbe anche pianto.
E
non se ne sarebbe vergognata.
Anche
questo voleva dire essere cresciuta.