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Autore: fiammah_grace    22/10/2013    2 recensioni
[Resident Evil: code Veronica X]
"Seppur la non fisicità di Alexia, la sua presenza era rimasta come un alone costante nella vita dell’uomo che abitava oramai da solo quel vuoto castello.
Una costante fittizia, ma così viva e forte che a un certo punto lui stesso l’aveva resa reale continuando a dare un nome, un volto e un ruolo alla sua venerata e lontana sorella, muovendo uno spaventoso gioco di ruolo mentecatto in cui ella esisteva e non lo aveva mai lasciato.
Nulla avrebbe avuto importanza per lui. Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Unica Donna, la sua Unica Regina. Persino se stesso.
Qualcuno tuttavia aveva osato disturbare la sua macabra attesa.
Claire Redfield. Il nome della donna dai capelli rossi che aveva invaso il suo cammino nel momento più prezioso. Il nome dell’infima donna che aveva sporcato l’universo perfetto di lui e Alexia, portando scompiglio nel suo territorio.
Quella formica che gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare."

[Personaggi principali: Alfred Ashford, Claire Redfield]
Genere: Angst, Dark | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing | Personaggi: Alfred Ashford, Claire Redfield
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 2: una mendace commedia
 
 
 
 
 
 
Certi sogni si infrangono contro lo spiraglio di una porta che vorremmo invano chiudere a chiave e attraverso cui, speriamo di ritrovare qualcosa di indefinito.
E’ un po’ come aprire uno Scrigno per riassaporare il gusto di certe Emozioni, o entrare in un Giardino per respirare quel nostalgico profumo di Amore e di Vita…
Una forza indipendente dalla nostra volontà che ci spinge a cercare ancora, ciò che abbiamo lasciato in un sogno rimasto al di là di quella porta: la parte più bella di noi, che si è persa per sempre.
( Imma Brigante )
 
 
 
 
 
Delle risatine distanti si udivano sullo sfondo di un ricordo offuscato. Echeggiavano in modo disturbato e instabile, come una pellicola malandata i cui suoni non si distinguono più e rassomigliano a un eco nostalgico e incomprensibile. Il rumore dei passi che correvano si accavallava con i risolini infantili di due bambini che si tenevano per mano. Essi sgattaiolavano ridenti solcando il fogliame posatosi sul prato verdissimo, trascurato e lasciato crescere in modo selvaggio, ma non abbastanza folto da impedire loro di avventurarsi. Essi, affannati e ancora sorridenti, si fermarono solamente quando si assicurarono di essere soli.
Sghignazzarono fra di loro, dopodiché uno di loro tirò per il braccio l’altro, forzandolo a sedersi su quel verde. Strattonato con quella veemenza, il secondo cascò a terra, ma fu lieto che la sua compagna avesse avuto quell’iniziativa; questo perchè adorava essere al suo fianco. Era felice quando poteva guardarla in quegli occhi così chiari e luminosi, ricchi di fascino e bellezza.
Sorrisero, non avendo bisogno di proferire alcuna parola per comprendersi. Intrecciarono le loro dita le une nelle altre, trasmettendosi quel calore affettivo che nessuno aveva mai comunicato loro. I due così avevano colmato quel vuoto aggrappandosi l’uno all’altro, costruendo un legame inscindibile che nessuno avrebbe mai potuto comprendere. Qualcuno che non fosse nato in quello stesso mondo, con quegli stessi occhi complici.
Entrambi marmorei e dai tratti sottili, con occhi celesti e divini, avevano dei morbidi e sottili capelli biondi, nell’uno tagliati a caschetto, nell’altra lasciati lunghi. Identici e quasi indistinguibili, essi condividevano non solo la condizione di vita tipica dei gemelli, loro erano molto di più.
Una coppia unita dalla nascita, un principe e una principessa che si erano congiunti fin dal primo momento in cui avevano aperto gli occhi. Un’anima sola divisa in due corpi.
Era forse stato il destino a farli nascere in due, consapevole della vita solitaria che altrimenti avrebbe condannato l’uno o l’altra, lenendo così la sofferenza di quell’esistenza travagliata. Sentivano entrambi dentro di loro qualcosa che trascendeva le loro conoscenze, come se non fosse un caso che l’uno colmasse le mancanze dell’altro. Perché se i due non avessero avuto che se stessi, nulla avrebbe avuto un senso, e le loro intere esistenze sarebbero state come un oggetto dimenticato e lasciato a morire. Per questo il fato era intervenuto, scindendo quell’anima in due: perché così non sarebbero mai, mai, stati soli.
La ragazza dai capelli lunghi abbassò il viso e il suo sorriso divenne più spento. Suo fratello sentì quello stesso turbamento anche dentro di se, pur non conoscendone la causa; ma per lui era spontaneo sentire il dolore di colei che era una parte di lui. Era questo che significava possedere un’anima sola.
Si avvicinò alla fanciulla, facendo scorrere lo sguardo dalle sue ginocchia premute sull’erba, coperte dal suo bellissimo abitino bianco, alle sue spalle rivestite da una elegante giacchina grigio scuro che si chiudeva sul busto lasciando scoperto soltanto il colletto bianco del vestito su cui era spillata la pietra scarlatta che contraddistingueva sua sorella.
Si avvicinò sempre di più, arrivando a trafiggere con i suoi occhi le iridi azzurre di lei, che volentieri concesse il suo sguardo al suo unico e prezioso fratello.
Non avevano bisogno di dirsi altro.
Il loro mondo era perfetto così.
I gemelli Ashford avevano creato i loro equilibri in quell’esistenza malata e violenta, e finché quel filo non si fosse spezzato, bastava ad assicurare loro la felicità.
Eppure…
 
…quello stesso fato magnanime fu più crudele di quanto non avrebbero mai potuto pensare…
Le loro vite già devastate presto sarebbero state sconvolte….
 
Se soltanto non fosse mai stata svelata la verità, trasmettendo in quei bambini un senso di frustrazione, una brama di potere… e un’ ossessione che mai avrebbero potuto colmare. In realtà vittime di un destino spietato che aveva già dannato in modo irreversibile ogni loro certezza, innestando in loro l’idea che non esistesse traguardo più ambizioso che portare a termine la loro missione.
L’esperimento di quella che sarebbe diventata la dannazione e l’ossessione di Alexia Ashford.
 
 
 
 
***
 
 
 
 
Camera di “Alexia” - Sera
 
 
Cos’è peggiore dell’oblio?
Quella devastante ed estraniante sensazione che allontana il nostro corpo sempre più dalla realtà, rendendoci delle marionette assenti di un mondo che scorre inarrestabile davanti ai nostri occhi.
L’inerzia uccide quanto un colpo d’arma da fuoco. Ci devasta e ci piega ai suoi piedi, imponendoci di prostrarci alla sua ubbidienza e facendoci inutilmente credere che non vi sia nulla attorno a noi eccetto il buio opprimente di un mondo vuoto e privo di forma.
Pensare a un mondo nero, tenebroso, crudele, spietato…
Un mondo vuoto.
Un mondo che non esiste. Un mondo che non ci vuole. Un mondo regnato dal caos, dalla disperazione, da un senso di rifiuto e indifferenza. Un mondo cupo e triste che non ci lascia altra scelta se non di cadere nell’oblio. Decidiamo così di non vivere, di assecondare le sorti che quel destino ci ha assegnato, soccombendo in questo vortice vuoto e debilitante.
Una disgrazia che non lascia scampo e ci accoglie nel suo freddo e spietato petto, non concedendoci di intravedere altre vie…. nulla è al di fuori di quel nero.
Il Niente è il padrone assoluto dell’oblio.
Muori; muori a furia di aspettare, a furia di sperare di sciogliere quelle catene che in verità hai sempre saputo essere senza lucchetto.
Non esiste la chiave, non esiste una combinazione che possa lenire quel dolore. Una prigionia senza fine che ingloba l’intero universo che ruota attorno a noi. E’ una condizione di vita quella che avvolge colui che è caduto nell’oblio.
Di fronte tale condizione di vita, se così vogliamo ancora chiamarla, non è forse meglio la morte?
La morte non diventa forse un caldo abbraccio, a confronto?
La morte dell’anima che cade in balia dell’ oscurità, del silenzio, della dimenticanza più tetra, è forse la vera e temibile morte.
La morte dello spirito.
 
E’ questo che accompagna le mie notti. E’ questo che non mi dà pace. E’ questo che mi impedisce di credere a quel che ho davanti ai miei occhi.
Quello che mi circonda è il vuoto di un mondo che non mi appartiene.
Perché ne sono certa?
Non lo so….
E’ il cuore che mi parla.
Un cuore che nonostante l’oblio che mi ha assorbito, non ha smesso di battere.
Voglio vivere…non voglio che questa sensazione di abbandono porti via una parte di me. Non voglio che laceri e devasti la mia mente, che già non fa che ripetermi e ripetermi che non c’è nulla a cui possa aggrapparmi.
La mia anima che si corrode, che si lacera, si consuma, brucia, si disperde. Si disintegra fino a sbriciolarsi proprio davanti ai miei occhi, dileguandosi come se stessi afferrando un pilastro composto di cenere, che aggrappandomi, sporca il mio corpo e scivola vai dalle mie mani senza che io abbia neanche potuto toccarlo.
Quello che chiedo è solo di avere la possibilità di vivere.
Lasciami vivere.
Lascia che questo male mi abbandoni.
…Alexia…
 
 
 
…Alexia…
…Alexia…Alexia…
 
 
Quel nome si espandeva nella sua mente ripetendosi con paranoia ossessiva, in un delirio alienante che annullava ogni suo significato a furia di essere rievocato, divenendo un suono lontano ed estraneo che non sentiva appartenerle. No…
Non era una sensazione. Sapeva, infatti, per certo che esso non le apparteneva.
Questo perché più ripeteva nella sua mente quel nome, più non si capacitava di essere quella donna.
Più ripeteva nella sua mente quel nome, più ricordava di non aver mai indossato in vita sua un abito lungo e raffinato come quello. Più ripeteva nella sua mente quel nome, più sentiva reale quella tormentata presa in giro che annullava il suo io. Più ripeteva nella sua mente quel nome, più ricordava di non avere i capelli biondi…
Seppur l’oblio in cui era precipitata, una parte della sua anima era riuscita ad aggrapparsi a qualcosa, non permettendo che essa venisse perduta per sempre. Così nella sua mente facevano a cazzotti quelle due realtà: una che rievocava la vita, una vita che un tempo sapeva di aver conosciuto, e voleva riemergere nonostante fosse bloccata da qualcosa nel suo inconscio che non le permetteva di arrivare a lei; e l’altra che le imponeva di abbandonarsi alla dolce indolenza che impigriva i suoi sensi, cedendo a quell’inganno che lentamente stava diventando la sua vera realtà imposta.
Voleva vivere, voleva scacciare quell’angoscia, eppure essa era più forte e la schiacciava come se avesse preso il pieno controllo del suo corpo e delle sue debolezze; la dominava come conoscendola palmo a palmo, premendo sui suoi impulsi e gettandola ancora più in profondità in quel mondo vuoto che la inghiottiva prepotente e che lei cercava di contrastare con tutta se stessa.
 
La giovane donna alzò il viso, sudato e angosciato. Il respiro era calmo, ma sentiva l’affanno crescere dentro di sé e che le impediva di prendere beatamente sonno. Generalmente si assopiva in seguito allo sfinimento di quella perpetua sensazione di stordimento che la perseguitava ormai da giorni. Si addormentava pur di non dover sentirsi così tutta la giornata, pur di mettere la parola fine a quell’agonia.
Il vomito, dovuto alla fortissima nausea che aveva in corpo, le saliva disgustosamente in gola. Era insopportabile, come se le stesse prosciugando l’anima, la sua intera essenza vitale, opprimendola in quell’agonizzante condizione di squilibrio e confusione, che disorientava i suoi sensi fino ad annullarli, non permettendole di riconoscere più qual era il mondo reale.
Era questo che accompagnava i suoi giorni; era questo che la sopraffaceva e la ingabbiava, facendola sprofondare in un caos sbagliato e riluttante, privo di forme e strutture, condannandola a galleggiare in un etere buio e ostile, che voleva annientarla conducendola alla perdita del suo spirito.
Nel buio della sua ragione, guardò fugacemente attorno a sé, sperando che in quella stanza fosca e ombrosa ci fosse qualcosa che l’aiutasse a fare chiarezza sull’assurda situazione in cui si trovava e dalla quale non riusciva a più uscire. Qualcosa che parlasse d lei, che le confermasse che era solo un incubo, che le comunicasse un qualsiasi senso della realtà che al momento le sfuggiva e la faceva sentire male.
Purtroppo però l’unica cosa che la circondava era soltanto la triste e indifferente oscurità della notte, che non voleva venire incontro alla sua tormentata e disperata condizione, che gridava aiuto, che implorava di tornare alla luce.
Girando gli occhi assonnati e speranzosi, che cercavano ossessivi i segni di una vita che sentiva estranea alla sua persona, riuscì lentamente a scorgere la sagoma del baldacchino su cui era adagiata.
Era maestoso, e molto ampio. Sembrava quello di una persona regale, e si accorse solo in quel momento di essere avvolta dalle sue soffici lenzuola di seta, il cui colore era indistinguibile nell’ombra. Di fronte a se vedeva in modo precario un soffitto variopinto, sembrava un affresco angelico. Facendo invece scorrere il suo sguardo verso il basso, intravedeva un mobile scuro, accanto al quale era posizionato uno specchio…anzi, una postazione da trucco. Parte di quel vetro risplendeva nell’oscurità, riflettendo una luce tenebrosa che non proiettava alcuna immagine, come simbolo di un mondo che non era pronto ad essere rivelato.
Quando la ragazza fece per sollevare il busto, trovò inaspettatamente resistenza all’altezza dei polsi. Sbirciò in loro direzione e delle tenaglie la tenevano ancora una volta bloccata sulla sua posizione.
Strinse gli occhi, accigliata. Quelle catene intrecciate dietro lo schienale del letto cadevano sul materasso e imprigionavano entrambi i suoi polsi in due morse ferrose e pesanti, maleodoranti di vecchio e di ruggine.
Con estrema fatica riuscì a fare mente locale.
Quel risveglio le fu presto familiare e alla fine ricordò nitidamente che non era la prima volta che accadeva. Anzi…era una constante.
Perchè lei era sempre incatenata. Lei era sempre prigioniera.  A meno che non c’era lui…
Era solo in presenza dell’altolocato ragazzo dai capelli pallidi che lei era libera di alzarsi dal suo letto, o dalla sua poltrona, sui cui era generalmente costretta a sedere.
L’incoerenza notata nei giorni precedenti si fece sempre più oggettiva, fino a tramutarsi in un’insistente voce interiore che cominciò a sussurrarle.
Era un richiamo forte, che le urlava nelle orecchie e che da giorni pretendeva il suo ascolto, ma che solo adesso era riuscita finalmente a sentire.
Era la voce della sua coscienza che implorava il suo corpo di risvegliarsi.
Prese così a ragionare tacitamente, riflettendo su quella situazione paradossale e spaventosa. Su quel ragazzo vestito di rosso; sul perché lui la teneva incatenata al suo letto; perché non riusciva a riconoscere il suo viso; e quel posto…perché non riconosceva casa sua?
Era tutto così visibilmente illogico…persino lei stessa oramai non sapeva più chi fosse.
Chi era Alexia? Perché la chiamava così?
Se era la sorella di quell’uomo, allora perché la teneva imprigionata?
Doveva ricostruire il quadro della situazione e riappropriarsi della propria capacità di agire il più in fretta possibile, prima di perdersi ancora di più nel raccapricciante labirinto della follia che albergava in quella villa.
 
 
***
 
 
 
(…nello stesso tempo)
Stanza di monitoraggio - Sera
 
 
 
Alfred Ashford guardava nervosamente verso il monitor. La tensione poteva sentirsi a fior di pelle.
La sua gamba non smetteva di muoversi. Egli agitava il piede in modo che il tacco andasse su e giù, su e giù.
Anche la sua mano aveva preso a picchiettare nervosamente contro il tavolo sul quale era appoggiato già da diversi minuti. Lo sguardo vago, la pelle fredda, il cuore in tormento, la frenesia che agitava il suo corpo, l’angoscia che lo innervosiva…
Questo era quello che gli accadeva da una notte in particolare.
Da quella notte in cui aveva incrociato il suo sguardo con un altro essere umano.
Un altro essere umano…che non fosse Alexia.
Alfred aveva certamente conosciuto altre persone nella sua vita. Era ovvio fosse così.
Era andato a scuola, frequentato l’università, era stato comandante di un campo dell’Umbrella di cui attualmente dirigeva il Centro di Addestramento, prima che la sua base venisse inspiegabilmente attaccata.
In quei contesti aveva incontrato molte facce nuove, e tantissimi volti erano passati passivamente al suo cospetto, ma a nessuno lui aveva mai dato importanza. Essi erano ai suoi occhi immagini prive di significato, assolutamente riluttanti, diversi….
Diversi da lui, diversi da Alexia.
Egli era oramai irrimediabilmente a disagio, se non disgustato, dal contatto di chiunque non fosse lei, sua sorella gemella. Aveva sempre prediletto la solitudine del suo castello, tenendosi a debita distanza dai suoi colleghi. Quel mondo così lontano dal suo lo spaventava…
L’essere cresciuto in completa solitudine, fra quegli esperimenti inumani, in quel contesto malato e perverso, con la sola ed esclusiva complicità della furba e vincente Alexia, lo aveva completamente staccato dalla realtà in modo ormai irreversibile.  Non avrebbe mai più potuto far parte del mondo comune. La solitudine e la depressione in cui era caduto fin da ragazzino avevano inesorabilmente deviato la sua mente, rendendolo incapace di uscire dalla sua cattività.
La sua gabbia era divenuta la sua tana, un posto che poteva condividere solo con una persona, l’unica che con lui aveva condiviso quello stesso crudele destino.
Accanto a lui c’erano sempre stati due soli occhi complici che rispecchiavano il suo stesso animo, la sua stessa eccentricità, il suo stesso essere ‘diverso’, le sue stesse macabre ossessioni…
Alexia Ashford
 
Era lei l’unica che avesse al mondo. L’unica della quale si potesse fidare, in un mondo che aveva voltato loro le spalle, che li aveva infangati e marchiati con l’indelebile segno dell’inganno. Strumentalizzati e demonizzati dalla loro stessa famiglia, che li avevano voluti e usati solo per i loro comodi, costringendo le loro vite a una dannazione eterna; i biondi gemelli avevano toccato con mano la crudeltà di quel mondo nefasto dove vivevano i ‘normali’ esseri umani. 
Alfred ed Alexia Ashford erano divenuti così l’uno il sostegno dell’altro. Gli unici che valessero il significato della vita. L’uno era l’unica spalla sulla quale l’altro potesse contare.
Loro erano il Re e la Regina.
In quel destino crudele e deviato, che aveva mirato a schiacciarli e a sfruttarli, un morboso attaccamento si sviluppò nei due, ed in Alfred in particolar modo.
La bionda era una continua fonte d’ispirazione, un esempio da amare, seguire, venerare con tutto se stesso. Forte e meravigliosa, aveva da sempre avuto più scaltrezza e intelligenza rispetto al disturbato Alfred. Era lei, infatti, la vera perla della famiglia, che avrebbe riportato gli Ashford al loro antico splendore.
Era su di lei che vertevano le aspettative di tutti.
Così Alfred era solo un puntino rispetto al suo genio. Dotato anch’egli di una spiccata perspicacia e un ingegno certamente fuori dal comune, rimaneva tuttavia in ombra rispetto la promessa della famiglia che aveva ereditato al meglio le qualità intellettive della loro stirpe.
Il ragazzo era così divenuto un “diverso” persino in quel contesto. Un ostacolo per l’intelligenza di sua sorella.
Al contrario, però….la frustrazione dell’essere secondo, l’agonia di essere perennemente oscurato dalla possente luce di Alexia, generò in lui il complesso di un umile servo, che avrebbe fatto qualsiasi cosa per assicurare il successo e il benessere della sua Regina.
Perché era a lei che doveva quel poco di buono che aveva avuto dalla vita. Era grazie a lei che leniva le pene di quella vile esistenza dimenticata.
Alexia divenne qualcosa di più di una sorella. Qualcosa di più profondo di un’anima gemella.
Ella diventò un’ossessione.
Lei divenne La Donna. L’unica Donna che potesse esistere per lui.
La sua Unica e Perfetta Regina, oltre la quale non vi era nessuno.
 
Di conseguenza, ciò fece maturare in Alfred una dipendenza mentale, immettendogli nella testa la folle idea che quel mondo, senza la sua adorata, non aveva significato di esistere.
Era un mondo che doveva proteggere esclusivamente per lei. La Donna e la sua Regina.
 
Con l’assenza di Alexia, conseguentemente, questi disturbi si trasformarono in sadismo, psicopatia, follia…
La ragazza, infatti, si ibernò all’età di dodici anni, al fine di essere lei stessa l’esperimento che avrebbe dato di nuovo gloria agli Ashford, lasciando quindi da solo il giovane Alfred a vegliare su di lei, in quel lugubre e desolato castello.
Gettato nel dolore e nella solitudine più profonda, il ragazzo sapeva che mai sarebbe potuto sopravvivere senza quell’importante e fondamentale parte di sé, rappresentata proprio dalla sua amata sorella.
Egli quindi realizzò ben presto che l’ unico modo per continuare a dare un senso alla sua vita era quello di proteggere l’unica cosa cara che avesse: ovvero, ancora una volta, Alexia.
Nulla dunque avrebbe avuto importanza per lui. Nulla avrebbe avuto alcun valore se non rispecchiava gli interessi della sua somma sorella.
Avrebbe sacrificato ogni cosa al fine del benessere e del successo della sua Regina. Persino se stesso.
 
Ma la follia già aveva devastato la sua mente, incapace di contenere il suo reale malessere.
Un dolore incommensurabile, atroce, insostenibile, insopportabile….
Nulla avrebbe potuto lenire quella tragica ferita, che non avrebbe potuto che allargarsi in quindici anni di attesa.
Così, se da una parte dedicava la sua esistenza al progetto T-Veronica di sua sorella, dall’altra ricercava il modo per dar sfogo al suo dolore, tramutatosi presto in perversione, divertendosi con giochi di torture sadiche e violente, che macchiavano di sangue i suoi prigionieri, cavie inconsapevoli di quella giostra esangue.
Il Centro di Addestramento dell’Umbrella divenne per lui un universo macabro ed appagante, in cui riversava tutta la sua sofferenza su quei corpi privati della stessa anima che oramai era stata strappata anche a lui con l’assenza di Alexia.
Era quello il suo mondo, era quella la sua unica via di fuga.
Era questo che appagava il suo senso di disperazione e che traduceva la sua reale personalità disturbata.
 
Poi…improvvisamente qualcosa era cambiato.
Qualcuno aveva osato penetrare e disturbare la sua macabra attesa di Alexia.
La sua isola a Rockfort era stata attaccata ed era apparsa tempestivamente lei….
La misteriosa e conturbante Altra Donna, che si era insinuata nel suo Centro di Addestramento, portando nello scompiglio i suoi piani.
Inizialmente aveva trovato divertente vedere come quell’insignificante formica riuscisse a fuggire e a nascondersi nei meandri del suo castello. Come uno sporco topo di fogna conscio della morte in agguato nell’oscurità, di cui egli era il padrone assoluto.
Perché era lui che possedeva il potere della vita e della morte nel suo lugubre e gotico territorio.
Era un gioco che lo esaltava, che aveva riacceso i suoi sensi e la sua natura eccentrica.
Claire Redfield avrebbe certamente dato un po’ di brio a quella devastante attesa, soppiantando quell’incolmabile solitudine che aveva in corpo. Di questo, in effetti, avrebbe dovuto essergli grato, e l’aveva fatto. Aveva, infatti, mosso per lei tutta la crudele “accoglienza” che la sua dimora potesse offrire.
Sarebbe stato un soggiorno indimenticabile.
Ma quella formica gli aveva dato del filo da torcere…persino troppo. Più di quanto potesse sopportare.
Così tanto che presto smise di divertirsi.
Giunse il momento in cui quella formica dovesse essere schiacciata.
La rabbia che covava in corpo, l’angoscia che non lo abbandonava, si riversarono d’un botto tutte su di lei, che divenne ai suoi occhi l’Altra Donna. La donna impura e ignobile, spregevole e insignificante.
Un nemico di cui sbarazzarsi al più presto.
 
Eppure… eppure c’era qualcosa che l’aveva inesorabilmente sedotto di lei.
Qualcosa che a lui mancava… qualcosa che un tempo lo completava...
 
Tornò a guardare lo schermo, oltre il quale la sua meravigliosa donna dai lunghi capelli biondi giaceva dormiente.
Ella si agitava nel suo letto. Stava indubbiamente per svegliarsi.
Il biondo osservò minuziosamente ogni sua movenza, ogni tremore del suo corpo: le sue gambe che si sollevavano sotto il lenzuolo, il respiro che gonfiava il suo petto, le maniglie di ferro battuto che le ancoravano i polsi e costringevano i suoi movimenti, i suoi meravigliosi capelli biondo platino che si arricciavano sul cuscino…
Quell’immagine lo ipnotizzò, rendendolo incapace di vedere altro.
Viva, corporea, palpitante…ella era una presenza reale, tangibile, qualcosa che da tempo oramai non scaldava le porte del suo castello. Qualcosa che gli mancava e lo confondeva.
Ella si muoveva davanti ai suoi occhi, tormentandolo e beandolo allo stesso tempo, rimembrandogli ricordi lontani di felicità assoluta e d’incolmabile nostalgia, verso quell’amore che aveva conosciuto ma che non poteva possedere.
Non era soltanto Alexia che ricercava in quell’immagine. Fra quelle lenzuola di seta, luminose e leggiadre, in quel volto disturbato, oscurato dal buio della stanza, egli cercava inesorabilmente l’essenza della fisicità di una persona, qualcosa che gli mancava follemente e che solo Alexia aveva sempre colmato.
Ingabbiato così in quegli oscuri desideri, scrutava colei che era nascosta sotto quella maschera, come se volesse scorgere le ombre di quel mondo che invece aveva rinnegato e rifiutato, che non aveva mai avuto alcuna importanza per lui. Egli esaminava quella donna cercando di riesumare quel qualcosa che lui stesso aveva celato. Quel desiderio fisico verso un altro essere umano, che gli fu negato dopo la scomparsa della sua meravigliosa sorella e che aveva impedito a chiunque di colmare chiudendosi in una solitudine buia e terribile.
Tutto ciò che l’aveva portato in quel baratro ossessivo, reprimendo quel suo bisogno d’affetto che veniva appagato soltanto al cospetto della sua amata, lo metteva adesso a disagio, in quanto non abituato a vivere senza di Lei. Eppure desiderava Alexia a tal punto da ignorare tutto questo, ed ergere mille stratagemmi che riesumassero il suo corpo lontano e che da anni lo aveva abbandonato al suo destino.
Così tanti, che quel ricordo aveva cominciato a violentarlo e disturbarlo, fino a fargli ricercare ovunque quell’affetto che un tempo conosceva, e che adesso poteva rivivere solo nei suoi sogni dimenticati.
Era qualcosa che niente poteva sostituire, e che nessuno avrebbe mai potuto comprendere…
Dunque osservava quella donna al di la dello schermo con quell’ossessione di chi è follemente innamorato di un sogno; di chi disperatamente cerca qualcosa che razionalmente non sa che non avrebbe mai potuto trovare.
La bionda fanciulla dormiente rimaneva infatti distante dal suo universo. Ella era un elemento di disturbo nella sua mente, discorde con i suoi precari equilibri che stavano vacillando e l’avevano condotto alla pazzia a furia di aspettare eternamente la sua Alexia.
La sua stessa marionetta adesso lo stava attirando nella sua tela mortale, ove le sue armi non bastavano per proteggerlo. La sua unica difesa, che consisteva nella rievocazione di un mondo che da quindici anni non gli apparteneva più, che lo stava ingabbiando in qualcosa che avrebbe affondato ancor più la sua mente già morbosamente ancorata a quell’illusione che sfuggiva dalle sue mani.
Eppure, più osservava quel corpo, più qualcosa si scioglieva nel suo cuore….
Un tacito e dolce peccato si delineava.
Un peccato inconfessabile….
Perché non ne poteva più di aspettare…non ne poteva più di quell’atroce agonia…
 
In quegli attimi in cui ella si stava risvegliando dal sonno, egli sapeva che presto avrebbe dovuto somministrarle la quotidiana ‘medicina’, capace di elevare la comune donna e trasformarla in Lei, la Regina, Alexia…
Un’ ‘espediente’ che gli permetteva di realizzare il suo sogno e dare vita a quell’ingannevole commedia che amava vedere sul suo palcoscenico.
Un piccolo rimedio che aiutava la sua giovane attrice a esibirsi in modo esemplare nella parte di colei che era la più importante; un modo subdolo per soddisfare i suoi desideri, ma che appagava i suoi sensi, la sua solitudine, il suo disperato desiderio non di un calore umano qualsiasi….ma dell’amore più puro, profondo e autentico.
Senza quella maschera, la ragazza avrebbe rivelato l’attore nascosto dietro il personaggio, disgrazia assoluta in uno spettacolo teatrale perfetto come il suo. Sarebbe stato riluttante se questo fosse accaduto, rovinando la sua scena eccellentemente costruita.
Lei intanto si stava svegliando, e anzi, forse era già cosciente oramai. Alfred avrebbe infatti dovuto somministrale la medicina più di un’ora prima; eppure lui stava appositamente ritardato quel momento.
Desisteva, rimanendo inerme, fermo a contemplarla.
Non fece nulla che potesse impedire la presa di coscienza della giovane, come se non gli importasse.
Egli in quel momento bramava soltanto vedere quel corpo muoversi sotto le sue coperte.
Quell’immagine lo stava stregando a tal punto da fargli commettere quell’imperdonabile errore che presto gli si sarebbe ritorto contro, compromettendo la sua atroce e folle commedia.
Era conscio che non avrebbe mai visto ciò che voleva vedere, oppure semplicemente era riluttante verso l’ammissione di quella colpa; quell’inconfessabile piacere che non gli avrebbe arrecato che dolore se si fosse concesso ad esso.
Per questo l’ammirava da lontano, in quel tacito idillio che alcuno avrebbe mai conosciuto.
Rimase quindi immobile, adagiato sulla scrivania della stanza di monitoraggio, senza dar voce a nulla dei suoi piaceri o turbamenti, affogando nei desideri di un Es trascurato e represso, che fece tacere le ragioni del suo Super io devastato, in attesa di invadere quella stanza per dare di nuovo inizio a quella commedia che in realtà non aveva mai smesso di essere in atto.
 
 
***
 
 
 
Camera di “Alexia” – Notte fonda
 
 
 
“Ugh…!”
 
Il lamento di una donna interruppe il silenzio che albergava nella buia e tetra camera da letto.
La padrona di quella preziosa stanza, arredata con il miglior mobilio della casa, era incatenata al suo letto, stretta in delle dolorose e rugginose morse che le segavano i polsi. Il bruciore era incessante, ma nonostante ciò, ella continuava a tirare.
La posizione in cui era costretta, la paura di essere vittima di qualche assurdo complotto, ma soprattutto l’essere obbligata a soccombere in quella prigionia, camuffata da quei bellissimi fronzoli eleganti e sfarzosi che distoglievano dalla realtà il comune spettatore, era diventato insostenibile.
La sua mente era annebbiata come il solito, ma per qualche motivo qualcosa stava lentamente cambiando.
Una causa sconosciuta aveva permesso al suo intelletto di riattivarsi e così una parte remota del suo inconscio aveva riesumato la sua determinazione, conferendole uno scopo finalmente: perché adesso, nonostante la sua mente ancora confusa, bramava liberarsi da quella ferraglia e riconquistare la sua libertà.
Si rifiutava categoricamente di essere ancora usata e ingannata. Non ora che quella parte combattiva di se stava cominciando ad animarla, facendola finalmente lottare contro quel destino che ancora non riusciva a decifrare.
Ma che sentiva fosse sbagliato; ingiusto; deplorevole.
Perché Lei non era padrona di quel castello, era solo un mero prigioniero. Un prigioniero per qualche motivo ben accolto, ben nutrito, curato… ma il tutto non era altro che una messinscena. Un’assurda e mentecatta recitazione che nascondeva la sua reale condizione.
L’aveva sempre saputo, eppure non ne aveva mai ancora preso davvero coscienza, alienata e debilitata com’era.
Non ebbe il tempo di chiedersi altro, però. Era ancora troppo stordita e non aveva ancora recuperato la completa capacità d’intelletto. Qualsiasi cosa aveva intorpidito i suoi sensi fino a quel momento, doveva essere forte.
La sua fattività fu invece la prima cosa che aveva ripreso coscienza di lei.
I suoi polsi si fecero incandescenti, erano così rossi e lividi che sembrava li stesse sfregando da ore. Strinse i denti, spinta dalla sua determinazione, ma alla fine dovette cedere alla sconfitta nonostante il fuoco che le ribolliva dentro. Era impossibile per lei liberarsi.
Nel momento nel quale abbandonò le mani sul materasso, queste presero a pulsare dolorosamente, fino a tremare.
Osservò la catena che univa quelle maniglie al letto. Con quell’esigua lunghezza, l’unica cosa che poteva fare era muovere a stento il busto. Soffiò cacciando via dai polmoni l’ansia accumulata; doveva meditare un piano, perché in questo modo non sarebbe riuscita a far nulla.
Nello stesso momento in cui cercò di alzarsi, sfruttando al meglio quei trenta centimetri della catena, un tenue bagliore esterno apparve da un angolo della stanza.
Quella luce rigò la camera con il suo bagliore in un singolo punto del pavimento, eppure bastò a catturare tutte le attenzioni della giovane, il cui cuore prese a battere incessantemente.
Esso si era introdotto dalla porta d’ingresso che, aprendosi, aveva fatto penetrare la luce del corridoio esterno. Ma non fu quella l’unica cosa che apparve al di la della porta.
Con la coda dell’occhio, sbirciò oltre e vide presto avanzare dall’uscio due slanciate gambe affusolate, rivestite da dei pantaloni bianchi, il cui candore spezzò violentemente quel buio intenso.
Subito la ragazza affondò la testa sul cuscino, sperando che il solito ragazzo biondo che le faceva visita non si accorgesse di lei.
Il Falso Fratello avanzò silenzioso nella stanza. Aveva una lanterna fra le sue mani, che appoggiò sulla cassettiera di legno.
Vi soffiò sopra, aprendo lo sportellino di vetro che proteggeva la fiamma. Così la stanza ritornò nel buio.
Quel silenzio così invadente, e la presenza del biondo nell’oscurità, mise la ragazza incatenata in allarme.
Erano pochi i motivi per cui un uomo avrebbe potuto introdursi così in una camera da letto, così rimase in attesa, mentre il suo cuore prese a battere all’impazzata.
L’uomo dal suo canto era molto rilassato.
Si muoveva nel buio come se conoscesse alla perfezione ogni angolo di quella stanza. Il suo sguardo si posò su quelle poche zone illuminate del corpo della ragazza. Rimase in piedi di fronte al letto per qualche interminabile istante, mentre la giovane nascondeva sempre di più il viso sotto i suoi lunghi capelli biondi. Tenne tuttavia gli occhi semichiusi, non avendo il coraggio di fingere totalmente di dormire. Non se la sentiva di chiuderli. Doveva, infatti, osservarlo attentamente e cogliere quanto prima le sue intenzioni, prima che tutto precipitasse.
Era l’istinto che glielo imponeva.
Improvvisamente il ragazzo si voltò, e quel gesto la fece sbandare data la tensione che aveva in corpo. Fortuna volle che lui non se ne accorgesse, essendosi girato di spalle, intento ad avvicinarsi a un antico soprammobile. La ragazza lo vide posare le pallide dita su quello che sembrava un giradischi o qualcosa di simile. Solo dopo che lui lo mise in funzione si accorse che era un carillon.
La musica che ne fuoriuscì sembrava una ninna nanna. Un melodico e dolce motivetto, breve, e che prese a ripetersi all’infinito.
Prima rapita da quel suono, lentamente quelle note si fecero sempre più angustianti e quasi non riuscì più a sostenerle.
Era come una lullaby diabolica e triste, che sembrava voler straziare il cuore di chi l’ascoltava. Compreso non solo il suo…ma anche quello del biondo Alfred.
Il biondo prese posto sulla sedia posta di fronte la specchiera, e poggiò la testa fra le sue mani, come se quel motivetto facesse riaffiorare in lui dei tormentati ricordi. Seppur non potesse vedergli il viso, era sicura che egli si stesse struggendo dentro.
Se gli provocava tanto dolore, allora perché aveva messo in funzione quel carillon, si chiese.
I suoi pensieri tuttavia tacquero in fretta. Questo perché lui, silenziosamente, si alzò dalla sedia e fece per avvicinarsi a lei. Fu presto vicinissimo, prima di quanto si aspettasse.
La donna s’immobilizzo, non sapendo cosa fare. Reagire o aspettare? Cos’era meglio date le circostanze?
Intanto lui era già al suo canto.
Egli poggiò un ginocchio sul materasso, piegando le candide lenzuola sulle quali si era appoggiato. Inclinò il busto ponendo le sue mani ai lati della fanciulla addormentata, intrappolandola fra le sue braccia. La ragazza non ebbe il coraggio di alzare il suo sguardo, consapevole che se lo sarebbe ritrovata di fronte. Immaginò tuttavia nitidamente il suo viso marmoreo, bianchissimo, il suo prezioso completo rosso, e i suoi occhi color del ghiaccio che la trafiggevano, con quel sorriso sincero e deviato che la turbava fino alla follia.
Ciononostante non resisté, e la paura ebbe il sopravvento. Perché era nella natura umana dare un volto al pericolo ormai in agguato, temendo le ombre nascoste alle proprie spalle. Così girò gli occhi e mosse impercettibilmente la testa, ritrovando così, a un braccio di distanza, la precisa immagine che si era figurata:
L’uomo dai capelli biondi era infatti lì, di fronte a lei, e la osservava con il suo solito tormento nascosto negli occhi.
Lui sorrise e le sue labbra si mossero formulando ancora una volta quel falso nome che la perseguitava e che non le apparteneva.
 
“Alexia.”
 
Quel nome fu come un fulmine in una tempesta, il quale trafisse in pieno la giovane che, presa dalla frustrazione accumulata da giorni, subito sollevò il busto come riflesso condizionato. Tuttavia la catena che la imprigionava bloccò il suo movimento, ovviamente, così si ritrovò costretta a discendere violentemente sul materasso. L’urto fu devastante. Compressa contro il materasso, tutto il peso gravava sui gomiti, mentre i morbidi capelli presero a scendere sul suo viso, coprendolo quasi interamente.
Il ragazzo parve indubbiamente scosso da quel gesto improvviso, e si mise quindi in allarme.
Aveva certamente posticipato di qualche ora la somministrazione del farmaco che usava per calmarla, ma non immaginava che ella conservasse ancora un carattere così impetuoso.
La rabbia scaturita dall’umiliazione di quell’azione che, seppur non andata a segno, era volta in modo molto evidentemente a fargli del male, lo costrinse a digrignare i denti, inducendolo a desiderare visceralmente di colpirla a sua volta. Ma quell’intimo istinto brutale svanì rapidamente in quello stesso istante in cui era nato, in quanto all’ira funesta si sostituì con altrettanta velocità alla paura.
I suoi occhi tremarono e la sua anima prese ad angosciarsi.
Guardava la bellissima donna dai lunghi capelli biondi, con il suo viso angustiato, la collera che pulsava viva dentro le sue vene, e i suoi occhi complici, adesso invece colmi di rancore verso di lui.
Scendendo lo sguardo, poi, le sue spalle nude, ricoperte dal tessuto del pigiama in modo trasversale, sciupato; le sue gambe di fuori da sotto la veste, i capelli scompigliati, le occhiaie sul suo viso…
Quell’immagine lo angustiava… lo addolorava profondamente. Era come se qualcuno avesse osato rovinare un suo possedimento veramente prezioso.
Come se la sua preziosa bambola di porcellana fosse stata tragicamente manomessa da uno scellerato.
Così, tremante, il suo primo pensiero fu quello di rivestire e mette in ordine la sua amata e bellissima bambola perfetta.
Avvicinò dunque le mani al viso della fanciulla, pronto a liberarle la fronte, ma la sua la marionetta reagì non assecondando i fili del burattinaio.
Ella infatti mosse velocemente i polsi, usando le tenaglie stesse come arma, colpendo violentemente in viso il suo carceriere.
Stavolta riuscì a colpirlo.
L’urto fu più forte di quanto ella stesso avesse premeditato. Dopo averlo picchiato, infatti, cascò in avanti e una spalla prese a bruciarle terribilmente per via di quel movimento violento e doloroso. Strinse i denti sperando che non le fosse uscita fuori dall’osso, tuttavia prima di tutto volle scrutare l’uomo che aveva colpito, pronta alle conseguenze di quella sua brutale reazione.
Il biondo intanto aveva portato immediatamente la mano sulla bocca, ferita da quella robusta ferraglia.
L’estremità posta fra bocca e mento si fece velocemente livida, e dal suo labbro scesero delle gocce di sangue che colarono dalle sue mani.
Rimasto inizialmente attonito, non comprese immediatamente la crudele ingiustizia appena accaduta, ove la sua magnifica bambolina aveva per davvero colpito il suo buon padrone.
Astrusi e psicopatici pensieri affollarono la sua mente sotto shock.
 
Lui che voleva solo aggiustarla…
Lui che voleva solo prendersi cura di lei…
Lui che l’aveva servita, riverita, le aveva dato la stanza più bella.
Lui che….l’aveva resa al pari della sua Regina...!!
 
Preso di nuovo dalla frustrazione, da quella rabbia repressa da fin troppi anni, dal disonore scaturito da quell’insulsa donna, si voltò di scatto verso di lei con una mano già tesa. La ragazza, ancora imbrigliata alla catena che le impediva anche solo di alzarsi, non poté far altro che indietreggiare quanto più potesse per evitare di essere colpita. Incassò istintivamente la testa nel collo, e seppur ancora dolorante per il colpo che aveva inferto al ragazzo, e dall’ansia e la paura che provava in quel momento, riuscì comunque a lanciarsi debolmente all’indietro, sfruttando a malapena quei stentati trenta centimetri che la catena le lasciava di autonomia.
Non riuscì tuttavia ad evitare che la mano di Alfred arrivasse a colpirla, e l’impatto fu così inevitabile. Tuttavia la ragazza riuscì ad indietreggiare abbastanza da allontanare il viso dalla sua gittata, così il palmo del giovane finì soltanto per sfiorarle violentemente la parte superiore della testa.
Ma nessuno dei due avrebbe potuto aspettarsi che il peggio non era stato affatto evitato.
Perché le conseguenze furono addirittura più devastanti.
Fu un attimo, un battito di ciglia, ma che cambiò irreversibilmente ogni cosa si credesse fosse reale.
La scacchiera si capovolse ed altre verità si alternarono tra loro, rivelando il lato oscuro di quella folle messa in scena che andava in realtà avanti da giorni.
Questo perché una marea di lunghi capelli biondi volarono oltre il letto, sbattendo sul pavimento drappeggiato dagli eleganti tappeti ricamati.  Essi si posarono disordinatamente a terra, mantenendo tuttavia intatta la forma dello scalpo. Ma quelli che erano volati non erano davvero capelli….
Erano…
…una parrucca?
Alfred, accorgendosi che la ragazza avesse evitato il suo colpo, si ritrovò a cadere sul materasso, ma si sorresse per tempo appoggiando l’altra mano su di esso.
I suoi occhi si pietrificarono quando si rese conto di quel che aveva appena fatto, di come da solo avesse messo a nudo il suo inganno e la sua follia. Disperato, il suo cuore prese a sbattere impaurito, sconvolto. Non era pronto, infatti, ad accettare l’immagine che aveva cercato di fuorviare fino a quel momento; era impreparato al dover vedere con i suoi occhi il vergognoso aspetto del suo manichino, spogliato del suo trucco principale. Il trucco…che la rendeva simile al suo ‘sogno’, alle sue speranze, alla donna bionda che adorava con tutto il suo cuore.
Era turbato e incapace di vedere la fine del suo sogno ad occhi aperti. Quel sogno in cui una meravigliosa parrucca bionda aveva potuto trasformare una donna qualsiasi in Lei.
Alfred sembrava quasi sul punto di urlare, di voler scappare via. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per tornare indietro nel tempo ed evitare quel dolore incommensurabile.
Questo mentre la visione dei lunghi e arruffati capelli rossi della donna di fronte a lui adesso dominavano sulle sue spalle.
Confusa, la ragazza intanto serrò gli occhi su di lui, impaurita dall’espressione del biondo, incapace di intendere quel che lo stesse tanto spaventando.
Ad un tratto le loro iridi s’incrociarono ed ella sbandò spaventata, accorgendosi che lui si stava avventando verso di lei.  
 
“Come hai potuto?! Profanatrice! Stupida… stupida e sacrilega Redfield!”
 
Egli strattonò per le spalle la giovane, costringendola ad urlare per il dolore e lo sgomento. Al contempo la bloccò con le sue braccia e fece per raggiungere con una mano la parrucca ai piedi del letto. Ponendosi sopra di lei, cercò invano di risistemarle quella chioma bionda sul capo, ma la rossa era oramai in stato di panico e di totale agitazione. Ella muoveva di continuo la testa, rifiutandosi categoricamente di essere sottoposta a qualsiasi cosa lui volesse imporle.
 
“Aah!!”
 
Urlò impaurita, cominciando a scalciare irrefrenabile, disfacendo oramai del tutto le lenzuola. Il biondo così non riuscì in nessun modo a rassettare la sua ‘bambolina’ che, al contrario, si disordinava sempre di più, e l’immagine della sua somma e straordinaria sorella svanì velocemente e inesorabilmente sotto i suoi occhi. Disperato da quell’inaccettabile addio, egli prese a scuotere la ragazza.
Ma per quanto avesse cercato di rievocarla, oramai Alexia Ashford era inesorabilmente svanita da quel volto. La parrucca era irreversibilmente rovinata, ingarbugliata a fianco al suo capo che si agitava continuamente, avvolto invece dai suoi naturali capelli scuri e scarlatti.
Il suo viso non era più quello disteso e raffinato che aveva cercato di duplicare. Così come il suo corpo e il suo portamento altolocato e rilassato, che adesso era impetuoso e bellicoso.
Il vestito era completamente smesso, la sua eleganza non avrebbe più fatto riaffiorare la bellezza della donna che avrebbe dovuto indossarlo.
Così, mentre lo sguardo di Alfred scrutava ogni parte che componeva quel corpo, ricercando con ossessione un rimasuglio della sua adorata Alexia, inevitabilmente il suo animo pulsò, turbato dalla visione scompigliata e seducente di quelle gambe scoperte, di quelle spalle nude, di quella scollatura disordinata. Inspiegabilmente s’immobilizzò, tenendo lo sguardo fisso su di lei, incapace di accettare a livello inconscio il velato piacere di quella visione.
La ragazza intanto smise di agitarsi, accorgendosi del silenzio e della quiete appena instauratasi.
Aprì meglio le palpebre, incerta, mentre l’uomo con la divisa militare era ancora sopra di lei e la bloccava contro il materasso. La sua presa era tuttavia visibilmente più lenta, e qualcosa lo aveva improvvisamente calmato…o distratto.
Alzò lo sguardo verso di lui, e solo allora, seguendo gli occhi del biondo, si accorse dell’effettivo stato del suo aspetto.
Rabbrividì ed inorridì a quegli occhi insistenti sul suo corpo. Le si gelò il sangue dalla vergogna e dall’irritazione. Così si girò di lato, ponendo di profilo tutto il suo fisico.
 
“Non dovresti essere una sorta di fratello tu per me, hai detto?!”
 
Disse con rabbia, sentendo il suo viso infuocarsi, desiderando di togliersi a morsi le catene che la tenevano imbrigliata al letto per dargliele di santa ragione.
L’uomo tuttavia non reagì d’impulso, o con collera, a quella sua asserzione. Al contrario, sembrava seriamente turbato, ugualmente inorridito.
Egli la scavalcò inaspettatamente con le gambe e si alzò dal letto, desideroso soltanto di mettere la parola fine a quell’incubo. Incapace si sostenere il peso di quell’assurda situazione. Disperato dalla possibile idea di essere stato deviato dall’immagine del corpo di una volgare donna.
Premette d’improvviso la testa fra le mani, stringendo le dita su di esso quasi fino a graffiarsi. Inclinò il busto contorcendolo inumanamente, poi prese a urlare, oramai in balia di un insostenibile crollo psicologico.
 
“A-Alexia..! Aaaah!! Alexia!!”
 
L’uomo scappò via dalla stanza, sotto gli occhi attoniti della rossa, la quale rimase a osservarlo tremante dal letto che ancora la imprigionava.
Egli sbatté la porta con rabbia, sperando di chiudere oltre questa anche tutta la sua frustrazione, tutta la sua rabbia, le sue paure, le sue deviate ossessioni. Sperando al contempo che la sua Alexia non lo avesse visto, che non le avesse arrecato dolore…. che presto avrebbe potuto scusarsi con lei e redimersi dalle sue colpe.
Corse così nella sua camera, disperato, delirante, confuso.
Alfred Ahsford era un uomo folle; perseguitato e martellato dai fantasmi della sua angosciata esistenza che lo avevano oramai condotto verso l’oscurità più buia, nella più tormentata pazzia della depressione.
 
 
 
***
 
 
 
 
 
 
 
 
NdA: Se con la lettura di questo capitolo avrete avvertito la perenne e martellante presenza di Alexia, onnipresente nonostante la sua assenza non solo nella mente distorta di Alfred Ashford, ma anche in ogni meandro della villa, allora avrò raggiunto il mio scopo.^^
 
Una piccola “chicca” per chi l’avesse colta.
Nel secondo paragrafo che compone questo capitolo, cioè le riflessioni riguardo all’oblio, le righe finali sono una piccola e discreta citazione alla canzone dei Queen “Let Me Live”, titolo tra l’altro cucito sulla giacca di pelle di Claire in re:code veronica x.
Rappresentando il testo della canzone, ho pensato che ci fosse un motivo perché la rossa indossa proprio questa giacca, e dunque ho colto l’occasione per cominciare a citare questo bellissimo testo, cosa che farò anche più avanti nel corso della storia.
Al momento è quindi solo una velata citazione.^^
 
Grazie per aver letto! ^O^
 
 
 
 
 
 
 
 
 
  
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