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Autore: eroicafuriosa    12/04/2008    1 recensioni
Questo è il primo capitolo di una storia che mi è venuta in mente leggendo la novella di Tancredi e Ghismunda del Boccaccio, ma pensavo che come one-shot potesse andare. Non so se la continuerò in futuro, maybe...ah! visto che è solo il primo capitolo è possibile (probabile) che non si capisca il titolo. Ma, lettore, non ti curar di questo ma guarda e passa! p.s. recensioni, please!
Genere: Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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ossessione e vendetta 1 1.
Amina pensava per colori. Associava un colore ad ogni fase della sua vita. In quei giorni, l’atmosfera delle sue giornate era a tinte fosche, cupe, nero pece e grigio metallo, che si fondevano l’uno nell’altro. Il nero dell’ignoto e il grigio della paura. Ad ogni risveglio, nelle pallide albe del Nord Italia, non poteva nascondere a sé stessa quella sensazione di incombente minaccia: il tarlo della paura le rodeva dentro, incessantemente. Doveva sforzarsi a scendere dal letto. Evitava di guardarsi allo specchio per non incontrare il suo stesso sguardo. Solo dopo la preghiera del mattino trovava il coraggio di lanciare un’occhiata al suo riflesso. Sforzava i muscoli del volto alla normalità, poi scendeva a far colazione con suo padre e suo fratello. E iniziava la giornata.
Amina aveva cominciato a pregare da poco. Non l’aveva mai fatto, ma non per miscredenza o ateismo. Era semplicemente indecisa. Suo padre era cattolico, sua madre mussulmana. Tradizioni inconciliabili, se non fossero stati genitori moderni non ce l’avrebbero fatta a vivere insieme per dieci anni. Poi il matrimonio era finito. Finito, con un incidente cinque anni prima, nel quale Mariam, sua madre, aveva perso la vita e dal quale suo padre, Lorenzo, si era miracolosamente salvato. A volte Amina si chiedeva come sarebbe stata la sua esistenza se non avesse perso la madre a dodici anni. Le avrebbe evitato di fare certi sbagli che le rimordevano la coscienza? In quel momento la paura sarebbe stata solo una chimera lontana? A volte si chiedeva se l’amore tra i suoi sarebbe durato, se la madre non fosse morta. E si chiedeva se la situazione sarebbe stata la stessa di allora, o peggiore, se quell’amore si fosse estinto col passare degli anni.
Scese le scale, la luce in cucina era accesa, la caffettiera sul tavolo. Accanto, un biglietto, con la minuta e stretta calligrafia del padre. “Sono uscito presto per un lavoro improvviso, mi spiace non aver potuto salutarvi. Tornerò tardi, non aspettarmi alzata. Ti amo.” Amina tirò un respiro di sollievo. Una volta tanto non avrebbe dovuto ascoltare le concioni di suo padre. Si sentiva sempre messa con le spalle al muro quando lui la trapassava con il suo sguardo color metallo e iniziava discorsi spiazzanti. Guardò l’orologio. Tardi. Dove diavolo era suo fratello? Tornò di sopra, bussò alla porta del bagno.
- Giovanni. Giò! Ti sei chiuso dentro? E’ tardi!-
Ma in bagno non c’era nessuno. Andò in camera sua. Il letto disfatto, la finestra aperta, la sua assenza. Strinse forte il medaglione che portava al collo sotto la camicetta, l’ultimo regalo della madre. Il cuore le batté forte. Dio, la finestra. Aperta. Il lontano Po, il cielo plumbeo. Iniziò a cercarlo per la casa, urlando il suo nome, correndo per le stanze, sbattendo le porte. In giardino, alla fine. In fondo, nella nebbia, la sagoma di un bambino e di un cane. Il bambino piegato sul cane, intento ad accarezzarlo mentre questo mangiava dalla ciotola.
- Giò! Non devi uscire di casa senza dirmelo!-
- Ma ero qui! Rufy non aveva da mangiare, come al solito papà non si è ricordato di darglielo.- ribatté lui. Lo sguardo perplesso di un bambino di dieci anni. Amina si ricompose. Sapeva di avere un’espressione spaventata, ansiosa. Un’ espressione rivelatrice di segreti.
- Muoviti. Facciamo colazione, così ti porto a scuola per tempo.-
Mano nella mano, tornarono in casa. Mentre il fratello era in bagno e lei preparava la colazione, non poté fare a meno di guardare un’altra volta il biglietto del padre. Lo buttò via.

Meno un quarto alle otto. Amina, sola, si dirigeva al suo liceo. Aveva già lasciato Giovanni alle elementari. Guardò l’orologio, allungò il passo. Non avrebbe mai fatto in tempo per la lezione della prima ora, avrebbe dovuto entrare alla seconda.
Appena sentì il rumore di quell’auto, le fuggì un sospiro. L’aveva riconosciuta. Sperò di non essere vista. L’auto la superò, ma pochi metri avanti frenò e fece retromarcia. Accostò. Il finestrino venne abbassato.
- Ti accompagno.-
Avrebbe voluto dire no, continuare per la sua strada senza rispondere a quella che, più che una richiesta, pareva un ordine. Non lo fece. Salì. Appena chiuse la portiera, l’auto ripartì. Lei non guardò in faccia il guidatore, concentrò tutta la sua attenzione all’esterno dell’abitacolo, come se cercasse di distinguere le figure nella nebbia. Aveva un groppo in gola. Forse aveva anche voglia di piangere. Quando lui prese una strada secondaria, che non era sul percorso per andare al liceo, Amina chiuse gli occhi e appoggiò la testa sul sedile. Ennesimo tranello, stupida lei a fidarsi. Decelerarono, frenarono. Spense il motore.
- Dovevi accompagnarmi, Nicola.-
- Lo farò. Ma non arriveresti comunque in tempo a scuola. Abbiamo quasi un’ora per parlare. Un’ora per noi.-
- Non ti cercheranno se non ti presenti?-
- Inizio alle nove. Non ho fretta.-
Amina sentì la sua mano calda sul ginocchio. Mentre decideva se resistergli o no, ricordi le affiorarono alla mente. I primi brividi d’amore. Il suo sorriso, le sue rughe intorno alla bocca, il piacere di parlare, discutere, il detto e il non detto. L’estate, il tocco delle sue mani, la felicità, i giorni e le sere insieme, accaldati, stesi l’uno accanto all’altra, i loro dialoghi profondi, i loro segreti, quando tutto sembrava avere un senso, quando nulla si era spezzato. Ma poi ecco. Il nero pece, il grigio metallo, cortina cupa che calava sulle loro vite.
Pose di scatto la mano sulla sua, mossa da un coraggio che non credeva di avere.
- Basta.- disse con voce strozzata ma determinata. La tensione delle sue dita. Amina sollevò lo sguardo sul quel volto pallido, sulle rughe intorno agli occhi blu e sulla sua ampia fronte.
- E’ la fine. Non c’è altro da dire.- aggiunse in un sussurro.
Sentì la pressione sul ginocchio farsi ancora più forte.
- Perché? Come puoi essere cambiata così?-
- Mi sono accorta che tutto ciò che credevamo giusto, puro, vero era l’errore più grande che un uomo come te e una ragazza come me potessero fare. Sei sposato. Hai trent’anni. Io ne ho diciassette. Tu hai una carriera da difendere, una moglie da rispettare, io una reputazione e un onore che non posso perdere. Siamo stati felici ma sbagliando. Prendiamo la decisione giusta: non incontriamoci mai più. Dimentichiamoci.-
- Guardami Amina.-
Amina non volle farlo. Nicola le voltò bruscamente il volto, tenendole forte la mascella, costringendola a guardarlo negli occhi.
- La donna che ho sposato non mi ama e io non amo lei. Il nostro matrimonio è stato deciso per soddisfare gli interessi delle nostre famiglie. Io e mia moglie abbiamo deciso proprio per questo di non avere figli e ci siamo lasciati liberi di innamorarci. Lei ora ha un’amante, io amo te. Ora che siamo adulti e possiamo decidere delle nostre vite stiamo inoltrando le pratiche di divorzio. E se credi che perderei il posto di lavoro e nuocerei alla mia carriera, non hai torto. Ma l’eredità che mi ha lasciato mio padre e i soldi che ho ricavato dalle mie pubblicazioni possono permettermi una vita agiata per molti, moltissimi anni, per me e la famiglia che un giorno costruirò. E per il tuo onore e la tua reputazione…Amina, amore mio, nessuno in questo paese potrebbe pensare male di te, lo sai.-
- La fai troppo facile. Ti stai illudendo. Riportami a scuola, ti prego. Non cercarmi più.-
Le fu addosso all’improvviso, stringendola a sé con forza, baciandole il viso. Amina provò ad allontanarlo ma la sua stretta divenne ancor più forte. Amina sentì un dolore terribile ai polsi e la colse la paura che si spezzassero. Si spaventò. Erano giunti al punto di non ritorno. Con le lacrime agli occhi non poté evitare di urlare e dalla sue labbra uscirono le parole che posero fine a tutto.
- Io non ti amo più!-
Si fermò. La pressione delle sue mani diminuì. Restò in silenzio, senza guardarla, il viso nascosto nel suo collo. Amina rimase col fiato in sospeso, in preda al terrore. Che avrebbe fatto? Che sarebbe successo? Incontrando finalmente il suo sguardo, prima bruciante di passione, ora freddo per la furia repressa, il cuore le balzò in gola. Ripartirono senza proferir parola, senza più guardarsi. Amina aveva ben impressa nella mente la sua espressione. Il terrore la paralizzava. Per la prima volta ignorava i suoi pensieri. Era certa che stesse tramando qualcosa, e si pentì del suo rifiuto. Si sentì in trappola. Arrendersi avrebbe avuto lo stesso effetto del rifiuto? Le si insinuò un sospetto atroce nell’animo. Una supplica le affiorò alle labbra, ma la represse, dubbiosa delle sue stesse ipotesi.
La fece scendere nella via precedente a quella del suo liceo. Amina corse via subito, senza neppure ringraziarlo. Si voltò indietro una sola volta, giusto in tempo per incrociare uno sguardo blu carico di vendetta. Due ore dopo Amina, seduta in classe, desiderò essere inghiottita dall’inferno vedendo che il professor Nicola Conte veniva sostituito nella lezione del giorno da un giovane supplente.

Durante quelle ore di scuola, Amina si era preparata al peggio e aveva deciso che, se fosse accaduto qualcosa di brutto, avrebbe messo in pratica le congetture che aveva ideato negli ultimi mesi. Pensò che forse era meglio recuperare la chiave del cassetto della scrivania del padre. Si sorprese a non tremare più all’idea di una risoluzione tanto estrema. Meccanicamente, volse lo sguardo alla sua sinistra. Lo vide, seduto sulla panchina, avvolto nel suo lungo cappotto scuro, le mani chiuse in guanti di pelle nera. Si guardarono e si salutarono, come facevano ogni giorno. Amina non lo conosceva, né sapeva il suo nome. Era apparso circa tre mesi prima e ogni giorno a quell’ora, tornando a casa, lo trovava seduto, sempre solo, su quella panchina. Era un uomo sulla quarantina, di aspetto piacevole. Un giorno l’aveva salutata, cortesemente, e Amina aveva voluto rispondere alla cortesia, un po’ perché quella persona la incuriosiva e un po’ perché da lui emanava quasi un’aria di solitudine. Non erano mai andati oltre, non si erano mai intrattenuti a parlare insieme. Amina spesso pensava a lui dopo averlo incontrato. Non quel giorno. La sue mente era talmente afflitta da altri pensieri che, una volta superato, lo dimenticò.

Amina si chiuse in camera sua. Aprì la finestra. Si aggrappò al ramo dell’acero e iniziò ad arrampicarsi, facendo attenzione a non scivolare per non cadere nel vuoto. Raggiunse il tetto. Con grande sforzo, riuscì ad issarsi su di esso. Il cuore le batteva forte, le mani le facevano male per i tagli e per il freddo. Camminò con cautela sulle tegole fino al camino. Qui, sulla pietra grigia, una piccola striscia orizzontale di scotch nero, invisibile da terra ad occhio nudo. Amina lo strappò con cautela e staccò la chiave argentata. Era il doppione di quella di suo padre. Se mai lui avesse scoperto che ne possedeva una copia, sarebbe stata punita. Duramente.
Ridiscese e ritornò nella sua stanza. Con le mani brucianti per i graffi e il respiro affannoso, aprì silenziosamente la porta della sua stanza. Giovanni era in salotto, a guardare i cartoni animati. Silenziosa come un’ombra, scese le scale. Giovanni, steso a pancia in giù sul tappeto del soggiorno, aveva gli occhi incollati allo schermo.
 Amina passò dietro di lui e sparì nel corridoio. Procedette fino all’ultima porta in fondo. Nonostante tutta la sua ferrea volontà, aveva le gambe pesanti, come imprigionate nel cemento. Una volta entrata e sedutasi nella poltrona in pelle nera, le mani le tremarono. Trattenne il respiro. Solo silenzio. Nessuno l’avrebbe disturbata. Amina riepilogò a sé stessa quello che avrebbe fatto. Avrebbe aperto il cassetto, avrebbe preso quello che doveva prendere e l’avrebbe nascosto sotto il maglione. Lì l’avrebbe tenuto, fino al momento opportuno. Si impose coraggio, si impose fermezza, perché quello che stava facendo non era solo per lei. Dovette farsi violenza per costringersi a piegarsi, infilare la chiave e girarla nella serratura. Il suo animo era dominato da pensieri contrastanti, il malessere diventava quasi fisico mentre girava la chiave, due, te mandate. Con un piccolo scatto il cassetto si aprì. Frenò il tremito, determinata ad andare fino in fondo. Prese la maniglia e la tirò verso di sé.
Il vuoto che trovò la paralizzò. Non doveva essere vuoto. Non poteva esserlo. Una sensazione di panico le sconvolse le viscere. Le parve di svenire, una cortina nera che calò davanti agli occhi. Riuscì a non perdere il controllo. Richiuse, girò la chiave, lasciò tutto come l’aveva trovato ed uscì.

Giunse la notte. Amina si era chiusa in camera. L’incertezza si era impadronita di lei, togliendole ogni forza e volontà. Era rimasta ore stesa sul letto, in silenzio e al buio, immobile. Aspettando.
Un’auto entrò nel vialetto di casa. Frenò dolcemente, spense il motore. Lo sbattere di una portiera, passi sul selciato. Nell’oscurità, Amina ripensò al cassetto vuoto e la tensione salì alle stesse. Restò dov’era, immobile, ascoltando quello che accadeva al piano inferiore. Poi prese coraggio. Si alzò, aprì la porta, uscì silenziosa nel corridoio.
La casa era buia. Scese le scale. Quanto bastava per poter vedere il soggiorno. Nessuno. Nessun rumore. Continuò  a scendere, trattenendo il respiro. Si affacciò sul corridoio. La porta dello studio era aperta. Nella penombra, vide le sue mani armeggiare con il cassetto, mettervi qualcosa dentro e infine richiuderlo. Senza farsi vedere o sentire, tornò indietro e risalì le scale.
- Ti avevo detto di non aspettarmi alzata.-
Amina, a metà rampa, si fermò. Si voltò lentamente. Lui era in un punto del salotto molto buio. Non vedeva il volto di suo padre.
- Ho sentito la tua auto. Ero ancora sveglia.-
- Come mai?-
- Non riuscivo a dormire.-
- I segreti straziano l’animo.-
Amina non rispose. Scrutò la sua sagoma. Sentiva il suo sguardo metallico su di sé. Scoprì di avere molto, molto freddo. Lentamente, lui cominciò a salire le scale, un passo alla volta.
- La colpa rimorde la coscienza.-
Una goccia di sudore freddo scivolò lungo la tempia di Amina. Giunse da lei. Ora riusciva a vedere il viso di lui. Le prese la mano, fissandola con i suoi occhi grigio-metallo. Sentì sul palmo un oggetto piccolo e tondo, freddo e liscio. Gliela richiuse a pugno, stringendo forte, fino a farle male.
- Il simbolo di ciò che avete calpestato.- disse.
Amina si rese conto di ciò che stringeva in pugno. Le si ghiacciò il sangue nelle vene. Si ritrovò sola, accasciata sulle scale, con le lacrime calde che le bruciavano le guance, improvvisamente gelate, stringendosi al petto la fede che il padre le aveva dato.
  
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