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Autore: rekichan    13/04/2008    4 recensioni
La vendetta è un dolce frutto dal retrogusto amarognolo.
Va gustato lentamente, per assaporarne il gusto zuccherino, ma una volta terminato questo scompare.
Rimane solo il sapore amaro che scivola nella gola, stanziandovi come un alone perenne; un fastidioso bruciore che blocca le parole, in lotta per uscire.
Ti ritrovi muto, a contemplare il risultato dei tuoi sforzi e ti accorgi, con malinconia e rancore verso te stesso, che la compiutezza del tuo scopo non ti soddisfa.
Allora ti domandi cosa fare.
E ti rendi conto che il lato bello della vendetta, non è portarla a termine.
È il percorso per realizzarla.
[Terza classificata al concorso Uchihacest di Ladyvampire94 e Missdark]
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Itachi, Sasuke Uchiha
Note: What if? (E se ...) | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Devo dire che questa storia si è praticamente scritta da sola.

Volevo mantenermi più attinente al tema dell'amore tra i due fratelli, ma non riuscivo proprio a cambiarla.

Ne vado fiera, lo ammetto.

Ringrazio:

i giudici del concorso; adoro scrivere sugli Uchiha e mi avete dato un pretesto più che valido per farlo.

ragazza_innamorata per lo splendido tesserino.

E dedico la fanfiction ad un Itachi in particolare che si è subita un'uscita fin troppo pesante di questo Sasuke.

Alla prossima.

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La vendetta è un dolce frutto dal retrogusto amarognolo.

Va gustato lentamente, per assaporarne il gusto zuccherino, ma una volta terminato questo scompare.

Rimane solo il sapore amaro che scivola nella gola, stanziandovi come un alone perenne; un fastidioso bruciore che blocca le parole, in lotta per uscire.

Ti ritrovi muto, a contemplare il risultato dei tuoi sforzi e ti accorgi, con malinconia e rancore verso te stesso, che la compiutezza del tuo scopo non ti soddisfa.

Allora ti domandi cosa fare.

E ti rendi conto che il lato bello della vendetta, non è portarla a termine.

È il percorso per realizzarla.

Così abbandoni l’amara strada della conclusione e decidi di prolungare quel sapore divino che si crogiola sulle tue labbra.

Non è ancora giunto il momento di bere dall’amaro calice.

C’è ancora lo zucchero, da gustare.

Sweet Obsession

Erano giorni che si trovava rinchiuso in quella stanza; giorni in cui, ai suoi occhi ormai stanchi e deboli, si riaffacciava costantemente la stessa, tragica, scena.

Se si concentrava, poteva percepire il freddo acciaio della katana sulla gola; lo sguardo di trionfo del suo avversario.

Soddisfatto; compiaciuto. Aveva avuto quello che voleva e niente e nessuno lo avrebbe, ormai, privato di quella gioia.

I loro occhi si erano incrociati. Ricordava quegli occhi: scarlatti e vuoti. Proprio come i suoi.

Kami. Li aveva bramati.

Ogni suo gesto era volto ad ottenerli. Era per loro che era diventato ciò che era. Per loro e per il potere.

Niente di più semplice. Niente di più banale.

Ora era lì.

Impotente di fronte a chi si era dimostrato più forte – o semplicemente più pazzo – di lui.

Giaceva sul freddo pavimento della stanza. Giaceva e sapeva di avere le mani intrise di sangue.

Niente di nuovo. Le sue mani erano sempre state tinte di rosso.

Sin dalla più tenera età, quando uccideva piccoli animali nel bosco e ne nascondeva i miseri corpicini.

Ricordava di aver mancato il colpo una sola volta: era uno scoiattolo. Un cucciolo.

Lo shuriken lo aveva colpito solo di striscio e, quando era andato a recuperare l’arma, era ancora vivo.

Agonizzante, è vero; con il respiro frammentato, vero anche questo; ma vivo.

Non si sarebbe mai dimenticato gli occhi neri di quello scoiattolo che lo fissavano accusatori.

Sembrava chiedergli il perché di quel gesto insano e crudele; perché avesse lanciato lo shuriken, perché avesse ucciso tutti quegli animali, perché lo avesse colpito.

Ricordava, anche, di avergli risposto, con la sua voce da bambino di dieci anni:

«Perché devo diventare forte.»

Poi lo aveva raccolto e questi, anche nell’agonia, aveva tentato di morderlo con rabbia.

«È inutile. Sei piccolo e debole.»

Aveva notato, prima di finirlo definitivamente e tornare a casa.

Come se niente fosse successo; come se il sangue dell’animale sulle mani non fosse il suo.

Rammentava, altresì, come quella notte avesse avuto un incubo: il piccolo scoiattolo che aveva ucciso lo imprigionava e lo colpiva. Lo colpiva sempre, senza mai fermarsi e lo rimproverava con i suoi squittii.

Sempre la stessa frase. Sempre la stessa.

«Perché lo hai fatto?»

«Perché lo hai fatto?

«Perché lo hai fatto?»

«Itachi, vai a vedere cos’ha tuo fratello. Sta di nuovo piangendo.»

«Sasuke, che hai?»

Il bambino aveva alzato gli occhi intrisi di lacrime dall’animale che teneva fra le mani a coppa e lo aveva fissato, addolorato.

«Aniki…- gli aveva mostrato il piccolo corpo di uno scoiattolo. Un cucciolo. – Aniki era un cucciolo. Chi può aver fatto una cosa simile?»

«Non ne ho idea. - Itachi rispose, togliendo l’animale dalle mani del fratello. – Ora smetti di piangere, otooto.»

«Deve essere stata una persona molto cattiva. Era piccolo. Molto piccolo… la sua mamma sarà preoccupata.»

«Sasuke, era solo uno scoiattolo.»

«Ma…»

«Era solo uno scoiattolo.»

Sasuke tirò su col naso, asciugandosi le lacrime.

Solo uno scoiattolo.

Già.

Chissà perché gli era tornato in mente quell’episodio.

Chissà perché, improvvisamente si stava ricordando di come anche suo fratello avesse avuto lo stesso sguardo di quello scoiattolo, la notte in cui aveva ucciso il clan.

Gli stessi occhi neri terrorizzati; la stessa occhiata implorante e, al contempo, accusatrice.

In quel momento, aveva provato il folle desiderio di colpirlo, per evitare di essere guardato in quel modo.

Se lo avesse ucciso, avrebbe smesso di sentire le sue continue domande.

Sasuke aveva sempre avuto la cattiva abitudine di chiedere il perché delle cose, in fondo.

Però non poteva ucciderlo. Quegli occhi che lo atterrivano gli servivano. Erano suoi. Erano solo ed esclusivamente suoi.

Per questo lo aveva lasciato vivo. Solo per questo e per nient’altro.

Però, la notte, continuava a sognare quello scoiattolo e, stavolta, alla sua voce si univa quella di suo fratello.

«Perché lo hai fatto?»

«Perché lo hai fatto?»

«Perché lo hai fatto?»

Era un incubo. Soltanto uno stupido incubo in cui entrambi lo colpivano e domandavano la stessa identica cosa.

Mai avrebbe pensato che un giorno l’incubo si sarebbe trasformato in realtà.

Era sdraiato sul freddo pavimento.

Il chakra bloccato. Aveva fame e sete.

Gli forniva cibo e acqua in quantità limitata; appena sufficiente a farlo sopravvivere.

Si chiedeva perché non lo avesse ucciso durante lo scontro.

Quando la sua katana si era soffermata sulla giugulare, lo aveva sentito indugiare.

Conosceva l’incertezza provata da ogni ninja, quando deve commettere un omicidio.

Una lieve esitazione, nient’altro. Come se, dopo la fine di quella missione, non ci fosse più niente e, allora, vuoi prolungare l’agonia dell’avversario.

Ma, di solito, il buonsenso vince sul perverso gusto per la violenza e poni fine alla vita del nemico con decisione, senza dargli tempo di reagire.

Sasuke non lo aveva fatto.

Aveva continuato a indugiare, dopo averlo esaurito; aveva continuato a fissarlo negli occhi.

Lui, ormai, scorgeva solo la sua sagoma indistinta: una macchia bianca, con tracce nere e rosse.

L’unica cosa chiara, erano i suoi occhi.

Scarlatti e vuoti.

I suoi stessi occhi.

«Hai vinto tu, otooto.»

Sasuke non aveva risposto. Lo aveva continuato a fissare.

A Itachi era parso di scorgere qualcosa di malato, in quello sguardo vacuo.

Allora, aveva ricordato lo scoiattolo che aveva tentato di morderlo, nonostante stesse per morire.

Piccolo e debole, proprio come suo fratello.

Una creatura patetica, nata e vissuta solo in funzione di lui.

Ma, se lo scoiattolo era morto, Sasuke era vivo.

E lo aveva morso.

Itachi sapeva dove si trovavano: erano a casa.

Il vecchio quartiere Uchiha era stato abbandonato da quando Sasuke aveva lasciato Konoha, ma adesso i due superstiti vi avevano fatto ritorno all’insaputa di tutti.

Nessuno a Konoha entrava là dentro, né si preoccupava per eventuali rumori che provenissero dall’interno.

Vi era stato sterminato un clan: era un quartiere stregato e maledetto, probabilmente pieno di fantasmi che non trovavano pace per la vergogna causata dai loro discendenti traditori.

Il timore superstizioso teneva lontani i curiosi.

Sasuke aveva costretto Itachi nella sua camera. Sigillato là dentro, senza possibilità di muoversi.

Totalmente limitato.

Giornalmente, Sasuke lo andava a trovare.

Ogni giorno, passavano ore assieme e Itachi gioiva del fatto di star diventando cieco per non dover assistere a quello sfacelo.

Sasuke non era lucido. Non poteva esserlo.

La voce aveva un tono troppo infantile. Le parole che pronunciava non erano quelle di un essere dotato della logica di un adulto, né di un fratello, né tanto meno di un vendicatore, come si era definito.

Sasuke parlava come un amante geloso. Ossessivamente geloso.

«Aniki, come stai oggi?»

Itachi rispondeva subito, ormai. Sasuke era capace di ripetergli per ore la stessa domanda, finché non avesse ottenuto risposta.

E questa doveva essere quella che voleva sentirsi dire, altrimenti continuava.

«Bene, Sasuke.»

Sasuke allora sorrideva, contento.

«Anche io sto bene! Sto sempre bene quando sono con l’aniki.»

A quel punto, correva fuori e tornava poco dopo con qualcosa da mangiare.

Cambiava spesso menù, anche se ricorrevano sempre tutti i piatti preferiti da Itachi.

Ormai aveva la nausea, di quei cibi, ma quando glielo faceva presente, Sasuke lo squadrava afflitto, per poi scoppiare a piangere o alterarsi.

Itachi avrebbe potuto approfittare di quei momenti per fuggire, ma dopo?

Per l’Akatsuki, era ormai morto. In ogni caso, senza lo sharingan sarebbe stato soltanto un peso inutile.

Più probabilmente, lo avrebbe ucciso qualche ninja di Konoha. Poco male, avrebbe preferito la morte, a quello.

Ma aveva provato a scappare; Sasuke era diventato improvvisamente lucido, al suo spostarsi verso la porta, e lo aveva fermato.

«Tu da qui non te ne vai.»

Sibilava, ad ogni suo tentativo.

«Tu non te ne vai di nuovo. Non mi lasci solo. Non più.»

Con gesto secco, lo ributtava nella stanza. Poi lo abbracciava, stringendolo tanto forte da soffocarlo (e più volte aveva sperato che accadesse veramente.), ripetendo, come una nenia:

«Non vai via. Non vai via. Devi stare sempre con me. Sempre. Sempre.»

«Sasuke, mi soffochi.»

«Tu sei mio, aniki. Non puoi andartene. Io ti voglio bene.»

A quel punto, Itachi sospirava. Passava le mani nei capelli del fratello e rispondeva:

«Anche io ti voglio bene, Sasuke. Però vorrei uscire. Andiamo a passeggiare insieme, ti va?»

Aveva tentato, Itachi, di far leva su quel affetto che Sasuke palesava continuamente a parole.

Fallendo, ovviamente; perché anche nella follia vige il ricordo e quello dell’abbandono era ancora troppo forte.

«No. Perché se esci, tu scappi. E tu non devi andare via. Tu devi restare con me. Sempre. Perché io ti voglio bene, aniki. Te ne voglio davvero tanto, più che a chiunque. Quindi non puoi andartene, capisci? Perché se te ne vai vuol dire che non ti importa che io ti voglio bene anche se nessuno te ne vuole. Vedi, aniki? Io ti voglio bene anche se mi hai fatto male. Ti voglio bene. Lo capisci questo, vero? Ti voglio bene, quindi non puoi andartene. No, no. O forse non mi vuoi bene anche tu, Itachi

A questo punto, la voce calava e calcava sul nome; la stretta si faceva più forte; molto spesso le unghie affondavano nella carne, in un abbraccio possessivo e minaccioso.

Sasuke lo fissava. Itachi ricambiava e si pentiva di non averlo ucciso allora.

«Sì, Sasuke. – mentiva – Ti voglio bene anche io.»

«Bene.»

Sasuke batteva le mani deliziato, poi cominciava ad imboccarlo.

Itachi, malinconicamente, mangiava.

Quello che Itachi non sapeva, era quanto accadeva quando Sasuke stava per entrare nella stanza.

Il ragazzo si fermava sulla porta; si aggiustava la maglia e sulle labbra si dipingeva un piccolo sorriso.

Un mezzo ghigno, per la precisione; un lieve arricciarsi verso l’alto del lato sinistro del viso.

Sasuke sorrideva e posava la mano sulla porta, accarezzandola con delicatezza, neanche fosse il corpo d’un’amante.

Vi avvicinava il volto e sussurrava a bassa voce:

«Sono dovuto arrivare a tanto, per avere i tuoi occhi puntati su di me, aniki. Adesso non me li farò sfuggire facilmente.»

Quindi entrava e il gioco ricominciava da capo, con lievi varianti.

Ogni giorno.

Per sempre.

«Ti stai chiedendo perché ti tengo qui, vero aniki? Perché faccio tutto questo?

La risposta è semplice, aniki. Molto semplice.

Perché la tua morte non mi basta più. Perché voglio derubarti di tutto ciò che hai, come tu hai fatto con me. Perché voglio che tu resti sempre con me, come mi hai promesso quando ero piccolo.

Perché la vendetta può aspettare, finché siamo insieme.

Perché questa è la più dolce di tutte le vendette.

Dici che sono pazzo? Ma chi è il più folle, tra noi due?

Io che mi comporto da tale, o tu che mi ci hai fatto diventare?

Pensaci, aniki. Pensaci.

E, nel frattempo, guardami.»

   
 
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