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Autore: MaidOfOrleans    23/10/2013    4 recensioni
2010, a dodici anni dalla Battaglia di Hogwarts.
Luna Lovegood è di ritorno in Inghilterra dopo una lunghissima assenza insieme ai due figli gemelli, con alle spalle un matrimonio fallito. Neville Paciock conduce una vita invidiabile: professore di Erbologia ad Hogwarts, è sposato con una donna che lo adora e padre di due bambine.
E' passato moltissimo tempo dall'ultima volta che i due si sono incontrati. Passerà molto tempo, forse, prima che riescano a ricostruire anche solo l'ombra della complicità che li ha legati da adolescenti e che pare essersi persa tra fraintendimenti e silenzi. Sarà una, alla fine, la domanda a cui entrambi saranno chiamati a rispondere: è o non è troppo tardi?
Dedicata ad una delle mie muse ispiratrici, june93. Lunga vita al fandom di Harry Potter e a te, amica mia!
Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ginny Weasley, Hermione Granger, Luna Lovegood, Neville Paciock, Un po' tutti | Coppie: Luna/Neville
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la II guerra magica/Pace
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Bellissimi fanciulli e fanciulle, 
ehi! Allooora, partiamo col dire che sono moltomolto eccitata, perché, che ci crediate o no, scrivo fanfictions sul Potterverse da dieci anni- dieci anni! Mi sento così vecchia D: - e questa è la prima che pubblico su Efp!
Dunque, perché Nuna. Beh, tra le coppie fanon si tratta senza dubbio della mia preferita. Adoro il personaggio di Luna: così svagata, eppure così brillante. Mi piace pensare di somigliarle, anche se purtroppo temo non sia così xD E Neville...beh, la sua metamorfosi nel corso dei sette libri è la più commovente e la più profondamente vera, a parer mio. Non posso non shipparli di brutto, dai!
Che altro posso dirvi? Se recensite non mi offendo, eh xD Moltissimo amore a tutti, siate pure spietati!



Faceva freddo.

Luna si strinse addosso il cappotto viola, sospirando di piacere alla sensazione della morbida fodera che le sfiorava i polsi. Aveva dimenticato i guanti. Ficcò le mani in tasca, e sussultò, sorpresa, quando le sue dita incontrarono qualcosa di piccolo e metallico.
Non poteva essere.
Come intrappolata nella lente di un Omniocolo con la funzione Rallentatore attivata, Luna strinse l’oggetto nel pugno e se lo avvicinò al viso. La chiave, colpita dal timido sole autunnale, baluginò quasi con spregio. Era stata lì, in quell’irrisoria intercapedine della fodera, per tutto quel tempo.
Incurante di trovarsi, completamente sola, in mezzo alla strada, Luna rise. Una risata spontanea, che spinse una strega dall’aria arcigna ad affacciarsi alla finestra, con il bricco del latte ancora in mano. Era il caso di fare una capatina all’ufficio postale.
La bellezza di Hogsmeade nel pieno di ottobre l’avrebbe commossa, se solo non fosse stata così concentrata nella ricerca di ogni minimo segnale di cambiamento. L’insegna di Mielandia era stata ridipinta di un color giallo sole che le provocò un soprassalto di tenerezza: suo padre, Xenophilius Lovegood, avrebbe approvato. Tra le sue tante teorie, figurava quella secondo la quale il giallo era una sfumatura benaugurante, soprattutto se indossata ai matrimoni, o alle cerimonie in genere. Luna aveva messo un abito giallo al suo funerale e, nonostante gli sguardi stupiti degli astanti, si era sentita meglio.
Svoltò alla fine della strada principale, superando la sala da tè di Madama Piediburro, classica meta degli appuntamenti galanti, almeno all’epoca in cui lei andava a scuola. Sbirciò dentro la vetrina, ma non avrebbe saputo indicare se, all’interno, fosse stato modificato qualcosa: non era mai stata il tipo di ragazza che veniva invitata ad uscire. Piuttosto, si disse, con una fitta di amarezza che la stupì, era il tipo di ragazza i cui vestiti venivano rubati e nascosti il giorno del banchetto di fine anno.
Il piccolo ufficio postale era esattamente dove ricordava, e la coda non appariva più breve rispetto a dieci anni prima. Un brivido che non aveva nulla a che fare con il freddo le artigliò la schiena. Dieci anni… si mise in fila, la chiave sempre stretta nel pugno, e cercò di concentrarsi sui problemi che richiedevano la sua attenzione immediata. Escludere il rumore di fondo dell’immaginazione non era mai stato facile, per Luna, e nell’ultimo periodo le era spesso risultato quasi impossibile.
Prima di tutto, che cosa scrivere nella lettera che stava per spedire? Le balenò alla mente l’idea di infilare la chiave in una busta e tanti saluti, ma la respinse quasi subito. Non si era mai tirata indietro, quando si trattava di confronti, e non aveva intenzione di cominciare proprio quella mattina. Tuttavia, informare il suo ex marito che l’unico strumento di accesso al deposito del materiale di ricerca zoologica da lui accumulato per dieci anni era nella tasca di un cappotto viola, a diecimila chilometri di distanza da lui, non sarebbe stato piacevole. Soprattutto considerando che erano stati convinti per due anni di aver perduto la chiave in Siria, e che Rolf era stato costretto a contattare uno Spezzincantesimi della Gringott per sciogliere la fattura con cui aveva protetto la serratura del deposito…fattura pensata per decadere nel momento in cui qualcuno avesse tentato di aprire la porta usando l’unica e sola chiave.
Nobody said it was easy
No one ever said it would be this hard.
Quando arrivò il suo turno, Luna scelse un gufo in evidente sovrappeso, pagandolo uno sproposito, perché era addestrato ai voli transoceanici. La strega allo sportello non la degnò di uno sguardo neppure quando quasi spezzò la penna d’oca nel calcare, su un biglietto, la formula che le sembrò meno patetica: “Guarda che ho appena trovato. Magari, può ancora esserti utile. I bambini stanno benissimo e sentono molto la tua mancanza; spero che verrai a trovarli preso. Luna.”
Sigillò la pergamena, e a malapena rispose al buongiorno stentato dell’impiegata. Le gambe la portarono quasi subito fuori, in strada, e si accorse di aver trattenuto il fiato per colpa dell’odore stantio che aleggia sempre negli uffici pubblici. Prima o poi, avrebbe dovuto ricordare di scrivere un ringraziamento sentito alle proprie gambe. Quando la testa non aveva idea di come comportarsi, loro sapevano che cosa fare.
Dopo aver frugato per qualche minuto sotto il cappotto, riuscì ad estrarre un orologio da taschino. Un sorriso amarognolo le aleggiò sulle labbra: come lei, quell’oggetto aveva visto tempi migliori.
Le quattro e mezza. Aveva ancora un’oretta prima di dover recuperare i bambini da Ginny, eppure le commissioni che aveva elencato su un brandello di carta rosa sembravano già concluse. Sembravano, chiaro; si era spinta a cercare di scrivere una lista, ma prima di riuscire a rileggerla l’aveva persa. Ad ogni modo, si concesse un respiro di sollievo, e, come spesso faceva negli ultimi tempi, uno zuccherino al garofano. A pochi passi, dietro le vetrine di Mielandia, avrebbe potuto trovare più dolciumi di quanti sarebbe mai riuscita a immaginarne: non solo Api Frizzole e gomme Bolle Bollenti, ma torroni, sbuffi di zucchero filato, lecca-lecca in tutti i gusti possibili e i suoi preferiti, gli Scarafaggi al Grappolo. Un peso indefinito le premette sullo sterno con dita gelate. C’era una persona, una sola al mondo oltre a lei, che non fuggiva alla vista degli Scarafaggi al Grappolo.
Eppure, si limitò ad aprire il pacchetto di un ricco bordò che teneva in tasca e ad estrarne una caramella dalla forma irregolare, marrone, che non lasciava presagire nulla di allettante. Il sapore dolciastro e speziato le fece formicolare la lingua.
Se qualcuno glielo avesse domandato, Luna avrebbe risposto che no, quegli zuccherini non le piacevano. E, se fosse stata onesta fino in fondo, avrebbe aggiunto che sapeva perché continuava a mangiarli.
Questions of science, science and progress
Do not speak as loud as my heart.
Se fosse bastato, si disse. Se sentire un gusto che apparteneva a ieri fosse stato sufficiente a chiudere fuori il presente. Con un sospiro per il quale non aveva ancora l’età, Luna si incamminò verso il centro del villaggio.
 
Con le mani immerse nell’impasto della crostata, Ginny osservava il cortile e i bambini che vi giocavano sotto il sole già declinante del pomeriggio. James e uno dei gemelli, non avrebbe saputo dire quale, ridevano sull’altalena ad asse, mentre l’altro li incitava. Una voce piccola che risuonava come un rivo sui sassi. Albus, pochi metri più in là, contemplava qualcosa, forse un insetto rinvenuto tra l’erba. Non c’erano gnomi in vista. Ginny si chiese se avrebbe dovuto portare loro delle sciarpe, o magari cappelli: a cinque anni, nessuno si accorge del freddo.
Il giorno seguente, Luna avrebbe ricominciato a lavorare, e a lei era sembrato naturale offrirsi di tenere Lorcan e Lysander con sé durante la giornata. La sua più vecchia amica aveva accettato senza farsi pregare: molti altri, orgogliosi o semplicemente testardi, avrebbero discusso, si sarebbero impuntati, avrebbero cercato un modo di sdebitarsi. Luna no. Lasciarsi avvolgere senza remore dalla gentilezza degli altri faceva parte del suo strano candore, che gli anni e i figli avevano scalfito, non distrutto.
Quando, due anni prima, Ginny aveva annunciato alla stampa la propria terza gravidanza e, insieme, il ritiro dal mondo del Quidditch agonistico, molti cronisti avevano speso parole di cordoglio e critica. A soli ventisette anni, la ragazza era considerata un astro nascente, e le sue prestazioni non davano segno di calare: velocità, agilità e mira non le erano mai venute meno. Lei, però, aveva continuato per la sua strada, e ottenuto quasi subito la responsabilità della pagina dello sport sulla Gazzetta del Profeta. Ad Harry, a sua madre e a chiunque altro aveva raccontato una parte della verità, e cioè che voleva passare le domeniche con i suoi bambini tra le braccia, e non a gelarsi le chiappe su un campo sperso nell’Inghilterra del nord. Sapeva bene, però, quanto avessero pesato sulla sua decisione le parole di un ragazzo che, appena undicenne, aveva guardato con ammirazione librarsi in volo sul campo.
La partita tra i Porter Prides e le Holyhead Harpies, la squadra in cui lei aveva giocato negli ultimi cinque anni, era finita 350- 380. Il cercatore dei Prides aveva voluto mettere fine a uno scontro durato più di quattro ore afferrando il boccino, dopo, però, che lei aveva già segnato la rete della vittoria. Appena scesi dalle scope, Oliver Baston l’aveva abbracciata, passandole una mano tra i capelli sudati.
“Ti sei fatta bella, Ginevra. E hai talento.”
“Sei tu che sei diventato vecchio”, l’aveva stuzzicato lei, alludendo alla Pluffa cui aveva impresso una traiettoria ad effetto e che lui si era lasciato sfuggire. Ancora non sapeva di essere incinta di Lily, ma sentiva che qualcosa, dentro di lei, era diverso dal solito: uno strano languore sembrava ammorbidirle le ossa.
I begli occhi castano-dorato di Oliver si erano rabbuiati. “E’ vero, piccola Ginevra.”
“Ma di che parli? Hai solo trentadue anni!”
“Ascoltami bene, Ginevra” il Portiere le aveva sfiorato una guancia, e a lei, nonostante tutto, non era parso un contatto inappropriato. “E’ meglio mollare finché si vince.”
Oliver giocava ancora, ma era passato dai Prides a una squadra minore. Ogni volta che scriveva di lui nella sua rubrica, Ginny lo esaltava leggermente più del dovuto, ma non tanto da risultare palese.
Smarrita nei propri pensieri, la donna si accorse con un attimo di ritardo che il crepitio del fuoco acceso si era fatto più insistente. Si voltò, più che altro per sincerarsi che Lily continuasse a dormire sul divanetto sfondato, e quasi le sfuggì un urlo quando scorse un viso che galleggiava tra le fiamme color smeraldo.
“Neville!” esalò Ginny, portandosi le mani sporche alla bocca. Una parte del suo cervello le suggerì che era il caso di aggiungere un po’ di scorza di limone all’impasto.
“Scusa, oddio, scusa!” balbettò il suo antico compagno di scuola, mortificato. “Non volevo spaventarti, davvero.”
“Per poco non mi prendeva un colpo! Ma tu non dovresti essere a lezione?”
Le testa disincarnata di Neville ballonzolò in un diniego che strappò una risata ad entrambi. “Ho un’ora buca.”
“E?” Ginny si sedette con cautela accanto alla figlia assopita. La bambina gorgogliò, ma non si mosse.
“Ho pensato di fare quattro chiacchiere.” Anche se si trattava di una proiezione, il viso del professore virava a un curioso color geranio.
“Non è vero” disse lei quieta, trattenendosi dal ravviare una ciocca rossa con le mani impiastricciate. Ora che si era ripresa dalle fantasticherie e dalla paura, doveva ammettere che si era quasi aspettata di sentire la voce di Neville prima di sera.
“Non ti cerco solo quando mi serve qualcosa di particolare”, sbottò lui, in una pantomima credibile dell’offesa.
“Certo che no, ma in questo caso è così. O sbaglio?”
“Sbagli” ripeté la testa galleggiante, cocciuta.
“Neville, i figli di Luna sono in giardino a giocare con i miei in questo momento.”
Un residuo della malizia che l’aveva caratterizzata da ragazzina spinse Ginny a ridacchiare, quando vide gli occhi del professore farsi grandi come bottoni da soprabito.
“E’…è tornata, quindi? E’ tornata davvero?”
“L’altro ieri.”
Calò un silenzio denso come crema al burro. Con la pazienza acquisita da quando era diventata madre, la donna aspettava; il viso di Neville tradiva una lotta interna, ma era impossibile capire se contro le lacrime o contro una smorfia di stupore.
“Oh. Okay.”
Ginny si astenne dal commentare.
“Voglio dire, come sta?” Sembrava che fosse riuscito ad ingoiare qualunque incrinatura della voce, ma a prezzo di un certo sforzo.
“Non dovresti chiederlo a me, lo sai”, rispose lei, reprimendo l’istinto di cercare di sfiorare quel viso etereo in mezzo alle fiamme.
“Già. Certo, scusami. Scusa.”
“Smettila di scusarti, Nev.”
“Va bene, scusa.”
Una risata sgorgò spontanea dalle gole di tutti e due, ma la bocca di Neville si fermò quasi subito e tornò a puntare verso il basso. “Posso chiederti una cosa?”
“Spara.” Lily si girò su un fianco, e puntò contro la coscia della madre un piede vagamente freddo. In mancanza di dita pulite, lei lo protesse con il gomito.
“Lei…lei ti ha domandato di me?”
Per un attimo, il crepitio delle fiamme divenne assordante.
“No, tesoro. Ma l’ho vista solo per qualche ora.”
“D’accordo. Davvero, mi dispiace averti disturbato.” Una voce del colore indefinibile che hanno le lavagne appena cancellate.
"Oh, Nev..."
I saluti furono rapidi e, da parte di lui, un po’ imbarazzati. Per diversi minuti dopo che la comunicazione fu chiusa, nonostante l’impasto che si seccava sugli avambracci, Ginny restò a fissare le fiamme nuovamente arancioni, chiedendosi se fosse vero che non era mai troppo tardi.
 
Come c’era da aspettarsi, alla fine Luna aveva ceduto a Mielandia.
Guardò con una vaga sensazione di straniamento il sacchetto rigonfio che teneva in mano, e sorrise alle proprie dita appiccicose di zucchero. Maledetti Scarafaggi al Grappolo. Tra quelli e i pranzi di Molly, sarebbe ingrassata.
Per un attimo, un fuggevole attimo, provò una gioia sconosciuta da tempo quando si accorse che non gliene importava niente.
Era ora di rientrare ad Ottery St. Catchpole, ed alla rassicurante villetta imbiancata in cui Harry e Ginny vivevano da quasi otto anni. Non era molto lontana dalla casa in cui Luna aveva trascorso infanzia ed adolescenza a fianco di Xenofilius e dove ora, a ventinove anni, era tornata, forse per restare. Si rese conto di avere le spalle contratte. Restare. Attendeva ancora il momento in cui quel verbo avrebbe smesso di essere una prigione. Dorata e autoimposta, ma pur sempre una prigione.
“Luna?! Oh mio Dio, ma sei proprio tu! Luna Lovegood!”
Abbandonando con fatica l’estraniamento in cui era piombata, la donna si voltò, e si vide davanti un viso che, per qualche istante, fluttuò nell’incerta caligine della memoria.
Un viso rotondo, senza zigomi, costellato di minute efelidi. Occhi nocciola e un sorriso che avrebbe fermato una rivoluzione.
E che fermò il cuore di Luna in senso ben più che figurato, spingendola ad annaspare, sconvolta dalla fitta che le prese prigioniero il petto.
Hannah Abbot.
Ai tempi della scuola, loro due si erano piaciute, erano perfino uscite insieme, di tanto in tanto. Non la vedeva da quando era partita, e le pareva poco cambiata: forse appena più morbida, con i seni più gonfi. D’altronde, era madre. E moglie. E Luna lo sapeva, come sapeva chi era stato a metterle al dito l’anello che ora baluginava come uno schiaffo.
Si riprese. In quelli che probabilmente furono secondi, ma a lei sembrarono giorni, inghiottì tutte le domande e i sentimenti che stava soffocando da mesi e che avevano minacciato di sopraffarla, e sorrise.
“Hannah! Ne è passato, di tempo!”
Era il commento più prevedibile e idiota che le fosse mai venuto in mente in vita sua. Per fortuna, l’altra non parve farci caso, e le strinse entrambe le mani. Il suo entusiasmo sembrava sincero.
“Caspita! Ginny ci ha detto che avevi in mente di tornare, ma non pensavo che fosse qualcosa di più di una fantasia…hai sempre avuto la testa tra le nuvole, tu.”
“E invece”, sorrise debolmente Luna, chiedendosi dove fosse finita la Luna Lovegood strana, quella che si faceva notare grazie alle risposte meditate o, al limite, del tutto inadatte al contesto.
“Ma fatti guardare! Non sei cambiata, sai?”
Falso, pensò Luna. Oppure, tragicamente vero. Non avrebbe saputo decidere quale possibilità le paresse più atroce.
“Nemmeno tu, sul serio.” Le quattro parole le costarono un’automaledizione Cruciatus mentale.
“Io? Ma che dici! Non vedi che pancia?” No, non la vedeva. Era troppo occupata a seguire i movimenti della mano sinistra di Hannah, che ravviava gli spessi capelli color mogano, sempre accompagnata da quell’impertinente luccichio dorato. “D’altronde, ho partorito da poco. Ginny ti avrà informato, credo.”
Ancora una volta, Luna lottò contro il senso di irrealtà che la stava avvolgendo, rallentandole i riflessi ed allontanandola dalla conversazione. Partorito. Da poco. Nessuno l’aveva informata, per il semplice fatto che non aveva fatto nessuna domanda.
“A dire il vero, no. Devo essermi persa qualcosa.” La sua voce sembrava lontana, come filtrata attraverso un incantesimo Muffliato.
“Distratta! Proprio come allora!” Hannah la abbracciò di slancio, e lei lottò per non irrigidirsi. Sapeva lievito e olio per neonati, lo stesso che Luna aveva reperito per i gemelli nell’unico banco dall’aria raccomandabile in un mercato di Ankara in quella che sembrava una vita precedente. “Lo sai, almeno, che ho sposato Neville, vero? E che ho rilevato i Tre Manici di Scopa?”
“Credo di essere arrivata fin lì.” Era come se stesse osservando la scena dal di fuori: due donne, una rossa e una bionda con un vistoso cappotto viola, in piedi al ciglio della via di un caratteristico borgo inglese.
“Beh, sei mesi fa ho avuto una bambina. La seconda.” L’orgoglio e la gioia di Hannah erano palpabili, e Luna si sentì di colpo orribile per la propria freddezza.
“Ma è fantastico! E’ stata una bella gravidanza? Come l’avete chiamata?”
“Alice, come la mamma di Neville. Dopo che… beh, sì, Alice.” Luna si morse un’unghia, domandandosi se l’altra sapesse che lei era una delle pochissime persone a conoscere da anni la storia dei genitori di Neville. “Ma senti, abbiamo così tante cose da raccontarci! Perché non ci vediamo una volta come si deve?”
“Mi farebbe molto piacere.” Uno dei lati positivi di questa nuova Luna demente era una certa facilità alla menzogna.
“Perfetto, allora! Anche perché devo correre a casa, adesso. Ho lasciato le bimbe con mia madre, e devo ancora comprare un po’ di caramelle. Non per le piccole, eh” rise Hannah, e i capelli sobbalzarono, morbidi, sulle sue spalle piene “Per me e Nev. Siamo così distrutti che senza un po’ di zuccheri extra ci accasceremmo a terra alle tre del pomeriggio.”
Nemmeno la sua gemella noiosa e prona ai convenevoli trovò una frase adeguata, ma l’altra non sembrò curarsene.
“Facciamo così. Stasera mando un gufo a Ginny e ci mettiamo d’accordo. Magari, si cena insieme da me, che dici?”
“Meraviglioso.”
La ex compagna di scuola l’abbracciò in un turbinio di lana, pelle soffice e orecchini pendenti. Nonostante il cappotto, a Luna parve di sentire la pressione dell’anello di Hannah contro la spina dorsale. Dopo un ultimo scambio di baci sulle guance intirizzite, ad ogni modo, la rossa si allontanò di qualche passo; sulla porta di Mielandia, tuttavia, parve ripensarci, e si voltò a guardare l’altra, che stava immobile nell’attesa che l’intontimento passasse.
“Scarafaggi al grappolo!” rise, un suono cristallino, pulito. “Fanno schifo a tutte le persone normali, ma Nev ne va pazzo. Ti rendi conto?”
Più che rendersene conto, Luna lo sapeva. Si limitò a un sorriso e a una scrollata di spalle. Era in ritardo, constatò la parte razionale che le era rimasta.
In ritardo e, in quel pomeriggio di ottobre scoppiettante di attività e persone, completamente, incondizionatamente sola.

Running in circles, chasing our tails
Coming back as we are
Nobody said it was easy
Oh, it's such a shame for us to part
Nobody said it was easy
No one ever said it would be this hard
I'm going back to the start
  
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