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Autore: tortuga1    24/10/2013    2 recensioni
Gli uomini e le donne sono spesso lontani pur vivendo vicini, così tanto da avere difficoltà ad incontrarsi. Pensando a questo mi è venuta l'idea di SPLIT, una storia ambientata in un futuro possibile, nella quale uomini e donne sono stati separati per un esperimento che aveva il fine di salvare l'umanità dall'estinzione. Ma qualcosa non è andato per il verso giusto, e alla fine del viaggio uomini e donne non si sono più incontrati...
La storia comincia così, nella comunità di sole donne che ha colonizzato come previsto il pianeta Terra Due, e da secoli ormai ripete un rituale di clonazione.
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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IV.

 

Sotto il cielo biancastro sfrecciano bassissimi gli aerei da guerra. Tornano da un’altra missione inutile, forse l’ultima. Il caldo è soffocante, le piante tropicali sembrano boccheggiare nell’aria asciutta, e molte ormai sono ingiallite.

Allora, parte lo stesso?

Sì, è sicuro. – il vecchio beve avidamente dal bicchiere di carta, l’acqua gli cola lungo il mento. – ah! Stavo morendo di sete!

Tieni – il giovane versa altra acqua dalla bottiglia di plastica con l’etichetta scollata, e guarda con disprezzo le mani tremanti e sudice di Albert.

Che carogne. Sono con l’anima ai denti e non si arrendono. Sporchi diavoli di merda.

Ma sei sicuro, eh?

Sì che sono sicuro. Maledetti, hanno già caricato tutte le provviste e anche le piante e gli animali, un’altra dannata arca. I miei amici dicono che si sono impegnate anche le mutande, però sembra che ce la stanno facendo.

Dannazione! – Habel scaraventa un pugno sul tavolo e rovescia il bicchiere mezzo pieno. Albert cerca di afferrarlo ma non ci riesce. – e tu, cane, hai bevuto abbastanza!

Ti prego, Habel, non fare così, io sono tuo amico…

Ma sì. – versa altra acqua con un ghigno cattivo – siamo amici, noi. Parla ancora.

Non si possono avvicinare gli equipaggi. Però c’è una novità. Senti questa: maschi e femmine sono separati.

Davvero, separati? – il giovane mantiene il viso immobile come una maschera ma pensa in fretta. È pericoloso quello che sta sentendo. Parla con finto disprezzo – E come cazzo faranno…

Sembra… – beve una sorsata e abbassa la voce – sembra che durante il viaggio si riprodurranno con una di quelle loro diavolerie, clo… come si dice…

Clonazione.

Sì, clo…nazione. I maschi da una parte, le femmine dall’altra. Che stronzata, e dovranno ricongiungersi solo alla fine, quando arriveranno…

E dove cazzo sono diretti?

Che ne so io? Da qualche parte ad anni luce da qui, dicono che ci metteranno cinquecento anni. Cinquecento… ma ci pensi, noi non ci saremo…

No, ci puoi giurare, e nessun altro fottuto essere umano. E sai che ti dico? Nemmeno loro, ci saranno. Per la grandezza della Santa Unione, saranno distrutti anche loro.

Sì! – Albert scopre i denti guasti in una smorfia – devono morire! Loro, i miei amici, stanno già lavorandoci, ma non hanno voluto dirmi cosa cazzo stanno preparando. Di sicuro qualcosa di buono, per fare tanto i misteriosi! Ma tu… – torna serio all’improvviso e stringe gli occhi – come farai a salire anche tu sulla nave? Ci sono misure di sicurezza terribili…

Non ti riguarda più, vecchio.

Il coltello colpisce Albert subito sotto il pomo d’Adamo e taglia la carne di lato finché schizza uno zampillo di sangue. Habel lo rigira bene mentre il corpo inerte si abbandona contro il tavolino sconnesso, poi si asciuga le mani sulla camicia del morto. Più tardi, in albergo, dopo una lunga doccia si riveste con cura e torna quello che tutti credono, un elegante ufficiale dell’Unione Occidentale.
 

È… diverso da noi. – Paula guarda incuriosita lo strano essere immerso nel sonno. Vestito con una tuta blu troppo larga e corta, è alto e snello, senza i fianchi delle ragazze e con il petto piatto. I capelli bruni quasi rasati. Il viso dai lineamenti distesi è abbastanza bello ma un po’ grossolano, ha qualcosa che ricorda l’espressione di sfida di Marzia. – cos’ha intorno alla bocca… sembrano peli.

Sì, sono peli. È la barba, gli sta crescendo.

La… barba… Cos’è?

Una delle differenze fra il maschio e la femmina. Ce ne sono altre.

Ma come mai non ce le hai fatte studiare…

Le direttive. Non bisognava parlarne. L’ordine era dimenticare. Abbiamo dovuto piegarci tutte quante, ubbidire o fingere di ubbidire. Per secoli l’abbiamo fatto, ma io non ci riesco più.

E io che cosa farò? Tu l’hai… risvegliato, e ora lo lasci a me… – si rabbuia, Ester ha i giorni contati e sa esattamente quanti saranno. È terribile sapere quanto ti resta.

Fai quello che sentirai giusto.

Come potrò decidere io… io sono solo una…

Tu sei Paula, sei me stessa giovane. Non so quello che farai, ma sono tranquilla. Sarà come se l’avessi fatto io.

Mi pesa, questa responsabilità. Fino a ieri pensavo che tu… ecco, pensavo che tu saresti durata per sempre. Che stupida, non è vero?

Sei cresciuta all’improvviso. È il nostro destino, succede a tutte noi. Siamo noi a volerlo. Mi piaceva tanto guardarti spensierata come ti meritavi di essere. E avevi poco tempo, non ho voluto rubartelo. Anche tu farai lo stesso con quella che verrà dopo.

Già. Anch’io.

***
Sola nella casa tiepida Paula rigira fra le dita la scheda di memoria. È di nuovo inverno, fuori la neve è alta e ne cade ancora. La scheda è un quadrato nero di sei centimetri, da un lato ci sono sessantaquattro piedini dorati evidentemente destinati ad inserirsi in un alloggiamento, e lei non conosce nessun dispositivo così, non ce ne sono nel laboratorio e nemmeno nella camera di pilotaggio. Ester le ha detto cosa deve farne, ma le sembra una cosa assurda, e così ha deciso di disubbidire. Le manca Ester, è morta da quasi un mese e ancora sembra aleggiare per le stanze, certe volte crede di averla dietro le spalle e quasi si stupisce di non sentirla parlare. Il dolore è stato forte ma ora sembra attenuarsi, è stato triste vederla soffrire, e ancora più triste pensare che questa identica scena era destinata a ripetersi, scritta nel suo codice genetico imperfetto. Ma poi è subentrata la calma, la consapevolezza che Ester è andata prima, però anche lei, Paula, la seguirà, nello stesso posto. Che sia il Paradiso degli antichi o il niente delle attrazioni casuali delle molecole, sarà nello stesso posto che andrà. E così pian piano si è impadronita degli spazi prima riservati ad Ester, e anche del suo lavoro. Mantenere le colture di batteri transgenici che producono i farmaci essenziali, ed estrarli nelle piccole quantità necessarie alla comunità. Curare piccole stupidaggini, i postumi della frattura di Erika e le infezioni banali, o i sintomi del cancro al colon di Anna, che ha recidivato inesorabilmente dopo l’operazione, solo cure palliative senza nemmeno poterla consolare dato che lei sa esattamente qual è la malattia e quanto durerà, anni, mesi e giorni. E fra poco toccherà alle altre, a tutte le altre. Un incubo.
Ester le ha detto che il ragazzo si chiama Sebastian, e il suo doppio Salvatore. La madre una tedesca altissima, bionda e minuta, il padre siciliano, piccolo e scuro. La sua scheda dice che si è offerto volontario dopo che la sua famiglia era andata distrutta in un bombardamento. Niente da perdere, niente da rimpiangere. Paula sospetta che la stessa motivazione abbia spinto tutti gli esploratori, stufi del pianeta Terra e indifferenti sulla riuscita o meno dell’operazione. Peggio di così…
Gli ha parlato attraverso il sintetizzatore vocale, la stessa voce neutra che era abituato a sentire, ma lui si è accorto lo stesso della differenza.

Cosa ti è successo?

Ripeti la domanda, non ha senso. – col cavolo, che non ha senso. È successo di tutto.

Mi sembri… differente. Parli in un altro modo.

Irrilevante. Il mio modo di parlare non ti riguarda.

Prima mi riguardava. Che diavolo ti è successo? Sembri un’altra persona.

Per favore, indica se serve qualcosa. Serve qualcosa da mangiare o da bere?

Eh, hai voglia di scherzare e parli come un computer suonato. E va bene, no, non mi serve niente. Sto benissimo, grazie. Non mi hai fatto fare nessun intervento, oggi.

Prepara il terminale. C’è un intervento al cervello. Fossa cranica posteriore.

Ah. Finalmente. Mi stavo annoiando.

Non hai abbastanza da fare?

Ho letto tutti i libri. Ho simulato tutti gli interventi possibili.

Perché non ti eserciti un po’ in palestra?

Mi annoia la palestra. Sempre gli stessi movimenti. Meglio operare.

E va bene. Pronto. Paziente di ottantadue anni, stabilizzato. Astrocitoma del ponte. Intervento conservativo.

Nessun problema. Questi interventi mi rilassano.

Paula guarda l’intervento simulato, Sebastian (o Salvatore?) lavora con calma e sicurezza, pilotando il terminale microchirurgico come lei non saprebbe fare meglio. Ester è stata una maestra bravissima. Dopo tre ore Sebastian avvia il programma di ricucitura. L’intervento è finito, il malato sopravviverà. Si alza dal terminale e si stira, poi muove qualche passo nella stanza angusta. La cuccetta a forma di bozzolo incassata nella parete. Il terminale del computer con il grande schermo piatto e i comandi del modulo operatorio remoto. Il cibo delle razioni spaziali distribuito da un dispenser nella paratia. Il piccolo bagno completo di tutto. La lavatrice a secco per le tute troppo corte. Accanto una minuscola palestra con le macchine isometriche, adatte per i lunghi viaggi nello spazio in gravità ridotta. Una prigione, ma lui non lo sa, è il suo mondo da sempre.
 
Allora, che ti sembra? – Paula guarda preoccupata Giulia che maneggia con troppa disinvoltura la scheda, ha deciso di mostrargliela. – attenta a non farla cadere a terra…

Se cade non succede niente. È una scheda corazzata, ci puoi passare sopra con i piedi e non si rompe.

Non provarci! È l’unico oggetto importante che mi ha lasciato Ester.

Mi dispiace per te. E io non sto meglio… – Giulia si rabbuia pensando che anche Anna ha la data di scadenza, ma per fortuna lei non sa quando esattamente succederà. Non ancora. – però non preoccuparti. È davvero robusta, resiste anche ad un’esplosione. Come l’ha avuta Ester?

Non lo so – meglio mentire, non si sa mai – però la teneva sempre al collo. Io vorrei… sapere cosa c’è dentro. Forse non c’è niente…

Chi lo sa. Ora andiamo a vedere. Da quando sono… cresciuta Anna mi ha aperto il laboratorio. Possiamo provare se c’è uno slot per questa scheda, o altrimenti costruirne uno.

Saresti capace?

Ma certo, è la prima cosa che Anna mi ha insegnato. Non essere schiavi dell’hardware. E nemmeno del software. – con una risata che la fa sembrare ancora bambina prende il mantello e porge il suo a Paula. – dai, copriamoci bene. Il laboratorio è sulla nave.

 
 
La mensa è abbastanza fresca, gli eroi devono essere trattati bene. C’è allegria e nervosismo, tutti quanti hanno alzato un po’ il gomito, è l’ultima volta che possono farlo, sulla nave è rigorosamente vietato l’uso di alcool. Alla fine del pasto speciale da millecinquecento calorie (un lusso per gli uomini dell’equipaggio) il capitano Antonio Luciano, mezzosangue indiano con i capelli lunghi e lisci raccolti in una treccia, si alza per il brindisi.

Ragazzi, ci aspetta un lungo periodo insieme.

Sì!

Bene!

Ehi, fatemi parlare, cazzo! Bel rispetto per il comandante!

Parla, comandante!

E che aspetti?

Mi vendicherò quando saremo in volo. Vi farò lustrare il ponte con scopa e spazzolone.

Sei un negriero!

E fatemi parlare!

Zitti, fatelo parlare se no s’incazza!

Ragazzi, amici. – Antonio sorride guardandoli uno ad uno poi torna tetro come sempre, assomiglia maledettamente ad un totem – nessuno di noi lascia niente in questo fottuto pianeta. Giusto?

Giusto! Che si fotta il pianeta Terra!

Però noi stiamo andando a costruire Terra 2. E allora vi dico: che non sia mai come questa Terra! Non ripeteremo gli stessi sbagli! Giuriamo tutti che non ci saranno più guerre!

Lo giuriamo!

E beviamo alla salute delle nostre compagne che non abbiamo mai visto, e incontreremo solo su Terra 2!

Alle nostre compagne! – Tutti vuotano i bicchieri di birra e poi tornano a chiacchierare animatamente.

Sì, in culo a quelle puttane! Dovranno farsela rossa a furia di ditalini! Cinquecento anni senza cazzi…

Almeno si capisce come la pensi. Nemmeno a me piace questo split. Forse era meglio prima.

Che ne sai tu, dicono che le altre volte si sono ammazzati a vicenda come i pazzi.

Ed è successo perché uomini e donne stavano insieme? Io non ci credo.

Eh, le donne sono buone solo per una cosa, sai cosa. Meglio non avere rompimenti di palle quando c’è un lavoro serio da fare.

Ma che dici, Steve, io penso…

Non fare troppe congetture. Magari non era colpa delle donne, forse era colpa solo dell’ambiente limitato per troppi anni, chi lo può dire. Però questa trovata della clonazione mi sembra buona. Un altro te stesso da allevare e addestrare come un figlio. Io ho sempre desiderato un figlio. – Steve Castelli, un ingegnere nero con gli occhi a mandorla e padre italiano accarezza il bicchiere vuoto e ci guarda dentro. – peccato che la birra sia finita…

Io invece ce l’avevo, un figlio.

Non pensarci più, Sebastian. Ora faremo un mondo nuovo. E dai, sorridi.

Non mi va di sorridere. Forse sorriderà un mio clone, un giorno o l’altro. Io no.

Contento tu… – Steve si guarda nervosamente intorno e abbassa la voce – che te ne pare di quello? Quello nuovo.

Chi, Habel? Non so niente di lui. Solo che è un militare, è stato preso all’ultimo momento per sostituire il povero Bob alla sicurezza. Lo hanno fatto per disperazione, non c’erano alternative. Prima l’incidente nell’alloggio delle riserve, poi Bob. Che strano, morire così all’improvviso. Sembrava sanissimo…

D’infarto nel suo letto, una vera sfortuna per lui. Almeno fosse stato in battaglia…

Che cazzo cambiava?

In battaglia, volevo dire, con una bella fica sotto. – e dai, fatti una risata…

E va bene, ah ah ah. Contento?

Sei una pizza. Come farò a sopportarti per cinquecento anni?

Bah, stavo pensando lo stesso.

Aspetta, Seb, c’è rimasta una goccia di birra nei nostri bicchieri.

E allora?

Voglio brindare ancora. Al vecchio Bob, che il diavolo se lo porti. Era un amico.

 
 
Il laboratorio è stranamente caotico, in contrasto con il carattere rigoroso di Anna. Il saldatore laser dimenticato acceso brilla in un angolo abbrustolendo la vernice della paratia. Fasci di fili da riciclare sul bancone. Un computer mezzo smontato e abbandonato al suo destino da almeno un decennio, a giudicare dalla polvere stratificata. Paula guarda e non fa commenti, ha imparato quanto Giulia sia suscettibile, anche quando sembra allegra e spensierata. Si limita a staccare la spina del saldatore, che spande uno sgradevole tanfo di bruciato. Giulia rovista in uno scatolone pieno di componenti smontate da chissà dove, e ad un tratto lancia un grido eccitato.

L’ho trovato! Lo sapevo che doveva esserci! Guarda, Paula! Questo l’ha fatto Anna, si capisce dallo stile…

Non mi sembra granché. – il cavo è rattoppato con il nastro adesivo e ad un’estremità porta un pezzo di plastica sbeccato tenuto insieme a forza con fil di ferro. Però a guardarci dentro, c’è un alloggiamento con sessantaquattro piccole scanalature, e sembra della misura giusta.

L’apparenza non importa. Ora colleghiamo il cavo al computer centrale. – armeggia dietro uno dei terminali ed emerge trionfante e impolverata. – ecco fatto. È venuto il momento, dammi la scheda.

Senti… – Paula esita, ora viene il difficile. – ci ho pensato su, non so se la scheda contiene qualcosa di riservato… – il viso affilato di Giulia si contrae in una smorfia e gli occhi saettano di lato. Si è offesa a morte. Meglio fare marcia indietro. – ma no, che importa. Però devi giurare che non dirai niente a nessuna di quello che vedrai. Me lo giuri?

Uffa, come sei seccante! Va bene, va bene, te lo giuro. Devo anche sputare tre volte o fare qualcosa di simile?

No… scusami, Giulia. Tu mi stai aiutando e io invece mi comporto da sciocca. Però non sai quanto bene volessi ad Ester.

Lo so, scema. E ora dammela. – riluttante Paula scioglie il laccio di cuoio e consegna il quadrato di plastica. Corazzata, non sembrerebbe proprio. E invece Giulia è così sicura, e lei se ne intende. Cosa conterrà mai…

 

 

  
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