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Autore: suni    13/04/2008    17 recensioni
"Papà, ma lo zio ce le aveva tutt'e due, le orecchie?"
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Fred, Weasley, George, e, Fred, Weasley
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Scenetta senza pretese su George e il secondo Fred. L’ho scritta riferendomi alla mia Ambitions (che, per chi fosse interessato, è in via di stesura e non è defunta), ma non è necessariamente legata ad essa.

 

 

 

ORECCHIE, ZII E CACCABOMBE

 

 

“Papà, ma lo zio ce le aveva tutt’e due, le orecchie?”

George sollevò di scatto lo sguardo dalla Gazzetta, con un sussulto di sorpresa. Il movimento brusco del busto con cui accompagnò la risalita dei propri occhi verso il bambino fece ondeggiare il dondolo su cui era accomodato, che cigolò lievemente nella veranda silenziosa.

Fred si era arrampicato sul tetto della rimessa, proprio accanto alla casa, e stava in equilibrio sul tubo della grondaia, le braccia lievemente allargate per darsi stabilità. Aveva storto e incassato la testa, per poterlo vedere meglio dalla sua posizione, e gli occhi azzurri rilucevano di sincera, innocente curiosità.

“Temo di non aver capito la domanda,” osservò suo padre perplesso, trattenendo a fatica una risata incredula. Posò il giornale per terra e si alzò lentamente in piedi, avvicinandosi alla ringhiera che dava sul giardino, di lato, e guardando il figlio con attenzione.

“Mamma dice che gemelli vuol dire ugualiugualiuguali,” cinguettò Fred ameno, riprendendo la sua marcia da equilibrista con una scrollata della testolina ricciuta. “Lo zio era anche lui senza orecchio, papà?” insistette con naturalezza, parendogli evidentemente di aver fatto un quesito del tutto legittimo.

George sbatté ripetutamente gli occhi prima di passarsi una mano sul lato del viso, meditabondo, facendo scorrere un dito lungo la brutta cicatrice che adornava l’attaccatura dei suoi capelli.

“Ma io le avevo tutt’e due, le orecchie,” osservò, indulgente. “E anche tuo zio,” puntualizzò sollevando le spalle.

Più passava il tempo, più si trovava a prendere atto del fatto che suo figlio era completamente matto. Aveva una fantasia assolutamente sfrenata e una maniera di ragionare tutta sua – oltre a un’abilità straordinariamente sviluppata nel pronunciare sempre le frasi e le domande più inopportune con un candore disarmante, possibilmente davanti al maggior numero accessibile di spettatori; ma George era quasi certo che non lo facesse con la totale innocenza di cui dava mostra. Sì, era proprio un moccioso folle e intrigante, ma gli era del tutto impossibile non assecondarlo. Anche Angelina, con l’andare del tempo, aveva dovuto capitolare e rassegnarsi: George venerava il figlio con un’intensità che gli impediva di sgridarlo, rimproverarlo, porgli divieti e restrizioni, richiamarlo all’ordine, frenare le sue iniziative balzane, impedirgli di ottenere qualunque cosa chiedesse. Se fosse stato per George, il piccolo Fred Weasley sarebbe probabilmente stato proprietario di un parco giochi personale, di una piscina in cortile con un Kelpie tutto per sé, di una bicicletta volante in oro massiccio e della squadra nazionale di Quidditch. E questa era solo una piccola parte delle assurde richieste che avanzava saltuariamente e che suo padre ogni volta sembrava prendere seriamente in considerazione per farlo contento.

“E quando il tuo orecchio se n’è andato, il suo è rimasto?”

George lo guardò incredulo, prima di ridacchiare del suo strano ragionamento.

“Sì. Ha valutato attentamente la questione e deciso che gli stava bene di rimanere attaccato alla sua testa,” rispose con solennità.

Fred riportò lo sguardo su di lui, accigliandosi lievemente. Oltre a saper prendere magnificamente per il naso gli interlocutori, era molto bravo a capire quando l’oggetto delle prese in giro era lui stesso.

“Allora non eravate ugualiugualiuguali,” ponderò serio, saltellando sul tetto e ignorando la provocazione. “Come hai perso l’orecchio, papà?” aggiunse dopo un breve silenzio meditativo.

George si schiarì la voce, prendendo fiato e tentando di imbastire una risposta accessibile senza scendere in particolari truci.

“Un incidente,” rispose vago, fornendo la spiegazione che aveva già ripetuto al bambino decine di volte. Fred spalancò la bocca per ribattere, e in quella perse l’equilibrio, tirò una sonora sederata sulla lamiera che rimbombò con un gran fracasso e rotolò verso il bordo del tetto.

“Scendi di lì, Fred, finirai per farti male,” suggerì blandamente George, come rendendosi conto solo in quel momento di dove si trovava. Se Angelina fosse stata presente lo avrebbe assordato a forza di rimproveri, ma Fred sapeva che il padre gli lasciava fare tutto quel che voleva. All’età di sei anni aveva già all’attivo, come esito delle loro giornate a due, tre slogature della caviglia, un tavolo esploso, un polso fratturato e un servizio di bicchieri in frantumi. Alle proteste esasperate della moglie George era solito rispondere che anche lui quand’era piccolo ne aveva combinate di tutti i colori, infilandosi in un’interminabile serie di situazioni potenzialmente mortali e provocando infiniti incidenti domestici, ma non erano stati quelli a privare lui di un orecchio e suo fratello della vita.

Sembrava vivere nella ferma convinzione che suo figlio fosse indistruttibile.

E Fred, andava detto, era un bambino coriaceo e pareva fatto di spessa carne di gigante. Era un cosino smilzo, dalla carnagione scura, con ricci quasi neri e grandi occhi azzurri incastonati in un muso magro e affilato che lo faceva sembrare uno scricciolino, ma a quattro anni aveva affrontato la fastidiosa cura del polso senza battere ciglio e quando si era ustionato col calderone degli esperimenti in negozio aveva a malapena singhiozzato.

Si calò giù dalla tettoia con la scioltezza di uno scimpanzé, saltellando oltre la ringhiera fino a raggiungere il padre.

“Che incidente?” insistette, guardandolo senza esitazione.

George storse il naso, ravviandosi meccanicamente i capelli.

“Sono stato colpito da un incantesimo destinato a qualcun altro,” spiegò, prendendo tempo.

“E perché?” continuò suo figlio attento, spalancando gli occhi con trepidazione.

George sospirò, stirò le labbra in una smorfia incerta e tornò verso il dondolo, sedendosi mentre si stropicciava il viso. Fred, solerte, gli andò appresso stravaccandosi ai suoi piedi, senza smettere di fissarlo.

“Ricordi quando la mamma ha parlato dell’uomo cattivo, Fred?” iniziò pensoso.

Il bambino annuì diligente, appoggiando il mento aguzzo sulle braccia incrociate a terra. Aveva piegato le ginocchia e sventolava i piedi con indolenza, attendendo impaziente il seguito.

“Sì. Voldemort,” rispose pacifico, come se stesse ascoltando una favola.

George si trattenne per qualche secondo, osservando come suo figlio non risultasse minimamente preoccupato da quel nome che aveva invece percorso l’infanzia sua e dei fratelli come un’oscura, terribile minaccia. Per Fred e i bambini come lui quella parola era un mistero che non li riguardava davvero, qualcosa che non potevano conoscere e che presto o tardi avrebbero dimenticato. E forse, dopotutto, era giusto così.

“Io, gli zii e i nonni combattevamo contro quell’uomo. E’ successo durante una battaglia,” spiegò, serio.

“Sei un ferito di guerra!” esclamò Fred con entusiasmo. “Fortissimo!”

George lo osservò in silenzio, sconcertato dall’euforia dipinta sul viso del figlio, illuminato da un sorriso ammirato.

…immagino…sì,” borbottò, vagamente a disagio.

“Wow! Sei un eroe!” continuò a cinguettare il bambino, che per l’emozione s’era rizzato a sedere.

George trattenne a stento un sorriso, sentendosi quasi sul punto di arrossire. Il suo pargolo era da sempre il suo più grande ammiratore e pareva vivere nella convinzione che essere il figlio dell’uomo che aveva creato i Tiri Vispi fosse mille volte più importante che essere quello del Ministro della Magia, ma nemmeno quando gli aveva mostrato le scarpe a propulsione volante lo aveva guardato con tanta adorazione.

“No, era solo…dovevamo combattere, sai. Era importante,” si schermì, noncurante.

“Perché?”

“Perché quell’uomo voleva diventare il capo e diceva brutte cose,” tagliò corto il padre, sbrigativo. La conversazione si stava facendo complessa e avrebbe decisamente preferito affrontarla con il sostegno morale e fattivo di Angelina.

“Quali cose?” continuò Fred ignorando la sua evidente ritrosia; quando si metteva in testa qualcosa era impossibile dissuaderlo o distogliere la sua attenzione, fino a quando lui stesso non si riteneva soddisfatto.

George sospirò, rassegnato.

“Diceva che le persone non sono tutte uguali e voleva uccidere quelli che non riteneva abbastanza speciali. Gli importava solo di essere potente e decidere per gli altri,” borbottò, senza sapere bene come spiegarsi.

“Era cattivo,” convenne Fred, con un cenno d’intesa piuttosto comico.

“Già,” confermò George placido.

“Quindi non hai perso l’orecchio in incidente, papà,” osservò ancora il piccolo, apparentemente scandalizzato per quell’innocente, semplicistica bugia che gli era stata rifilata fino ad allora.

“No,” ammise George con vaghissima colpevolezza. Non gli piaceva mentire a suo figlio, ma aveva sempre ritenuto che ci sarebbe stato tempo, quando fosse cresciuto, per raccontargli ogni cosa precisamente.

Fred era assorto, adesso. Fissava un asse del pavimento con aria grave ed estremamente concentrata, tormentandosi le dita senza rendersene conto. Si mordicchiò un labbro prima di tornare a portare gli occhi su di lui.

“Papà,” iniziò grave e, incredibilmente, titubante. “Allora…nemmeno lo zio è morto in un incidente, vero?”

George espirò rumorosamente, con un amaro sorriso quasi di scuse.

“No,” confermò a voce bassa, guardandosi la mano poggiata in grembo. “Non è stato un incidente.”

Fred non aggiunse altro, rimanendo muto e quasi triste a guardare il padre che fissava il giornale, in terra, senza più sorridere. L’espressione gioviale e felice che adornava il volto di George in presenza dei suoi figli adorati aveva lasciato il posto a quella cupa e lontanissima che il bambino gli aveva veduto in pochissime occasioni.  Fred sapeva che il suo papà non era la persona gioiosa che mostrava di essere. Aveva solo sei anni e non conosceva nulla di morte, lutti e nostalgia, ma con la sua sensibilità infantile aveva captato già da tempo che papà, semplicemente, aveva un dolore sempre con sé. E non si sbagliava, perché la ferita dovuta alla morte del gemello non si era mai rimarginata, com’era naturale. George l’aveva semplicemente scostata un po’ di lato, per poter godere dei suoi figli e della sua famiglia, ma non per questo aveva smesso di avvertire la mancanza del fratello. Era soltanto che c’erano cose più pregnanti che richiedevano la sua attenzione, come quel frugoletto pestifero e la sua adorabile sorellina.

“Papà,” lo riscosse la voce tremolante del bambino.

George sollevò lo sguardo dal foglio per scoprire che Fred non era più seduto a terra, ma si era trascinato sulle ginocchia fino ad arrivare attaccato a lui. Lo vide slanciarsi verso l’alto con un movimento un po’ goffo e spontaneo e allacciargli le braccia magre e brune al collo, rifugiandosi nel tepore del suo petto.

“Cosa c’è?” chiese, ritornando alla realtà.

“Sono contento,” bofonchiò Fred contro la sua veste, “di chiamarmi come lui.”

Il volto di George si aprì in un sorriso luminoso e commosso che finì per fargli venire gli occhi lucidi, mentre afferrava quel mucchietto d’ossa e nervi e se lo stringeva contro con impeto. Non rispose, la gola chiusa dall’emozione, limitandosi ad arruffargli i ricci con affetto.

Fred gli si accoccolò contro, tacendo per qualche altro istante. Poi scostò la testa e tornò a guardarlo in viso, speranzoso.

“Giochiamo alla lotta con le caccabombe, adesso?” pigolò entusiasta.

George Weasley scoppiò a ridere di cuore, prima di spintonarlo facendolo capitombolare in terra. Poi si alzò e lo seguì ridacchiando, mentre il bambino lo strattonava per la mano e lo tirava in casa con impazienza.

 

   
 
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