Scenetta
senza pretese su George e il secondo Fred. L’ho scritta riferendomi alla
mia Ambitions
(che, per chi fosse interessato, è in via di stesura e non è
defunta), ma non è necessariamente legata ad essa.
ORECCHIE, ZII E
CACCABOMBE
“Papà,
ma lo zio ce le aveva tutt’e due, le orecchie?”
George
sollevò di scatto lo sguardo dalla Gazzetta, con un sussulto di
sorpresa. Il movimento brusco del busto con cui accompagnò la risalita
dei propri occhi verso il bambino fece ondeggiare il dondolo su cui era accomodato,
che cigolò lievemente nella veranda silenziosa.
Fred
si era arrampicato sul tetto della rimessa, proprio accanto alla casa, e stava
in equilibrio sul tubo della grondaia, le braccia lievemente allargate per
darsi stabilità. Aveva storto e incassato la testa, per poterlo vedere
meglio dalla sua posizione, e gli occhi azzurri rilucevano di sincera,
innocente curiosità.
“Temo
di non aver capito la domanda,” osservò suo padre perplesso,
trattenendo a fatica una risata incredula. Posò il giornale per terra e
si alzò lentamente in piedi, avvicinandosi alla ringhiera che dava sul
giardino, di lato, e guardando il figlio con attenzione.
“Mamma
dice che gemelli vuol dire ugualiugualiuguali,” cinguettò Fred ameno,
riprendendo la sua marcia da equilibrista con una scrollata della testolina
ricciuta. “Lo zio era anche lui senza orecchio, papà?”
insistette con naturalezza, parendogli evidentemente di aver fatto un quesito
del tutto legittimo.
George
sbatté ripetutamente gli occhi prima di passarsi una mano sul lato del
viso, meditabondo, facendo scorrere un dito lungo la brutta cicatrice che
adornava l’attaccatura dei suoi capelli.
“Ma
io le avevo tutt’e due, le orecchie,”
osservò, indulgente. “E anche tuo zio,” puntualizzò
sollevando le spalle.
Più
passava il tempo, più si trovava a prendere atto del fatto che suo
figlio era completamente matto. Aveva una fantasia assolutamente sfrenata e una
maniera di ragionare tutta sua – oltre a un’abilità
straordinariamente sviluppata nel pronunciare sempre le frasi e le domande
più inopportune con un candore disarmante, possibilmente davanti al
maggior numero accessibile di spettatori; ma George era quasi certo che non lo
facesse con la totale innocenza di cui dava mostra. Sì, era proprio un
moccioso folle e intrigante, ma gli era del tutto impossibile non assecondarlo.
Anche Angelina, con l’andare del tempo, aveva dovuto capitolare e
rassegnarsi: George venerava il figlio con un’intensità che gli
impediva di sgridarlo, rimproverarlo, porgli divieti e restrizioni, richiamarlo
all’ordine, frenare le sue iniziative balzane, impedirgli di ottenere
qualunque cosa chiedesse. Se fosse stato per George, il piccolo Fred Weasley
sarebbe probabilmente stato proprietario di un parco giochi personale, di una
piscina in cortile con un Kelpie tutto per sé,
di una bicicletta volante in oro massiccio e della squadra nazionale di Quidditch. E questa era solo una piccola parte delle
assurde richieste che avanzava saltuariamente e che suo padre ogni volta
sembrava prendere seriamente in considerazione per farlo contento.
“E
quando il tuo orecchio se n’è andato, il suo è rimasto?”
George
lo guardò incredulo, prima di ridacchiare del suo strano ragionamento.
“Sì.
Ha valutato attentamente la questione e deciso che gli stava bene di rimanere
attaccato alla sua testa,” rispose con solennità.
Fred
riportò lo sguardo su di lui, accigliandosi lievemente. Oltre a saper
prendere magnificamente per il naso gli interlocutori, era molto bravo a capire
quando l’oggetto delle prese in giro era lui stesso.
“Allora
non eravate ugualiugualiuguali,” ponderò
serio, saltellando sul tetto e ignorando la provocazione. “Come hai perso
l’orecchio, papà?” aggiunse dopo un breve silenzio
meditativo.
George
si schiarì la voce, prendendo fiato e tentando di imbastire una risposta
accessibile senza scendere in particolari truci.
“Un
incidente,” rispose vago, fornendo la spiegazione che aveva già
ripetuto al bambino decine di volte. Fred spalancò la bocca per
ribattere, e in quella perse l’equilibrio, tirò una sonora sederata
sulla lamiera che rimbombò con un gran fracasso e rotolò verso il
bordo del tetto.
“Scendi
di lì, Fred, finirai per farti male,” suggerì blandamente George,
come rendendosi conto solo in quel momento di dove si trovava. Se Angelina
fosse stata presente lo avrebbe assordato a forza di rimproveri, ma Fred sapeva
che il padre gli lasciava fare tutto quel che voleva. All’età di
sei anni aveva già all’attivo, come esito delle loro giornate a
due, tre slogature della caviglia, un tavolo esploso, un polso fratturato e un
servizio di bicchieri in frantumi. Alle proteste esasperate della moglie George
era solito rispondere che anche lui quand’era piccolo ne aveva combinate
di tutti i colori, infilandosi in un’interminabile serie di situazioni
potenzialmente mortali e provocando infiniti incidenti domestici, ma non erano
stati quelli a privare lui di un orecchio e suo fratello della vita.
Sembrava
vivere nella ferma convinzione che suo figlio fosse indistruttibile.
E
Fred, andava detto, era un bambino coriaceo e pareva fatto di spessa carne di
gigante. Era un cosino smilzo, dalla carnagione scura, con ricci quasi neri e
grandi occhi azzurri incastonati in un muso magro e affilato che lo faceva
sembrare uno scricciolino, ma a quattro anni aveva
affrontato la fastidiosa cura del polso senza battere ciglio e quando si era
ustionato col calderone degli esperimenti in negozio aveva a malapena
singhiozzato.
Si
calò giù dalla tettoia con la scioltezza di uno scimpanzé,
saltellando oltre la ringhiera fino a raggiungere il padre.
“Che
incidente?” insistette, guardandolo senza esitazione.
George
storse il naso, ravviandosi meccanicamente i capelli.
“Sono
stato colpito da un incantesimo destinato a qualcun altro,”
spiegò, prendendo tempo.
“E
perché?” continuò suo figlio attento, spalancando gli occhi
con trepidazione.
George
sospirò, stirò le labbra in una smorfia incerta e tornò
verso il dondolo, sedendosi mentre si stropicciava il viso. Fred, solerte, gli
andò appresso stravaccandosi ai suoi piedi, senza smettere di fissarlo.
“Ricordi
quando la mamma ha parlato dell’uomo cattivo, Fred?” iniziò
pensoso.
Il
bambino annuì diligente, appoggiando il mento aguzzo sulle braccia
incrociate a terra. Aveva piegato le ginocchia e sventolava i piedi con
indolenza, attendendo impaziente il seguito.
“Sì.
Voldemort,” rispose pacifico, come se stesse ascoltando una favola.
George
si trattenne per qualche secondo, osservando come suo figlio non risultasse minimamente
preoccupato da quel nome che aveva invece percorso l’infanzia sua e dei
fratelli come un’oscura, terribile minaccia. Per Fred e i bambini come
lui quella parola era un mistero che non li riguardava davvero, qualcosa che
non potevano conoscere e che presto o tardi avrebbero dimenticato. E forse,
dopotutto, era giusto così.
“Io,
gli zii e i nonni combattevamo contro quell’uomo. E’ successo
durante una battaglia,” spiegò, serio.
“Sei
un ferito di guerra!” esclamò Fred con entusiasmo. “Fortissimo!”
George
lo osservò in silenzio, sconcertato dall’euforia dipinta sul viso
del figlio, illuminato da un sorriso ammirato.
“Bè…immagino…sì,”
borbottò, vagamente a disagio.
“Wow!
Sei un eroe!” continuò a cinguettare il bambino, che per l’emozione
s’era rizzato a sedere.
George
trattenne a stento un sorriso, sentendosi quasi sul punto di arrossire. Il suo
pargolo era da sempre il suo più grande ammiratore e pareva vivere nella
convinzione che essere il figlio dell’uomo che aveva creato i Tiri Vispi
fosse mille volte più importante che essere quello del Ministro della Magia,
ma nemmeno quando gli aveva mostrato le scarpe a propulsione volante lo aveva
guardato con tanta adorazione.
“No,
era solo…dovevamo combattere, sai. Era importante,” si
schermì, noncurante.
“Perché?”
“Perché
quell’uomo voleva diventare il capo e diceva brutte cose,”
tagliò corto il padre, sbrigativo. La conversazione si stava facendo
complessa e avrebbe decisamente preferito affrontarla con il sostegno morale e
fattivo di Angelina.
“Quali
cose?” continuò Fred ignorando la sua evidente ritrosia; quando si
metteva in testa qualcosa era impossibile dissuaderlo o distogliere la sua
attenzione, fino a quando lui stesso non si riteneva soddisfatto.
George
sospirò, rassegnato.
“Diceva che le persone non sono tutte uguali e voleva uccidere quelli che non
riteneva abbastanza speciali. Gli importava solo di essere potente e decidere
per gli altri,” borbottò, senza sapere bene come spiegarsi.
“Era
cattivo,” convenne Fred, con un cenno d’intesa piuttosto comico.
“Già,”
confermò George placido.
“Quindi
non hai perso l’orecchio in incidente, papà,” osservò
ancora il piccolo, apparentemente scandalizzato per quell’innocente, semplicistica
bugia che gli era stata rifilata fino ad allora.
“No,”
ammise George con vaghissima colpevolezza. Non gli piaceva mentire a suo
figlio, ma aveva sempre ritenuto che ci sarebbe stato tempo, quando fosse
cresciuto, per raccontargli ogni cosa precisamente.
Fred
era assorto, adesso. Fissava un asse del pavimento con aria grave ed
estremamente concentrata, tormentandosi le dita senza rendersene conto. Si mordicchiò
un labbro prima di tornare a portare gli occhi su di lui.
“Papà,”
iniziò grave e, incredibilmente, titubante. “Allora…nemmeno
lo zio è morto in un incidente, vero?”
George
espirò rumorosamente, con un amaro sorriso quasi di scuse.
“No,”
confermò a voce bassa, guardandosi la mano poggiata in grembo. “Non
è stato un incidente.”
Fred
non aggiunse altro, rimanendo muto e quasi triste a guardare il padre che
fissava il giornale, in terra, senza più sorridere. L’espressione
gioviale e felice che adornava il volto di George in presenza dei suoi figli
adorati aveva lasciato il posto a quella cupa e lontanissima che il bambino gli
aveva veduto in pochissime occasioni. Fred sapeva che il suo papà non
era la persona gioiosa che mostrava di essere. Aveva solo sei anni e non conosceva
nulla di morte, lutti e nostalgia, ma con la sua sensibilità infantile
aveva captato già da tempo che papà, semplicemente, aveva un
dolore sempre con sé. E non si sbagliava, perché la ferita dovuta
alla morte del gemello non si era mai rimarginata, com’era naturale. George
l’aveva semplicemente scostata un po’ di lato, per poter godere dei
suoi figli e della sua famiglia, ma non per questo aveva smesso di avvertire la
mancanza del fratello. Era soltanto che c’erano cose più pregnanti
che richiedevano la sua attenzione, come quel frugoletto pestifero e la sua
adorabile sorellina.
“Papà,”
lo riscosse la voce tremolante del bambino.
George
sollevò lo sguardo dal foglio per scoprire che Fred non era più
seduto a terra, ma si era trascinato sulle ginocchia fino ad arrivare attaccato
a lui. Lo vide slanciarsi verso l’alto con un movimento un po’
goffo e spontaneo e allacciargli le braccia magre e brune al collo,
rifugiandosi nel tepore del suo petto.
“Cosa
c’è?” chiese, ritornando alla realtà.
“Sono
contento,” bofonchiò Fred contro la sua veste, “di chiamarmi
come lui.”
Il
volto di George si aprì in un sorriso luminoso e commosso che
finì per fargli venire gli occhi lucidi, mentre afferrava quel
mucchietto d’ossa e nervi e se lo stringeva contro con impeto. Non rispose,
la gola chiusa dall’emozione, limitandosi ad arruffargli i ricci con
affetto.
Fred
gli si accoccolò contro, tacendo per qualche altro istante. Poi scostò
la testa e tornò a guardarlo in viso, speranzoso.
“Giochiamo
alla lotta con le caccabombe, adesso?” pigolò
entusiasta.
George
Weasley scoppiò a ridere di cuore, prima di spintonarlo facendolo
capitombolare in terra. Poi si alzò e lo seguì ridacchiando,
mentre il bambino lo strattonava per la mano e lo tirava in casa con
impazienza.