32) La pazzia di Ruby
Ferreira.
Sono
incinta, sono fregata
e sono nei guai.
Non posso dire a Mark che
sono incinta, non ora che la band ha firmato per una major, le
ecografie che ho
fatto due giorni prima sono accuratamente nascoste in una borsa e lui
non sa
nemmeno che sono stata in ospedale.
Ho chiesto a Erin di
venirmi a prendere e le ho raccontato tutto, poi sono corsa ad
accettare lo stage
e mi è stato consegnato un biglietto aereo per dopodomani.
Ho pensato mille volte di
dirglielo in questi giorni, ma ogni volta il mio cervello mi ha
proiettato la
sua faccia infelice per la notizia. Da dopo aver firmato con la MCA
dice che i
blink sono la sua priorità e che vuole fare un buon album.
Posso io rovinargli questa
occasione unica?
No, non posso, non me lo
perdonerei mai, per quanto possa fare male
andarmene è l’unica soluzione che mi
rimane.
Spero troverà una ragazza
migliore di me nei prossimi anni, una che sappia dargli
felicità e non
problemi. Non può nascere una famiglia in queste condizioni,
finirebbe come la
mia e non posso permetterlo: non voglio diventare come mia madre.
Quando Mark sarà in sala
di registrazione me ne andrò e gli scriverò un
biglietto per lasciarlo.
Non devo rovinargli in
alcun modo la vita, mi spezza il cuore sapere che lo farò
soffrire come un
cane, ma non posso accollargli questa responsabilità, non
posso essere la
zavorra che lo trattiene a
terra ora che
ha iniziato a volare.
Lui nota che sono strana,
ma non dice nulla, chissà a cosa pensa, chissà
cosa crede che abbia.
Forse trova strano che
ogni tanto lo guardi come per imprimermi nella memoria i suoi
lineamenti o che
mi faccia abbracciare e coccolare senza motivo.
Il fatto è che lasciarlo
mi costerà tantissimo, lo amo come non ho mai amato nessuno
e come non amerò
mai nessuno.
Il destino a volte sa
essere estremamente crudele, me lo dico l’ultima notte che mi
è concesso
guardarlo dormire. È così rilassato, felice,
sembra un bambino.
Un bambino di ventisette
anni, il mio ragazzo, la mia ragione di vita, l’uomo a cui
spezzerò il cuore e
che non saprà mai di avere un figlio da me.
Perché?
Perché proprio ora questa
gravidanza?
Non ne ho idea, so solo
che fa male.
Quando arriva la mattina
dell’ultimo giorno gli preparo la colazione, la facciamo
insieme e arrivato il
momento che lui esca per andare a registrare lo bacio come se non ci
fosse
domani.
Una volta che la porta si
è chiusa alle sue spalle, comincio a piangere
silenziosamente e poi a preparare
le valige.
Porto via con me anche le
ecografie e una foto di noi due insieme, so che la consumerò
in questi anni
senza di lui.
Alle due mia sorella suona
il campanello e io scendo trascinando dietro le mie valigie, lei mi
aiuta a
portare giù le rimanenti e a caricarle in macchina, poi
entriamo.
“Per me sbagli. Mark lo
deve sapere, è anche suo figlio.”
“No, Erin. Lui ora deve
pensare ai blink e alla sua musica, non a me e al bambino che per
errore porto
in grembo.”
Erin quasi inchioda.
“Quel bambino non è un
errore! È il figlio del vostro amore e poi sai perfettamente
che lui non sarà
in grado di concentrarsi sui blink se tu te ne vai! Stai solo scappando
dalle
tue responsabilità."
Io non dico nulla, lei
prosegue verso l’aeroporto, mi lascia
sulla porta delle partenze internazionali, scarichiamo le
valigie e poi
se ne va. È troppo arrabbiata per salutarmi decentemente.
Faccio il check-in e tutte
le operazione necessarie come un automa, solo quando l’aereo
inizia a prendere quota
mi rendo conto di quello che ho fatto. Mark a quest’ora
sarà arrivato a casa e
avrà letto il biglietto.
Non ci crederà, vagherà
per tutte le stanza e poi chiamerà Erin che gli
confermerà tutto.
Dio, che bastarda che
sono!
Lo faccio per il suo bene,
questo è il mantra che mi ripeto mentre l’aereo mi
porta dall’assolata
California alla piovosa Londra.
Lo faccio per il suo bene.
Lo faccio per non caricarlo di
una responsabilità che è troppo per lui.
Lo faccio perché ora deve
pensare ai blink e non a me.
Lo faccio perché sarebbe
egoista da parte mia distoglierlo dalla musica ora che sta avendo i
riconoscimenti che merita.
O forse come dice Erin
sono solo una vigliacca che non sa affrontare le sue
responsabilità, non lo so.
In ogni caso mi addormento
e mi risveglio solo quando una hostess mi avvisa che siamo atterrati a
Londra,
io tolgo il mio bagaglio a mano e scendo dall’aereo: fuori mi
aspetta una notte
piovosa e fredda.
Che tempo di merda!
Infreddolita mi infilo sul
pullman che dall’aereo porta all’aeroporto vero e
proprio e poi attendo che il
nastro trasportatore sputi i miei bagagli.
Li ritiro senza allegria e
li carico su un carrello. Una ragazza madre in una grande
città che non
conosce, questo sono e non mi piace, mi sento insicura e impaurita.
Trascino il mio carrello
fino alla zona di posteggio taxi e ne prendo uno a cui consegno
l’indirizzo
dell’appartamento che mi è stato dato insieme al
biglietto aereo.
L’uomo annuisce e il taxi
inizia a muoversi verso la mia nuova casa che scommetto farà
schifo rispetto
alla vecchia. Non sarà una casa senza Mark.
Il taxi attraversa le
strade di Londra, io non le guardo nemmeno, sono troppo concentrata a non piangere per non
insospettire nessuno.
Fortunatamente arriviamo
presto all’indirizzo – una casetta in un modesto
quartiere di periferia – così
posso scaricare presto tutto e ambientarmi.
In realtà ho solo fame e
sonno, quindi cerco un cinese vicino a me sull’elenco del
telefono e ordino la
cena e poi tiro fuori l’ecografia e la foto e le appoggio su
una credenza.
La fotografia mi fa venire
un nodo alla gola.
Decido di chiamare Erin,
lei risponde subito.
“Ciao Ruby.”
“Ciao, Erin!”
Sento una pausa dall’altra
parte.
“Mark è passato a
cercarti, è distrutto. Ripensaci, ti prego.”
“Lo sai che non posso.”
Chiacchieriamo ancora un
po’, ma è una conversazione piuttosto fredda e
triste, come le strade di Londra
che ho visto.
Chiudo la chiamata quando
suonano alla porta, saluto Erin e le dico che il cinese è
arrivato, in effetti
è così, ritiro la cena e la pago, poi chiudo la
porta.
La porto al tavolo, sono
avvolta da una cappa di tristezza che non mi lascia quasi respirare.
Mangio
svogliatamente il riso alla cantonese e il pollo alle mandorle e penso
che con
Mark avrebbero avuto un sapore migliore.
Tutto con lui è migliore,
persino le giornate di pioggia.
Per scacciare questi
pensieri svuoto le valigie e metto tutto ordinatamente a posto, poi mi
faccio e
mi butto a letto.
Sogno di essere con Mark in un grande prato, con nostro figlio che
gioca
felice, chiamandoci mamma e papà.
Al risveglio mi accorgo
che il cuscino è bagnato dalle mie stesse lacrime che ho
versato senza nemmeno
accorgermene.
Quattro
mesi dopo la mia
vista è uno schifo.
Sono l’assistente di
un’insegnante di arte e i ragazzi sono terribili, soprattutto
perché quando
hanno visto la mia pancia levitare come un pandoro hanno iniziato a
sparlare.
All’ottavo mese è normale
che la mia pancia si veda e la direttrice della scuola mi ha messo in
maternità, così passo i miei giorni a letto e a
mangiare gelato, le cose per il
bambino – sì, sarà un maschio
– sono già pronte da tempo.
Sono comodamente sdraiata
sul divano quando qualcuno si attacca al campanello con violenza, sono
costretta ad alzarmi con movimenti lenti e impacciati data la mia mole.
Apro la porta e quasi crollo
stecchita: sulla porta ci sono Mark e Tom.
Mark non appena vede la
mia pancia si mette a urlare e bestemmiare e si avvicina a me
minaccioso, non
sembra nemmeno il ragazzo che ho lasciato con quella luce folle negli
occhi.
Il mio cuore batte a tremila
ed è a un passo dall’esplodere, Tom ferma Mark
appena in tempo.
Ho paura che mi metta le
mani addosso.
“Hai già trovato un
altro!”
Mi urla, io mi chiedo come
faccia a pensarlo dato che si vede che la mia pancia non è
da quarto mese, ma
da ottavo.
“Non è come pensi!”
Urlo.
“Ah, no? E com’è?”
Urla lui.
“È figlio….”
Qualcosa dentro di me
inizia a fare male e sento del liquido sui miei pantaloni premaman.
“Mi si sono rotte le
acque. Vi prego, aiutatemi.”
“Tom, andiamocene.”
Risponde cinico Mark, io
sono sull’orlo delle lacrime e prego mentalmente Tom di
rimanere.
“Io rimango con Ruby, è
comunque incinta.”
“Fa’ come ti pare!”
Se ne va lasciandomi da
sola con Tom che mi carica nella mia macchinetta presa a noleggio e
seguendo le
mie indicazioni mi porta all’ospedale.
“Cosa stavi dicendo prima
che le acque si rompessero?”
“Che il figlio è di Mark,
Tom.
È suo figlio, suo e di
nessun altro. Me ne sono andata da San Diego non appena ho saputo di
essere
incinta per non intralciare la vostra carriera.”
Urlo, per sovrastare il
dolore delle contrazioni.
“Tom, muoviti o partorisco
qui!”
Lui mi guarda spaventato e
poi accelera, l’ospedale è finalmente in vista e
lui entra nel parcheggio e
molla la macchina davanti all’entrata ed entra.
Ne esce poco dopo con
un’infermiera e un medico che mi aiutano a scendere e mi
portano in una stanza
con un macchinario per monitorare la situazione.
“Signorina, queste sono le
contrazioni del parto. È già dilatata, pare che
suo figlio nascerà un mese in
anticipo.”
Io scoppio a piangere e
i due mi lasciano pietosamente da sola. Non
so per quanto piango, so solo che a un certo punto un mano maschile mi
asciuga
le lacrime: Tom.
“Andrà tutto bene.”
“No, mio figlio sta per
nascere e Mark mi considera una puttana. Avrei dovuto dirgli tutto
subito come
mi aveva detto Erin!”
Lui mi accarezza i
capelli.
“Andrà tutto bene, tu
pensa a partorire e io penserò a portarti Mark.”
“Non mi lasciare! Ti
prego!”
Urlo, vedendo che il
dottore e l’infermiera sono rientrati nella sala.
“Lei chi è?”
“È un mio amico, lo lasci
rimanere per favore.”
Il medico e l’infermiera
annuiscono, poi quest’ultima spinge la barella –
seguita da Tom – verso
un’altra sala.
Lì vedo una donna che mi
viene indicata come l’ostetrica che mi dice come respirare,
il dolore si fa più
forte. Non credevo che partorire un figlio potesse fare così
male e
probabilmente non lo credeva nemmeno Tom perché quando gli
stritolo la mano in
una presa ferrea urla.
Le contrazioni sono un
incubo, diventano sempre più forti e più
ravvicinate, fino a quando la donna
non mi incita a spingere, cosa che faccio con un po’ di
difficoltà, dato il
dolore.
“Spinga, signorina,
spinga! E respiri come le ho insegnato.”
Facile per lei! Non è lei
che prova un dolore atroce!
In ogni caso spingo più
che posso.
“Vedo la testa! Spinga
ancora!”
Spingo ancora e finalmente
ho la sensazione che qualcosa stia uscendo, poco dopo il mio bambino
è tra le
mie braccia: somiglia incredibilmente a Mark.
Tom lo guarda incantato e
gli accarezza piano la testa.
“È uguale a Mark, è indubbiamente
suo figlio!”
“Pensavi che mentissi?”
Gli chiedo con un filo di
voce.
“No, ma Mark potrebbe
pensarlo. Cercherò di convincerlo in ogni modo a venire
qui.”
Io annuisco.
“Grazie Tom, grazie.”
“Prego, per una volta ho
l’occasione di restituire tutto il bene che mi hai fatto non
ho certo
intenzione di lasciar perdere.
E poi… Mark senza di te è
perso, durante le registrazioni ha la testa da un’altra parte
e quando siamo
fuori non fa altro che bere come una spugna.”
Io stringo un po’ di più
mio figlio.
“Mi dispiace, Tom. Non
volevo fare questo casino, pensavo di fare una cosa positiva per la
band.”
Lui mi scompiglia i
capelli.
“Lo so. Lo so che non
faresti mai, deliberatamente, del male a Mark.”
“Ma gliene ho fatto e non
so come rimediare.”
“Gli parlerò io, lo
convincerò a venire qui a vedere il bambino e
capirà.”
“E se non mi volesse?”
Mormoro senza riuscire a
evitare che mi cada qualche lacrima.
“Ti vorrà. Tu sei sua e
lui è tuo e poi ora c’è il piccolino
che vi unisce.”
“Un piccolino che forse
non vedrà mai il suo papà. Come ho fatto a
giocare così con la vita di un
bambino?”
“Capita a tutti di avere
paura e di fare scelte sbagliate credendole giuste. Sei ancora in tempo
a
correggere la rotta.
Ci sono io, ti darò una
mano io.”
“Grazie. Posso chiederti
una cosa?”
“Certo.”
“Come avete fatto a
trovarmi?”
Lui sogghigna.
“Io ho distratto Erin e
Mark ha frugato tra le sue cose fino a che non ha trovato il tuo
indirizzo.”
Io sorrido.
“Ti voglio bene, Tom e amo
ancora Mark.”
“Lo so, è per questo che
tutto tornerà a posto.”
Io sospiro e poi affido
mio figlio nelle mani di un’infermiera che lo
porterà in un’incubatrice.
Spero tanto che Tom abbia
ragione.
Trascorro il resto del
pomeriggio riposando, alle sette arriva Tom e la sua faccia non
promette nulla
di buono.
“Come stai?”
Mi chiede premuroso,
mentre si siede su una sedia, in mano ha un mazzo di margherite.
“Dove posso metterle?”
“Aspetta che chiedo un
bicchiere a un’infermiera.”
Suono il campanello e una
donna si affaccia poco dopo alla porta.
“Scusi, non volevo
disturbarla, ma potrebbe portarmi un bicchiere per queste?”
Le mostro le margherite e
lei annuisce.
Poco dopo arriva con il
bicchiere e guarda curiosa Tom.
“È il padre del bambino?”
“No, sono lo zio.”
“Complimenti, è un bambino
bellissimo.”
“Grazie mille.”
La donna ci lascia di
nuovo da soli.
“Così sono zio di un
bambino figo come il padre.”
Io sorrido malinconica.
“Sì, un padre che non lo
conoscerà mai.”
Tom mi prende una mano.
“Abbi fede, lo conoscerà.”
Io guardo fuori dalla
finestra.
“Come mai non è qui?”
Lui sospira.
“Ho provato a parlargli,
ma era troppo ubriaco per capire qualcosa. Ci riproverò
domani, sarà sobrio e
vorrà ascoltarmi.”
Io annuisco, ma sento che
questa volta non mi andrà bene nulla. Questa volta ho
esagerato e pagherò i
miei errori, perdendo Mark.
“Non avere paura, Ruby.”
Io scoppio a piangere
disperatamente, Tom mi guarda costernato.
“No, Ruby non reagire
così, ti prego!
Ce la farai a riavere
Mark, hai agito in modo sbagliato, ma se gli spieghi le tue motivazioni
capirà,
ne sono certo!”
“Io invece sento che
questa volta l’ho fatta troppo grossa per essere perdonata da
lui!”
Dico tra i singhiozzi, lui
non sa cosa fare. È sempre stato a disagio davanti alle
ragazze che piangono,
me lo ricordo.
Con lentezza mi abbraccia
e io mi lascio andare, mi sento debole, stanca e fragile come non mi
sono mai
sentita.
“Cerca di riposare e di
stare calma.”
Mi dice prima di
andarsene, io
annuisco: ho la testa che
mi scoppia.
Mi stendo e vengo assalita
da tanti – troppi – ricordi.
La prima volta che l’ho
visto lo odiavo e odiavo mia sorella, lui mi ha aiutato a recuperare il
rapporto con lei e piano piano mi sono innamorata di lui. Era
l’unico che
continuava a rimanere nonostante tutti i miei patetici tentativi di
cacciarlo,
in realtà avevo bisogno di lui e non lo volevo ammettere.
È stato un grande giorno
quello in cui l’ho ammesso, mi ha aperto le porte della
felicità e io, come una
stupida, le ho richiuse.
Ho lasciato che tutte le
mie paura avessero la meglio su di me e ho buttato via la cosa
più preziosa
della mia vita, la migliore, quella che mi ha salvato la vita.
Ho preso una decisione
egoista credendo fosse la migliore e adesso io e mio figlio ne paghiamo
le
conseguenze, non
sono sicura che Mark mi
rivoglia rivedere e nemmeno che mi creda.
Adesso è tutto nelle mani
di Tom e ho una paura fottuta che non bastino i tentativi del suo
migliore
amico per riportarlo da me.
Avrei dovuto dare retta a
Erin e dirgli tutto sin dall’inizio, non tenerlo fuori solo
per paura, sono io
che ho sbagliato e prego perché lui decida che anche questa
volta vale la pena
stare con me e non lasciarmi del tutto.
Ho delle fitte al cuore
nell’immaginarmi la mia vita senza Mark, adesso mi rendo di
quanto abbia agito
sventatamente.
Oh, che casino ho
combinato!
Mi metto le mani davanti
al volto e ricomincio a piangere, anche se questo aumenta il mio feroce
mal di
testa.
Non so quanto piango so
solo che a un certo punto in reparto si crea una certa agitazione, le
infermiere corrono e sussurrano tra di loro che
c’è un matto che vuole
assolutamente entrare nonostante non sia orario di visite.
Io le guardo un po’
spenta, mi rianimo solo quando sento una certa voce urlare a pieni
polmoni.
“Voglio vederla, è una
stronza, ma mi devo accertare che stia bene!”
Il mio cuore salta un
battito al suono di quella voce.
“Signore, non può! Non è
orario di visita!
Torni indietro,
fermatelo!”
Urla la caporeparto alle
infermiere, Mark però è già sulla
soglia della mia camera e mi sta guardando
negli occhi. Per me il mondo cessa di esistere e ci sono solo i suoi
occhi e le
loro sfumature di azzurro.
“Lasciatelo, entrare.”
Dico con un filo di voce.
“Vi prego, lasciatelo
entrare!”
La caporeparto scocca
un’occhiataccia prima a Mark e poi a me, capelli azzurri
invece dal canto suo
acchiappa una sedia e ci si siede sopra continuando a guardarmi.
Nei suoi occhi c’è troppa
sofferenza e so che è tutta colpa mia, non posso perdonarmi,
ma posso provare a
spiegargli tutto.
Il nostro dialogo muto
continua, questa è la mia occasione di spiegargli tutto e
non me la lascerò
scappare.
Forza, Ruby!