Solo Mario
Mario
Rossi si sente un luogo
comune vivente da quando è grande abbastanza da sapere
cos’è un luogo comune.
Mario
Rossi fa il camionista,
e come tutti i camionisti, almeno quelli dei film, che sono gli unici
che
conosce, dorme
nell’abitacolo del suo
bestione durante una consegna lunga.
Come
tutti i camionisti vive
di panini degli autogrill, di caffè annacquati dei bar lungo
le strade
sterrate, di sigarette fuori dal finestrino.
Come
tutti i camionisti,
prima di addormentarsi, contempla le giunoniche figure della bellona di
turno
sul calendario “nudo-artistico”.
Quando
incontra un collega,
mentre guidano si fanno un cenno con la mano, se sono a piedi grandi
pacche
sulle spalle, ma non si parlano mai.
Tutti
gli altri camionisti
pensano che Mario Rossi sia un cliché su due gambe.
Mario
Rossi pensa che tutti
gli altri camionisti siano cliché su due gambe, e spera che
vedano così anche
lui.
Perché
Mario Rossi sa di non
essere un luogo comune vivente, nonostante il nome.
Mario
Rossi fa il camionista
perché gli piace guidare un mezzo tanto potente da rombare e
far tremare le
pompe di benzina.
Mario
Rossi mangia i panini
dell’autogrill perchè gli piacciono, e beve il
caffè annacquato perchè le
signore che glielo servono nelle osteriacce di provincia sono sempre
alla mano,
allegre e ridanciane, e dopo un po’ sul camion ci si sente
soli.
Prima
di addormentarsi
contempla le forme nude delle pin-up con occhio puramente artistico,
come si
può contemplare un Botticelli, o un Caravaggio.
Perché
Mario Rossi è gay.
E
ha paura.
Fin
da quando era bambino,
pensava che non fosse difficile per lui passare inosservato, non creare
scalpore, soprattutto con un nome simile. Sperava di potersi mescolare
alla
folla.
Certo,
non che Mario Rossi
sapesse di essere gay fin da quando era bambino. Era solo molto timido.
Quanto
stupore, quanto
sgomento quindi quando si rese conto che quel nome che sembrava una
promessa di
invisibilità era in realtà fonte di infiniti
scherzi, di quello scherno lucido
e doloroso che solo i bambini hanno.
Perchè
solo i bambini
riescono, senza remore, senza freni, a colpire là dove fanno
più male.
E
a Mario Rossi faceva male
tutto.
Ripensandoci,
gli sembra di
aver passato i primi anni della sua vita in un costante stato di
indolenzimento
emotivo.
Veniva
invitato alle feste di
compleanno, ma non aveva mai il coraggio di andarci. Anzi, non aveva
nemmeno il
coraggio di andare dai suoi genitori a dir loro dell’invito.
Mario Rossi non
apriva mai bocca per primo.
Ma
era un bravo bambino,
diligente e ordinato, con ottimi voti, quindi i genitori non potevano
neanche
immaginare che ci fosse un problema.
Franca
e
Francesco-detto-Franco, i genitori.
A
volte Mario Rossi si
sentiva vittima di una serie di contingenze crudeli volte tutte a
fornire agli
altri motivi di prenderlo in giro.
Franca
e Franco.
Ancora
adesso, se ci ripensa,
gli sale il nervoso, e ha cinquantasette anni, e i suoi genitori sono
morti da
un po’.
Che
poi, lo sa, non ha alcun
senso arrabbiarsi per i nomi dei suoi genitori, non dipendevano certo
da loro.
Ma
il suo sì.
Mario
Rossi avrebbe dato
qualsiasi cosa per chiamarsi Simone, o Davide, o Giovanni. A volte
pensava che
avrebbe preferito anche Garibaldo, o Leoncavallo.
Qualsiasi
cosa, ma non Mario,
non quel Mario Rossi delle barzellette.
Mario
oggi non ha consegne da
fare, ma non ha nemmeno un posto in cui tornare, quindi guida, guida
fino ad
essere troppo stanco per andare avanti, e poi vedrà.
Non
ha mai avuto amici veri, solo
qualche amici finto, conveniente, con cui scambiare due parole e
qualche
battuta in allegria.
Mario
non ha mai avuto una
fidanzata, o un fidanzato, ed è vergine sia fisicamente sia
emotivamente. Non
si è mai innamorato, perché non ha mai conosciuto
nessuno al punto di
innamorarsene.
Guarda
ogni tanto qualche
film romantico, come se potesse trarne delle regole generali; come ci
si
comporta quando si è innamorati? Tiene un quadernone su cui
annota quelle che
gli sono sembrate finora le idee più interessanti, per
poterle imitare in caso
gli si presenti l’occasione.
Sta
pensando a questo, a come
sarà bravo a conquistare l’uomo della sua vita con
battute ed idee dei film,
quando vede un ragazzo lungo la strada.
Fa
l’autostop, impolverato e
bruciato dal sole che picchia forte, oggi, sulla stradella sterrata.
Il
cartello che il ragazzo
tiene tra le mani legge ‘Roma’.
E’
lontana, almeno cinque ore
di viaggio, se va a prendere l’autostrada.
Fa
caldo, magari il ragazzo
vorrà chiacchierare, e lui non sa parlare con la gente.
Meglio
non fermarsi.
Ma
si è già fermato, e il
ragazzo è già salito.
Avrà
vent’anni, barba
incolta, capelli lunghi e arruffati, un enorme zaino sulle spalle.
E’
sporco, ha i vestiti
laceri e un odore nient’affatto gradevole.
Ma
è proprio quell’odore,
caldo, maschio, salato, che colpisce Mario come un pugno nello stomaco.
Non
si sono presentati, il
ragazzo non apre bocca.
E
Mario si trova
improvvisamente con la curiosità insopprimibile di sentire
la sua voce.
“Allora,
come mai vai a
Roma?”
Nessuna
risposta.
-E’
meglio arrendersi, Mario,
sai quanto ti dà fastidio quando la gente cerca di fare
conversazione anche
quando non vuoi. E non vuoi quasi mai.
“Come
ti chiami?”
Ancora
silenzio.
Adesso
Mario si irrita.
Una
cosa è la timidezza,
un’altra la maleducazione!
Basta,
lascia perdere.
L’ora
successiva Mario la
passa in compagnia dei propri pensieri, nel silenzio rombante
dell’abitacolo di
un camion. In fondo era quello che voleva, che
l’autostoppista non gli desse
noia.
Comincia
a canticchiare
sottovoce ‘Vacanze Romane’, ed è allora
che, per la prima volta da quando è
salito, il giovane si gira verso di lui e lo guarda con occhi severi,
inquisitori.
E
Mario non si è mai sentito
così inadeguato, con la sua canottiera bianca e unta tesa
sullo stomaco
prominente, la barba trascurata e probabilmente i denti sporchi.
Si
accende una sigaretta, e solo
dopo chiede al suo passeggero se gli dà fastidio. Come
prevedibile, il
passeggero non risponde. Ma lo sta ancora fissando, sempre
più torvo.
“Il
fumo uccide”
Ecco,
la sua voce.
E’
roca, graffiante,
trasandata come il suo aspetto.
“La
vita uccide”
“Bella
filosofia del cazzo.”
Ed
è di nuovo silenzio.
Lungo,
opprimente.
Mario
alza il finestrino, ha
finito la sua sigaretta.
Gira
con nonchalance lo
sguardo, e il suo autostoppista lo sta ancora fissando.
“Come
ti chiami?”
“...”
“E
dai, dimmelo, cosa ti costa?
Muto non sei, mi hai appena rimproverato perché
fumo!”
“...Lorenzo”.
“Piacere,
Lorenzo, io sono
Mario.”
La
sua mano tesa e il suo
sorriso storto cadono nel vuoto.
Lorenzo
lo sta ancora
fissando, ora con più curiosità che rimprovero.
Come
si guarda un animale
potenzialmente pericoloso.
A
Mario imbarazzano quegli
occhi scurissimi puntati addosso, perchè gli fanno venire
pensieri che non
aveva mai nutrito prima. Risvegliano in lui voglie sopite da tanto a
lungo che
credeva fossero morte.
Si
ritrova a desiderare che
quel viaggio duri il più a lungo possibile, esce
dall’autostrada, tergiversa
per strade secondarie.
Lorenzo
finalmente distoglie
lo sguardo da lui, lo fissa sulla strada.
“Cazzo
fai? Perché sei uscito
dall’autostrada?”
“Ehi,
giovanotto, basta parolacce.”
“Chi
sei, mio padre? Che
cazzo, perché facciamo queste stradine di merda?
Così la allunghi e basta!”
“Non
sono tuo padre, ma ora
la pianti di dire schifezze, a me non piacciono. E comunque so quello
che
faccio, è una scorciatoia, non una ‘stradina di
merda’”.
Forse
lo preferiva quando
stava zitto.
No,
non è vero.
Quella
voce roca, quelle
parole volgari gli stanno facendo affluire il sangue in zone in cui
mancava da
tanto, forse troppo tempo.
“...Vaffanculo.”
Sì,
quel ragazzino gli piace.
Mario
aumenta l’aria
condizionata.
All’improvviso
Lorenzo
diventa un fiume in piena.
Un
inarrestabile flusso di
oscenità e innocenza infantile, che Mario non sa e non vuole
fermare.
Passano
almeno dieci minuti
prima che Mario colga una pausa nel soliloquio del suo passeggero.
“Scusa,
dicevi?”
“Ho
detto che hai proprio un
bel bestione...Mario, hai detto?”
Mario
sussulta.
Istintivamente
guarda il
cavallo dei suoi pantaloni, prima di capire che Lorenzo sta parlando
del suo
camion.
Perché
sta parlando del suo
camion, vero?
“Sì,
ho detto Mario. Ma il
mio bestione –dà qualche affettuosa pacca alla
portiera- si chiama Elsa.”
“Gli
hai dato un nome
femminile?” Lorenzo ora ha la voce un po’
strozzata, come se stesse trattenendo
a fatica una risata.
“Sì,
è la mia ragazzona...”
“Ah,
ok, parli del camion,
amico. Io parlavo del tuo cazzo. E’ proprio un bel
bestione.”
Mario
è bianco come un
lenzuolo, e ha sbandato pericolosamente.
Ma
il suo “bestione”, non
domo, non scoraggiato, è sempre più interessato.
“Oh,
piantala, stai un po’
zitto. E non dire parolacce.”
“Ma
io non ho detto
parolacce! Senti, ho una fame troia, ci fermiamo da qualche
parte?”
“Sì,
certo. E’ pieno di
ristoranti, nel bel mezzo del nulla.”
“Ehi,
non è il caso di
rispondere così! Ti sei offeso per quella storia del
bestione? Ma scusa, è
vero, e poi al massimo era un complimento! Non occorre un ristorante,
mi basta
una qualsiasi osteriaccia in cui mangiare un boccone!”
“Vabbè,
la prima che vedo mi
fermo, d’accordo. ...com’è che
all’improvviso sei così loquace? Prima non ti
strappavo una parola di bocca...”
“Mi
stai simpatico. Perchè
sei un po’ strabico, e gli strabici mi stanno simpatici. E
così, fai il
camionista?”
“No,
sono miliardario. Questa
è solo una delle mie macchine, per quando sono
dell’umore di qualcosa di
stravagante.”
“Davvero?
...sei ricco,
allora...”
Mario
è sconvolto e
intenerito dall’ingenuità di Lorenzo.
“Visto
che sei ricco, quanto
mi dai se ti lascio mettermelo in bocca? ...In culo no, che credo
faccia un
male boia...”
Mario
si convince che Lorenzo
non sia ingenuo proprio per niente.
“Ma
che accidenti dici?!”
“Ah,
non fa male? Boh, non
so, non mi sento pronto, capisci...”
Mario
si gira di scatto, per
sgridarlo, e vede che Lorenzo sta ridacchiando.
E’
la prima volta che lo vede
sorridere, e diventa proprio bello, anche se ha i denti storti e
sporchi.
“Quanti
soldi hai? ...Per
mangiare, intendo!”
“Cosa?
Ti devo anche offrire
il pranzo, oltre che un passaggio?”
“Credi
che se avessi tanti
soldi in tasca ti avrei fatto quell’offerta? ...che, a
proposito, non era mica
tanto uno scherzo, tu pensaci...”
Mario
è assolutamente basito.
“Da
quanto è che non mangi?”
”No, tranquillo, ho mangiato ieri. C’era un
cassonetto pienissimo...scherzo,
scherzo! Non fare quella faccia schifata, cazzo! Ho finito ieri i soldi
che
avevo...preso...prima di partire, e li ho finiti mangiando un cazzo di
panino
che sapeva di culo.”
“...Non
ce la fai proprio a
non riempire di parolacce ogni frase, vero?”
“Ma
tu non sei un vero
camionista, cazzo! I camionisti parlano in dialetto, dicono le
parolacce, e non
sono così fottutamente perfettini. Tu sembri solo un
camionista. Magari sei
davvero un miliardario...Senti, per cinquecentomila euro ti lascio
anche farmi
il culo, ok?”
“Ma
la pianti di scherzare
così? Non mi diverte. La prostituzione non è
qualcosa su cui scherzare.”
“’Fanculo,
se non ci scherzo
su, alle cose brutte del mondo, come faccio a sopravvivere? E comunque,
scherzavo solo fino a un certo punto. Cinquecentomila e mi faccio una
vita a
Roma.”
“Se
credi che bastino
cinquecentomila sei un illuso.”
“Dai,
per cominciare...poi mi
trovo un lavoro, o continuo a dar via il culo. Anche se dopo la prima
volta
forse non mi pagherebbero così tanto.”
“Ma
ti rendi conto?! Tu
svenderesti la tua prima volta per cinquecentomila euro. Vale molto di
più di
così, e dovrebbe essere con un uomo che ami...”
“Chi
cazzo ha detto che
voglio un uomo? Chi cazzo ha detto che mi potrei innamorare di un uomo?
Guarda
che io sono già stato con delle donne, e voglio stare con
altre donne, non con
gli uomini!”
“Scusa,
non ti arrabbiare, è
che mi hai fatto delle proposte che è difficile
equivocare...”
“Vaffanculo,
va’! Adesso mi
hai fatto incazzare. Sei tu che vuoi innamorarti di un uomo, io no di
certo!
Fottiti, va’!”
Mario
arrossisce, non
risponde, guarda la strada.
Si
sente sempre più a
disagio, il cuore gli martella nelle orecchie, suda a fiumi.
“Oh,
non dirmi che ci ho
preso! Beh, dai, non c’è niente di male, scusa se
ti ho offeso...Quindi ti
piacerebbe farmi il culo! Dimmi, ti sei mai scopato un
vergine?”
Mario
sta sempre peggio, gli
gira la testa, ha un po’ di nausea.
Perchè
vorrebbe baciare
Lorenzo.
Anche
solo per farlo stare
zitto.
“Come
mai fai il camionista?”
“Perché...a
essere onesto, io
non volevo fare il camionista. Io volevo fare il violinista. Ero bravo,
sai,
quando ero da solo nella mia stanza. Ma poi arrivavo in aula al
conservatorio,
e mi bloccavo, perché il maestro mi guardava. Poi hanno
scoperto che sono gay,
e mi hanno cacciato definitivamente.”
“Ma
che cazzo dici, non hai
le mani da violinista. E poi non succede più che i gay
vengano discriminati
così, non siamo mica nell’Ottocento!”
“Guarda
che non occorre
essere nell’Ottocento, basta il 1966.”
“Vaffanculo, tu neanche eri nato, nel ’66! Mi stai
prendendo per il culo, e non
mi piace.”
“Certo che ero nato, nel ’66! Quanti anni credi che
abbia?”
“Avrai
al massimo 35 anni,
su.”
“Ragazzino,
non sei proprio
capace di dare l’età a una persona”.
Mario
si sente
incredibilmente lusingato.
Non
sarà certo lui a
disilludere Lorenzo.
Forse
vorrà baciare un
trentacinquenne.
Non
gli è mai piaciuto
qualcuno tanto quanto gli piace questo ragazzo sboccato e impertinente,
per
quanto sia diametralmente opposto da tutto quello che lui credeva di
apprezzare
in un uomo.
“Vabbè,
non hai potuto fare
il violinista. Ma potevi fare milioni di altre cose, perchè
proprio guidare un
camion?”
“...Perché
mi piace il rumore
che fa, mi piace la sua potenza...”
“Cos’é,
compensazione?”
“In
che senso, scusa?”
“Vabbè,
lascia stare. Dai, ci
fermiamo a mettere qualcosa sotto i denti? Cazzo, sto morendo di fame!
Sei tu
che ci hai cacciato in questo buco di culo di posto, se non troviamo
niente
torniamo sull’autostrada!”
“No,
vedrai che qualche
osteria la troviamo, sta tranquillo. Qualche bettola in cui facciano un
panino
si trova ovunque.”
“Sicuro?
Guarda che sono le
tre di pomeriggio, sicuro che mi facciano da mangiare anche a
quest’ora?”
“Guarda
che un panino te lo
fanno a qualsiasi ora.”
“Ah,
ok.”
Cala
di nuovo il silenzio.
E
questa volta è un silenzio
rilassato, fresco, e non solo perchè l’aria
condizionata sta raggiungendo
temperature polari.
Nessuno
dei due sente il
bisogno di interromperlo con casuali amenità.
Mario
vede l’insegna di una
trattoria, la stessa in cui si ferma ogni volta che capita da quelle
parti, e
sa che Rita e Gianni non gli rifiuteranno un panino.
“Ecco,
guarda, adesso ci
fermiamo qui e mangi qualcosa”
“Oh,
cazzo, era ora!”
“Per
favore, conosco queste
persone, sono quasi miei amici, e sono rispettabilissimi. Quindi
apprezzerei
molto se tu potessi, solo per mezz’oretta, evitare le
parolacce. Se sei
capace.”
“Ok,
ok, capo. Come vuoi.
Cosa credi, guarda che io sono perfettamente in grado di portare avanti
una
conversazione! Ho un diploma di liceo classico, pezzo di stronzone.
Sono molto
più intelligente e colto di te, che ti atteggi tanto ma in
realtà vali meno
della merda che ho pestato ieri!”
Mario
è un po’ ferito, ma per
la prima volta nella sua vita ha voglia di contraccambiare, non di
sparire in
una buca.
“Stai
tranquillo,
mocciosetto, il tuo odore copre perfettamente quello della merda sotto
la tua
scarpa. E giusto perchè tu lo sappia, io sono laureato,
quindi se vogliamo fare
la gara a chi è più colto, vinco io.”
“Cazzo!
E cosa ci fa un
laureato aspirante violinista alla guida di un camion? Amico mio, tu
hai proprio
buttato nel cesso la tua vita.”
“Ti
ho già detto perchè guido
il camion. Ora, tappati quella bocca diabolica, che entriamo.”
Rita
e Gianni sono, come
sempre, dietro al bancone, e, come sempre, giocano a briscola.
Mario
prova un istintivo moto
di affetto nel vederli, e si rende conto in un momento di bruciante e
dolorosa
chiarezza che sono quanto di più vicino abbia a degli amici
al mondo.
Per
lo meno, sa con certezza
che se lo vedessero per strada lo saluterebbero.
“Cazzo,
che brutti. Ma tutti
i tuoi amici sono così brutti? Cosa sei, nel gruppo di
supporto ‘sono un cesso
e non me ne vergogno’?”
Lorenzo
lo sussurra appena,
ma questo non impedisce a Mario di essere colto
dall’irrazionale paura che Rita
e Gianni l’abbiano sentito.
I
due locandieri alzano la
testa, ma il sorriso che Rita gli rivolge è genuino, e Mario
tira un sospiro di
sollievo.
“Ciao,
Mariolone!”
“Ciao,
Rita. Gianni.”
“Cosa
ti porta da queste
parti?”
“Sto
dando un passaggio a
questo piccolo delinquente, speravo che mi potessi fare un
panino.”
“Certo,
tesoro. Il solito?”
“Oh, non è per me. E’ per lui.”
“Ah,
capisco. Allora, dimmi,
bambino, con cosa te lo faccio?”
“Qualsiasi
cosa lei abbia in
dispensa mi va bene, signora.”
Mario
è sconcertato dal tono
rispettoso e deferente del suo piccolo autostoppista.
“Oh,
ma tesoro, questa è
un’osteria, ho praticamente tutto quello che potresti mettere
in un panino.
Però, se ti va bene, Gianni ha appena portato un
po’ di salame da Varzi. Ti va
bene?”
“Certo,
signora. Poi, sono
talmente affamato che mangerei qualsiasi cosa.”
Rita, piccola e rotonda, schizza in cucina come una pallina del flipper.
“Allora,
Marione, come si
chiama il tuo passeggero?”
“Mi
chiamo Lorenzo, signore.”
“Beh,
ti prego, Lorenzo,
chiamami Gianni.”
“Va
bene, Gianni. Non per
essere irrispettoso, ma potrebbe chiedere alla sua signora di fare in
fretta?”
Gianni
scoppia in una risata
sonora, e Mario sorride con lui.
“Rita,
mia signora,
hai sentito il giovanotto? Datti una mossa, con quel panino!”
“Sì,
sì, calmati, arrivo
subito.”
Mario
si è accorto che
Lorenzo li sta ancora fissando incuriosito e stupito dalla risata
roboante
dell’oste e dal suo sorriso.
Non
è riuscito a trattenersi;
da quando li ha conosciuti, ha sempre creduto che fosse impossibile per
chiunque non accorgersi della parentela tra Gianni e Rita.
Sono
quasi alti uguali,
entrambi molto rotondi, con la stessa fronte bassa, gli occhi piccoli e
il naso
schiacciato.
La
prima volta che li ha
visti ha subito capito che erano fratello e sorella, e si stupisce del
fatto
che Lorenzo, con tutte le sue affettazioni da uomo di mondo, non se ne
sia reso
conto.
Ma
il bruciore dei commenti
saputelli di poco prima non si è ancora del tutto estinto,
quindi decide di non
correggere subito il suo errore, di farsi una risata alle sue spalle.
Anche se
non sa se ne sarà in grado.
Rita
ritorna con il panino,
che è enorme e profumato come sapeva che sarebbe stato.
Lorenzo
lo fissa come un
bambino fissa il giocattolo che da tanto voleva ricevere per natale, ma
che non
ha il coraggio di chiedere.
Lo
morde con voluttà, a occhi
chiusi, masticando piano, e cala uno strano silenzio, quasi rispettoso
dell’incontro tra l’uomo e il cibo.
“Cavolo,
è buonissimo! Hai
visto, Mario, che bravo, non ho neanche detto cazzo!”
Ha
la bocca ancora piena, le
labbra unte, negli occhi la primordiale gioia di chi vede soddisfatto
un suo
bisogno primario.
Gianni
e Rita sorridono,
indulgenti, e l’uomo versa due grandi bicchieri di vino rosso
forte e carico.
“Grazie,
Gianni, ma non
posso, devo guidare, è il mio lavoro, lo sai...”
“Marione,
chi ti ha detto che
uno è per te? Sono uno per il ragazzo e uno per
me.”
“Ah.
Rita, intanto, quanto ti
devo per il panino e il vino? Non ho molto tempo a disposizione, questo
piccoletto mi trascina fino a Roma.”
Lorenzo
bofonchia qualcosa attorno
al boccone, senza dubbio qualcosa di volgare e irriverente,
perchè in questo
momento è regredito a uno stato animalesco che fa quasi
tenerezza a tutti e tre
gli adulti.
“Mamma
mia, questo era il
panino più buono che avessi mai mangiato. Posso fermarmi a
vivere con voi,
signora?”
Rita
ridacchia, annuisce,
arrossisce lievemente sotto quello sguardo scuro, troppo scuro, e
troppo
bambino.
“Per
me, tesoro, puoi
restare, ma Mario qui mi diceva che state andando a Roma.”
“Ah,
già, Roma. Vabbè. Però
tornerò, signora, e se suo marito mi vorrà
offrire ancora un bicchiere di vino
rosso, di sicuro non rifiuterò.”
Ora
tutti e tre scoppiano a
ridere, e Lorenzo crede che sia la sua cortesia esagerata a far ridere,
e si
sente bene, ed è chiaro a tutti, e Mario non ha il cuore di
dirgli la verità,
che stanno ridendo di lui, non per lui, e lo lascia sorridere
soddisfatto, e
pensa che è troppo vecchio per voler fare cose indecenti a
un ragazzino, e che
Lorenzo è troppo giovane per girare da solo per
l’Italia, e si chiede perché,
che cosa vuole fare a Roma, e, Dio, vorrebbe baciarlo, e....
Tutti
e tre ora lo guardano
con un’espressione strana, ansiosa e sospettosa al tempo
stesso.
“Mario,
tutto bene?”
E’
la voce premurosa e un po’
preoccupata di Rita a scuoterlo del tutto.
“Sì,
non ti angustiare. Sto
bene, mi sono solo perso un attimo nei miei pensieri.”
“Beh,
non vorrei essere
maleducato, e vi sarò grati PER SEMPRE, signori, ma penso
davvero che dovremmo
partire, se no a Roma quando cazzo ci arrivo?”
Mario sorride, un sorriso privato, non diretto a nessuno.
Ma
deve ammettere che un po’
gli mancava, sentire quella voce trasandata graffiare parolacce e
grattare
oscenità.
“Beh,
sì. Come ha detto il
Piccolo Lord, dobbiamo davvero rimetterci in viaggio. Grazie di tutto,
Rita, Gianni.
Ci vediamo presto, ok?”
“Si,
grazie, signori, Mi
avete salvato la vita, letteralmente.”
I
due ridacchiano ancora, non
capitano molti giovani nella loro osteria.
Mario
esce, si avvia al
camion, sale, accende una sigaretta.
Lorenzo
entra dalla parte del
passeggero, si china e fruga un po’ nel suo zaino.
Ne
estrae un pacchetto di
Pall Mall accartocciato e mezzo vuoto, se ne accende una ed espira il
fumo con
un sospiro appagato.
“Tu,
piccolo...ipocrita! Mi
hai rimproverato perchè fumavo, prima, e ora...ma guarda un
po’, piccolo
impudente!”
Lorenzo
lo interrompe con una
risatina soffiata.
“Volevo
prenderti un po’ per
il culo, vedere di che pasta eri fatto. Dai, non è mica
così grave.”
Il
vino era davvero forte, e
Lorenzo si sta già abbioccando contro la portiera, con la
sigaretta ancora tra
le dita.
Mario
sente ora qualcosa di
completamente diverso, di quasi paterno, viscerale e potente, il
desiderio di
proteggere l’innocenza che Lorenzo fa di tutto per
nascondere, e che emerge
prepotente ora che la testa gli ciondola e le palpebre gli si chiudono.
Rinuncia
a lottare, butta via
la sigaretta, si accomoda sul sedile e chiude gli occhi.
“Svegliami
quando siamo a
dieci minuti da Roma, così ho tempo di salutarti e
ringraziarti come si deve.”
“Va
bene, ragazzino. Ora
dormi, che ti si chiudono gli occhi.”
Mario
ora non vede l’ora di
arrivare a Roma, di non avere più a bordo
quell’irritante ragazzetto, i suoi
vestiti luridi, la sua puzza di sudore e piscio, i suoi capelli
arruffati e
unti...e, Dio, tutta la sua presenza, così
inequivocabilmente maschia, e
giovane, e attraente nonostante tutto.
Rientra
in autostrada, non c’è
traffico.
In
un paio d’ore sono già a Orte.
Tra
non molto arriveranno,
Mario aspetta con ansia il momento esatto in cui svegliare il ragazzino.
Ora?
...no, ancora un po’.
Ora?
...no, no.
Ora?
Si, basta, ora lo
sveglio.
Lo
scuote leggermente per la
spalla sinistra, e lascia che la sua mano si posi sul braccio del
giovane,
assorbendo il suo calore e la sua giovinezza.
“Lorenzo, siamo a cinque minuti da Roma.”
“Ah,
di già? Cazzo, mi sembra
di aver dormito dieci minuti.”
La
sua voce, impastata dal
sonno, è ancora più ruvida, e va
drittà al cervello di Mario.
“Aspetta,
non mi hai detto
dove vuoi che ti lasci. ‘Roma’ è un
po’ vago...”
“Lasciami
in stazione, da lì
un posto dove andare lo trovo. Ho un paio di amici che forse mi
ospitano per
qualche notte...”
“Va
bene, allora, tra una
ventina di minuti siamo in stazione. Aspetta, Termini o
Tiburtina?”
“Termini,
grazie, la
Tiburtina mi fa paura.”
Nonostante
la voce roca e
gutturale, sembra incredibilmente giovane e piccolo.
“Prima
di entrare a Roma,
accosta un attimo dove vuoi, così ti ringrazio.”
“Certo,
va bene.”
Accosta
alla prima area di
sosta che vede.
Il
sole, rosso come un’arancia
di Sicilia, ha quasi finito la sua discesa verso l’orizzonte.
“Non
capisco che cazzo ci
trova di romantico la gente nei tramonti. E’ come la morte,
capisci? E’ come se
il sole ogni sera morisse, per risorgere il giorno dopo, e tutti
lì a dire ‘Che
bello’, a fare ‘Ooooh’ e a
sbaciucchiarsi. Che cazzata. Come una farfalla.
Quando la farfalla muore, muore anche il sole. Solo che poi risorge, e
deve
declinare e morire di nuovo. Come una specie di fottuto Prometeo, solo
senz’aquila.”
E’
nervoso, Lorenzo, e
cinico, e amaro, molto di più di quanto dovrebbe esserlo un
ventenne.
“Forse
è proprio per questo
che alla gente piace, ragazzino. E’ triste, decadente, ci
ricorda la nostra
mortalità, eppure ci dà la speranza che ci sia
qualcosa d’altro, perchè non
importa se sarà morto per tutta la notte, sorgerà
di nuovo il giorno dopo. Ci
fa sperare che anche la nostra notte, la nostra morte, non
sarà per sempre.”
“Cazzo,
sei religioso?”
“No, no, non lo sono. Penso che Dio non esista, o che, se
esiste, sia molto
menefreghista, o molto cattivo. Perché se ci avesse avuto
davvero a cuore, non
avrebbe lasciato che succedessero tante cose brutte.”
“Vabbè,
non voglio
impelagarmi in una diatriba teologica con te, tanto più che
in linea generale
sono d’accordo con te. Ma non è per questo che ti
ho fatto fermare, e poi tutte
queste stronzate metafisiche mi fanno girare la testa quando sono
appena
sveglio. Ora vorrei che spegnessi il motore e ti slacciassi la cintura
di
sicurezza, per favore.”
Mario
obbedisce, nervoso e
insicuro.
Non
ha idea delle intenzioni
di Lorenzo, non sa cosa aspettarsi.
Lorenzo
si avvicina sempre di
più al suo volto, finché lo sta baciando.
Sulla
bocca.
A
labbra aperte, con la
lingua.
E
Mario non può fare altro
che provare a tenere il passo.
Non
c’é musica in sottofondo,
non ha i brividi nè le gambe molli, non si sente girare la
testa.
Non
si sente come se tutto al
mondo improvvisamente avesse un senso.
Sente
solo caldo, e molto
bagnato, e la lingua forte e intraprendente di Lorenzo che esplora la
sua
bocca, e Lorenzo ha un pezzo di salame incastrato tra i denti, ed
è tutto così intimo
che gli fa male il cuore.
Finisce
improvvisamente
quanto era cominciato, e Mario si ritrova con la bocca aperta e la
lingua
ancora di fuori.
Lorenzo
è improvvisamente
timido, tiene gli occhi bassi.
“Sai,
dicevo sul serio,
prima. Se vuoi che te lo succhi, lo faccio. Non devi neanche pagarmi,
hai già
fatto abbastanza, e questo è l’unico modo che ho
per ripagarti.”
Mario
non ci deve nemmeno
pensare.
“No.
Grazie. Non mi
fraintendere, vorrei, sai, in questo momento più di ogni
cosa al mondo. Ma non
sarebbe giusto, non sarebbe vero. Ora ti porto in stazione.”
“Ok. Grazie di tutto.”
Arrivano
in stazione. Prima
di scendere, Lorenzo gli dà un altro bacio, questa volta
leggero, a bocca
chiusa.
“Grazie
ancora. Buona vita,
Mario, spero che tu ricomincerai a suonare il violino.”
“Buona
vita, Lorenzo, ma io
farò il camionista. Se mai avrai bisogno di un altro
passaggio, io sarò sulla
strada.”
Scende,
chiude la portiera,
gira le spalle, va verso la fermata della metropolitana.
Presto
la sua testa scura è
sparita tra la folla.
Mario
rimette in moto, fa
inversione, un po’ macchinosamente, torna indietro.
Adesso
un bicchiere di vino
gli farebbe davvero comodo.
Si
ferma al primo autogrill,
ha anche un po’ fame.
Si
palpa le tasche, cercando
il portafoglio.
“Non
ci posso credere, Elsa!
Quel piccolo stronzo mi ha rubato il portafogli!”
Dovrà
fare denuncia...almeno
la patente la tiene sempre nel camion, almeno può ancora
guidare.
Parcheggia,
abbassa il
sedile, si mette gli occhiali da sole e si addormenta.
Da
domani tornerà ad essere
Mario Rossi.
Per
un po’ ancora, si vuole
sentire solo Mario.