Mostri
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Capitolo 1 -
Feste, banchetti, rinfreschi. Baccanali di ogni specie.
Donne. Merlino, quante
donne!
Sesso, alcool, magia.
Cazzo.
Lusso sfrenato.
E poi il gioco d’azzardo, le corse clandestine su scope truccate
e le retate anti babbane.
Era stato il migliore amico della morte, un tempo.
Rise fra sé e sé, il ricordo dei bagordi passati in mente. E
c’era proprio da ridere, specie paragonando il tipo di vita che aveva condotto
a quella che faceva ora.
Non c’erano tappeti d’argento a ricoprire il pavimento di grezza
pietra che stava percorrendo in quel momento, né arazzi dalla preziosa trama ad
arricchire le spoglie pareti antiche intorno a lui; nessun candelabro di
cristallo a illuminargli la via, ma torce rudimentali appese con rozzi ganci di
metallo qua e là arrugginito.
L’intero castello ove viveva da quasi un anno ormai possedeva
questo stile ricercatamente spartano. Non povero, questo no. Le porte erano di
legno massiccio, così come il resto della mobilia; spessi vetri isolavano le
strette finestre gotiche e sulle più grandi vetrate stavano appesi pesanti
tendaggi dalla ricca stoffa verde smeraldo, colore ricorrente nell’arredamento
locale. Sul salone principale torreggiava imponente un camino alto due metri e
largo quattro, circondato dai divani più comodi su cui si fosse mai adagiato il
suo culo viziato, e il suo letto, in camera sua, era quasi il doppio di un
normale letto matrimoniale, sormontato da un baldacchino degno di un re. La
ricchezza permeava da ogni dove, così come, tuttavia, la ricerca di una
semplicità e di un’austerità quasi maniacali. Ogni superficie era scevra di
decorazioni, abbellimenti, fregi e orpelli vari. I soprammobili non esistevano
– perfino la mobilia era ristretta. E, nonostante le discrete dimensioni del
castello, un solo elfo domestico stava dietro al signore e alla sua dimora.
Cosa gli era successo?
Cosa cazzo gli era
successo?
Domandona da centomila
galeoni. I suoi amici erano ancora increduli. Avevano anche tentato di
redimerlo durante i primi mesi di trasformazione. Poi avevano gettato la
spugna, continuando a seguire il richiamo della vita brava.
In verità nemmeno lui sapeva il perché di quel cambiamento.
Semplicemente, aveva iniziato a non poterne più di quel troppo tutto. Le prelibatezze di cui si
nutriva avevano perso gusto. Il lusso lo infastidiva. L’azzardo lo lasciava
privo di emozioni. Le bellissime donne di cui si circondava gli apparivano come
vuote suppellettili. Le retate anti babbane erano
noiose. Le corse in scopa… Merlino, no! Quelle erano state le uniche a continuare a dargli un
fremito allo spirito. Ma solo perché, a cavallo di quei bolidi assassini,
poteva allontanarsi alla velocità della luce da quel mondo che più non gli
apparteneva.
Così, un giorno si era alzato e aveva detto basta. A tutto. Aveva imposto al suo elfo personale di fargli le
valigie, era sceso a salutare sua madre e aveva abbandonato Malfoy
Manor, trovando riparo lì, a Shadows
Lake, una loro tenuta scozzese abbandonata da tempo. Suo padre era via per
conto di Lord Voldemort quel dì, e quando era venuto
a saperlo ci macò poco si complimentasse con lui per avere ritrovato un minimo
di assennatezza. Una sola cosa gli impose: di non abbandonare gli impegni presi
col suo Signore Oscuro. Cosa che lui non aveva alcuna intenzione di fare,
ovviamente: non solo perché, malgrado il cambio di gusti, gli piaceva ancora
stare vivo; ma soprattutto adorava quel che faceva.
Draco Malfoy era il Primo Alchimista della corte di Lord Voldemort. Di qualunque pozione avesse bisogno, il cupo
sovrano del mondo magico si rivolgeva a lui. E non solo. Anche gli incantesimi
oscuri erano il suo forte, e la magia nera in suo possesso diveniva ogni giorno
più potente. Il lago che circondava il castello di Shadows
Lake in quell’ultimo anno si era riempito di creature che provenivano
dall’inferno più nero, e i boschi circostanti ospitavano demoni che addirittura
i dissennatori temevano. Perfino il sole raramente
faceva capolino dalla coltre malsana che circondava le sue terre, come se
intuisse che quel posto rubato a dio non si meritasse la benedizione dei suoi
gioiosi raggi vitali.
Non c’è da stupirsi che non ricevesse mai ospiti. Neppure sua
madre si faceva più vedere da mesi. E a lui andava bene così. Adorava quel
posto, adorava quel che faceva, adorava stare solo.
Spesso, quando si stancava dei vapori nefasti del suo
laboratorio sotterraneo, saliva in superficie e passeggiava fra i prati verde
pallido al di là del ponte che conduceva al castello. A petto nudo e scalzo, le
gambe avvolte in comodi pantaloni alla turca, i capelli lunghi fin oltre la
schiena e la barba incolta da giorni, camminava sorridente, ben sapendo che
nessuna delle creature infernali lì attorno gli avrebbe mai fatto del male,
riconoscendo forse in lui una qualche sacra paternità. In quei momenti Draco si sentiva libero. Stranamente amareggiato, ma
libero. Allora si metteva a pensare a quello che era stato, a quello che era e
a quello che sarebbe diventato.
Per alcuni versi, un mostro.
E non era l’unico a pensarlo. Dalle ultime visite che aveva
ricevuto (mesi prima) aveva intuito che non erano solo i suoi infernali vicini
di casa a tenere alla larga amici e parenti: sotto sotto,
ciascuno di loro pensava che l’erede di casa Malfoy
stesse perdendo il senno.
Conoscendo bene dunque la fama che aveva in giro, si stupì
quando, arrivato nella sala dove il suo elfo usava servirgli i pasti, quel
mattino trovò assieme alla sua colazione una missiva dal contenuto
stupefacente, firmata Lucius Malfoy.
Nella lettera suo padre lo informava che per motivi di sicurezza
il Signore Oscuro aveva deciso di porre sotto la sua custodia niente poco di
meno che la sua perla rara, il suo fiore all’occhiello, la sua schiava
preferita, nonché la cagione di ogni sua ultima vittoria: la Veggente Bianca.
Allibito, Draco aveva letto e riletto
diverse volte quelle semplici, autoritarie, inconcepibili tre righe di testo,
prorompendo a intervalli regolari con esclamazioni forbite come “Cosa…?!”, “Ma che cazzo!”, “Non può essere…”.
Il sigillo nero del Signore Oscuro, tuttavia, era un simbolo
anche fin troppo chiaro: significava che non gli era data facoltà di opporsi e
che quindi, volente o nolente, avrebbe dovuto accogliere nel suo castello la
sgradita ospite.
Si alzò in piedi di scatto, prendendo la tazza che aveva davanti
e scaraventandola con rabbia contro il muro dirimpetto, frantumandola in mille
pezzi. Poco dopo anche il vassoio col resto della portata fece la stessa fine,
e se quel tavolo non fosse stato così massiccio, probabilmente sarebbe andato a
fare compagnia alla credenza all’altro lato della parete.
Era furibondo.
L’idea di perdere la solitaria quiete in cui aveva immerso Shadows Lake lo irritava. Soprattutto, il sapere di non
poter avere voce in capitolo riguardo quella decisione lo rendeva insofferente.
Gridò. Strepitò. Distrusse.
Fuori il tempo mutò: nuvole nere coprirono il castello. Quando
uscì in cortile e si buttò fra le fredde acque del Lago delle Ombre pioveva a
dirotto. Nuotò fra le sue fiere infernali fino a quando non fu così stanco che
perfino il respirare gli provocava sofferenza. Mostruose piovre giganti lo
accarezzarono coi loro tentacoli velenosi, squali deformi lo affiancarono per
il lungo percorso, piccoli piragna assassini gli ronzarono attorno come mosche,
festeggiando la sua presenza.
Quando uscì, il freddo quasi lo uccise.
Era caduta la neve.
Si trascinò in casa, si buttò sul divano e con un cenno del capo
accese un grosso falò nel camino. Aveva buttato via la bacchetta ormai da tempo,
divenuta uno strumento inutile visti i poteri che aveva acquisito.
Distrutta dalla fatica fisica, la sua mente parve rabbonirsi.
Quelle fiamme, quel calore che riusciva a scaldargli le membra – ma non l’animo
– lo rilassarono.
Sapeva bene che la sua ospite si sarebbe dovuta materializzare
in quel camino, e non gliene sbatteva un cazzo.
Poteva anche prendere fuoco, per quanto gli interessava.
Anche se poi Lord Voldemort gli
avrebbe fatto fare come minimo la stessa fine.
Vaffanculo.
Il suo pensiero si soffermò allora sul ricordo che aveva di
quella rottura di coglioni che gli era stata affidata.
Bionda, occhi persi in un mondo che non era quello che la
circondava.
Pazza, a suo parere.
Diceva cose incomprensibili e faceva osservazioni fuori dagli
schemi.
Era stata una strega, un tempo.
Poi, lui le aveva tolto i poteri con la magia nera. Li teneva
ancora conservati giù, nel suo sotterraneo, in un’ampolla maledetta che solo
lui o Lord Voldemort potevano aprire. Il Signore
Oscuro aveva reputato necessario quell’atto per impedirle di fuggire.
Al momento, dunque, la Veggente Bianca era poco più di una babbana col potere di leggere il libro del Destino.
Prevedere le sue mosse. Cambiarle.
Mica male, in effetti.
“Quando la rabbia ti gela il cuore, pure nel tuo regno cala il
freddo.”
Si alzò in piedi voltandosi repentinamente verso la melliflua
voce femminile che aveva parlato, un brivido ghiacciato a percorrergli la
schiena.
Lì, a una decina di metri da lui, in piedi davanti alla grande
vetrata gotica, stava una pallida figura intenta a studiare il panorama
esterno.
Aveva lunghi capelli chiari quasi quanto i suoi, dolcemente
ondulati. Era particolarmente longilinea, ricoperta da una veste il cui candore
rivaleggiava con quello della sua pelle. Appariva come un fantasma di luce,
un’ombra chiara nell’oscurità della sua casa.
Quando cazzo
era arrivata?!
“Giocavi ancora coi tuoi figli là sotto.”
Non aveva aperto bocca. Cazzo. Non glielo aveva chiesto sul
serio. Da quando era diventata una legilimens così
potente? Subito chiuse la mente con l’occlumanzia,
furibondo per essere stato colto alla sprovvista. Quella giornata era iniziata
male e si stava trasformando in una vera merda.
“Non intendevo essere invadente. Da quando mi hai tolto i poteri
la magia in me ha assunto altre forme. Non si può uccidere quello che siamo. Mi
hai semplicemente cambiato, Primo Alchimista.”
Si voltò a guardarlo, incatenandolo coi suoi occhi. Merlino,
quegli occhi! Non aveva scordato affatto il fastidioso brivido di soggezione
che gli provocava il guardarli. Erano grandi, bellissimi occhi color
dell’azzurro più brillante. Ma erano vuoti. Persi. Privi di emozioni. Rapiti da
un paesaggio lontano a cui solo pochi potevano accedere.
Era bella, la Veggente Bianca. Sembrava un angelo. Aveva scorto
diverse volte Lord Voldemort incantato a osservarla.
Pensava che prima o poi l’avrebbe trascinata nel suo letto, ma non era mai
successo. C’era qualcosa in lei che impauriva perfino il Signore del Male.
“Perché sei qui?” Chiese il padrone di casa, avanzando di
qualche passo. Era ancora zuppo d’acqua, e ogni passo che faceva la roccia
sotto i suoi piedi si ricopriva delle sue orme.
“Perché ho previsto il mio rapimento al Castello Oscuro.”
“Shadows Lake è stato considerato
l’unico luogo inaccessibile per i reietti della tua banda, dunque.”
“L’inferno non è una terra facile da percorrere, neanche per i
loro cuori puri.”
“E così eri a un passo dall’essere liberata, ma la tua
parlantina sibillina ti ha fregata. Povera, povera Veggente Bianca!” La prese
in giro, cattivo. Lei non parve offendersi.
“Ne sei sicuro?” Chiese anzi.
“Sei qui.” La canzonò lui, un ghigno infame sul volto.
“Non vi sono dubbi.” Affermò lei.
“Ergo, non sei libera.”
“Le strade del destino sono strane. Alle volte semplici e
lineari, altre confuse e distorte, tanto che, spesso, per poter arrivare al
paradiso devi passare dall’inferno.”
“Anche voi veggenti soffrite di speranza, ingannatrice di
cuori?” Continuò a beffeggiarla.
Lei lo fissò, sorridente. Sorrideva sempre, cazzo. La odiava per
questo. Sembrava lo stesse continuamente prendendo per culo. “Cuori… ciascuno soffre di un sentimento differente. Ma il
vuoto vince sulla paura. Un mostro più grande è giunto al mondo, e ancora
nessuno lo sa. Se lui lo sapesse,
cosa ne sarebbe di te?”
Eccolo lì, freddo, intenso, l’ennesimo brivido che gli percorse
la schiena. Cazzo. Cazzo cazzo cazzo! Quella troia gli
faceva accapponare la pelle. Non osava neanche chiederle di che cazzo stesse
parlando.
“Tu sei pazza.” Le disse, schifato.
“Si dice anche tu lo sia.” Lo informò candidamente.
Stufo di quel dibattito privo di senso, si allontanò da lei e si
diresse verso i suoi sotterranei. Aveva voglia di sperimentare cose nuove.
Aveva voglia di fiamme, di gelo, di oscurità e perversione. Aveva voglia di
sfogare fra ampolle e formule dannate la sua ira funesta.
“Non mi metti le catene prima di andare a giocare?” Chiese lei.
Sì, lo stava decisamente prendendo per culo.
“Fuori di qui ci sono più demoni che all’inferno, come sai già,
e tu non hai poteri. Non ho necessità di metterti catene. Fai quel cazzo che ti
pare, ma stai lontana dalla mia vista.”
“Grazie, Draco.”
Lui si voltò, gli occhi bianchi come il ghiaccio. Un fulmine
calò furente dal cielo sul prato là fuori. “NON – OSARE – DIRE – IL MIO NOME!
Mai più! Hai capito, Lovegood?!”
Lei assentì, pacata come sempre. Neanche quell’eccesso di furore
aveva intaccato la sua placidità. Diamine! Quanto non la sopportava!
Più furente che mai, Draco scese le
scale che lo avrebbero condotto al suo laboratorio, chiudendo la porta con
tanta rabbia che rivoli di polvere calarono dal soffitto.
Che giornata di merda.
Ed era solo l’inizio.
To be continued…