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Autore: behindamask    27/10/2013    2 recensioni
Non possedevo niente che non gli appartenesse già ed era per colpa sua se ero ancora vivo. Così terribilmente vivo, solo e maledetto.
Genere: Malinconico, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Richiusi quello che sarebbe diventato "il mio confidente, l'oggetto che mi avrebbe accompagnato per un po' di tempo e che quando sarei diventato grande mi sarebbe piaciuto rileggere". Così dissero, almeno per convincermi. Ma più ci pensavo, più mi veniva da ridere perchè non riuscivo a trovare tutta quella filosofia in un raccoglitore mezzo distrutto con dentro due, o al massimo tre, reliquie cartacee ingiallite dal tempo risalenti alla prima elementare sulle quali dover scrivere i miei peccati.

«E questo sarebbe il "confidente" che a ottant'anni dovrei rileggere? Non credo proprio. Quando arriverà il momento, spero di essere troppo astigmatico per riconoscerne anche solo una parola. Non penso che sentirò la sua mancanza quando lo brucerò insieme alle altre scartoffie insignificanti dando la colpa alla memoria a breve termine per giustificarmi.» pensai, rigirando tra le mani quegli assurdi mostriciattoli che vi erano disegnati in pose altezzose.
In un angolo notai un'etichetta. Era troppo sbiadita per poterla leggere, ma si distinguevano le linee sottili e incerte di una scrittur che ormai non mi apparteneva più. Voltai lo sguardo verso le tapparelle abbassate della palestra. Era ancora troppo presto perché arrivasse qualcuno. Ero certo che e fossi stato fuori casa mi sarebbe stato più piacevole scrivere. Guardavo ammirato le strisce di polvere che fluttuavano nell' aria come stelle. Quei piccoli granelli roteavano pigri e spensierati. Li invidiai, da un certo punto di vista. Immaginai quello che accadeva oltre il vetro e mi lasciai trasportare dai miei pensieri lontano da lì; dove il corpo mi schiacciava al suolo ed ero pesante, dove regnava il silenzio lento e ritmico dei miei respiri.

Un borbottio sommesso mi riportò brutalmente alla realtà facendomi sobbalzare.
Nascosi il raccoglitore dentro la tracolla.
Un'altra voce. Una ragazza. Dal tono intuii stesse facendo una domanda al suo interlocutore.
«Sì, lo conosco Alberto.» la risposta.
Fu impossibile non sentire quella frase, prima di tutto perchè riconobbi la voce, poi perchè sembrava che quello fosse il suo scopo: attirare la mia attenzione.

Kevin.

Mi alzai rapidamente e la borsa cadde a terra con un tonfo sordo che riecheggiò per la stanza.
I suoi occhi verdi, arrabbiati e vendicativi.
L' ira nel suo sguardo.
Le sue labbra increspate in un sorriso crudele.
La mia mente era otturata dai pensieri sopra i quali aleggiava il brutto presentimento.
Riconobbe in me, la paura.
Immobile. Lo guardavo come un cervo guarderebbe il cacciatore. Sapevo quali erano i suoi intenti, ma non scappai. Quella volta era diverso. Lo avrei lasciato fare, sentivo di meritarmelo.

«Sì, lo conosco bene, Alberto...»
La frase in sospeso, come quel sospiro negato. Iniziò a camminare, passo dopo passo, davanti a me. Avanti e indietro. Lentamente,
«Kevin, ti supplico...»
Temevo che dicesse qualcosa. Non avevo paura del dolore, ma delle parole. Quelle parole che erano capaci di ferire più della lama di una spada. Tenevi la testa bassa, come un condannato. In attesa del peggio che stava arrivando annunciato dal fantasma di un dolore al petto. Mossi le labbra in una muta preghiera. I capelli erano abbastanza lunghi per coprire la lacrima che scivolava lenta e inesorabile sul viso. Mi sentii solo. Terribilmente solo. Ormai l' unica cosa che potevo sperare, era che non mettesse in mezzo la ragazza.
Tristezza e Angoscia, le mie vhecchie compagne, mi sfondarono il torace come un masso pesante per ricordarmi che quella era la realtà, non come appariva sotto l' effetto di psicofarmaci.
La realtà che sognavo oltre quella finestra non era mai esistita.
 
  
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