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Autore: ScarletQuinjet    14/04/2008    13 recensioni
Lui non avrebbe voluto morire. Lui amava sua moglie, la sua Helen. Lui aveva una bellissima bambina di appena due anni, che non avrebbe mai conosciuto il suo papà, la piccola Elba, la dolce, piccola Elizabeth. Lui aveva la vita che aveva desiderato, era stimato, aveva un ottimo lavoro. Lui aveva trentanove anni, due mesi e sette giorni. Lui non voleva morire.
Genere: Triste, Malinconico, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lui non avrebbe voluto*

Lui non avrebbe voluto

-- A tribute to Thomas Andrews Jr. --

Lui non avrebbe voluto morire.

Lui amava sua moglie, la sua Helen.

Lui aveva una bellissima bambina di appena due anni, che non avrebbe mai conosciuto il suo papà, la piccola Elba, la dolce, piccola Elizabeth.

Lui aveva la vita che aveva desiderato, era stimato, aveva un ottimo lavoro.

Lui aveva trentanove anni, due mesi e sette giorni.

Lui non voleva morire.

Lui non doveva neanche essere lì. Ma suo zio si era ammalato, ed era andato lui al suo posto per rappresentare i cantieri navali.

E pensare che giusto qualche giorno prima, imbracandosi, aveva detto al suo segretario di tenere informata la sua Helen di tutto quello che accadeva.

Questo l’avrebbe distrutta.

L’ironia della sorte.

Lui sapeva che la storia dell’ “Inaffondabile” era una colossale bugia, lui stesso aveva progettato quella nave.

Lei non era inaffondabile, era solo molto sicura. Dannazione, con quattro compartimenti stagni allagati sarebbe sopravvissuta a qualsiasi collisione! Perché dunque, proprio cinque, cinque, compartimenti erano andati ad allagarsi. Lei non ce l’avrebbe fatta, sarebbe affondata, l’Inaffondabile sarebbe colata a picco a dispetto del suo nome pomposo.

Trascinando con se nell’oscurità dell’Atlantico la maggior parte dei suoi passeggeri: mariti e padri, essenzialmente, figli, uomini con una famiglia che li amava; e poi donne e bambini, sicuramente quei poveri disgraziati in terza classe che si illudevano di andare in America per trovare e fare fortuna.

Lui li aveva condotti alle scialuppe, li aveva aiutati come poteva, ma di più non c’era altro da fare.

Aveva insistito a Belfast perché mettessero più scialuppe, e invece no.

No.

Lui stesso aveva portato la sua Helen a vedere la chiglia della nave in costruzione, due anni prima. Elizabeth stava per nascere, tutto era perfetto, e una cometa era brillata alta nel cielo sopra di lui e della moglie come un vago presagio: i pessimisti dicono che la vista di una cometa rappresenti un’anime che sale al cielo. Forse aveva potuto prenderlo come un presagio.

Ora se ne sarebbe andato, e le ultime parole per sua moglie era racchiuse in un paio di lettere, in un saluto frettoloso a Belfast.

Non avrebbe più rivisto i cantieri navali a cui era tanto legato, né lo zio Pierre che era sempre stato presente.

Non avrebbe più rivisto la sua famiglia, né la grande casa di Ardara dove era vissuto da piccolo, la sua bella cittadina di nascita, dove tutti lo conoscevano come il piccolo Tommy Jr., il secondo ragazzo di Thomas ed Eliza, , la sua Comber, così vicina al mare.

Non avrebbe più rivisto le strade trafficate di Belfast, né le grandi piazze, le ampie strade o il teatro.

Non avrebbe più rivisto la bella casa a Winslow Avenue, la “Dunallon”, dove Helen soleva aspettarlo ogni giorno con un bel sorriso sulle labbra.

Lui che amava il mare avrebbe avuto la sua tomba d’acqua.

Lei, Helen, che lo amava tanto non avrebbe avuto una tomba su cui piangere.

Lei, Elba, Elizabeth Law Barbour Andrews, non avrebbe avuto un papà con cui giocare e, più avanti, litigare.

Helen si sarebbe risposata, lui lo sapeva, e lo capiva, non poteva farcela da sola.

Provò una fitta di gelosia per l’uomo fortunato che l’avrebbe sposata, ma in cuor suo sapeva che era per il bene di lei e della bambina. Sperava solo che si ricordassero di lui, ma sentiva nel profondo che Helen lo avrebbe sempre amato.

Gli dispiaceva averla abbandonate così.

Un steward entrò e lo vide, gli disse qualcosa, forse qualcosa riguardo il tentare di salvarsi.

Salvarsi da cosa?

Dalla morte?

Solo per morire troppo tempo dopo nell’acqua, assiderati dal freddo, una morte orribile?

Salvarsi come?

Con le scialuppe troppo lontane e che non sarebbero mai tornate indietro?

Tuffandosi in mare solo per andare in contro a morte certa e dolorosa?

Lui non abbandonava la nave, la sua nave. La considerava sua, la sua creatura.

Un capitano non abbandona mai la propria nave.

Lui non era il capitano, ma il sentimento, e il dovere, era lo stesso.

Prima le donne e i bambini, anche se di donne e bambini ne erano già morti così tanti, aveva visto con i suoi occhi le lance di salvataggio allontanarsi mezze vuote, con la scusa che non avrebbero retto il peso.

Ma perché nessuno aveva preso sul serio la questione da subito?

Ah, si, la nave era l’Inaffondabile.

Che sciocchezza, nulla è inaffondabile, neanche questa nave.

Il pavimento rolla sotto i suoi piedi.

Sente già le pareti scricchiolare pericolosamente.

Avverte la tensione che la nave sta subendo quasi fosse lui al suo posto.

Sta per spezzarsi, pensa, è consapevole delle capacità della nave e della sua resistenza.

Si spezza, non può reggere il suo stesso peso.

Fissa il camino.

Forza, spezzati, parla alla nave, non puoi reggere, regina dei mari, coraggio, muori gloriosamente come saresti dovuta esistere.

Il bicchiere sul ripiano del camino di fronte a lui nel sala fumatori di Prima Classe scivola in avanti, ma lo riafferra al volo e lo alza al cielo in una sorte di beffardo brindisi.

A te, Sorte ingrata.

Ma non beve, perché l’ennesima scossa gli fa sfuggire il bicchiere di mano.

Sente le urla delle gente che cade in mare, della gente che si aggrappa alle ringhiere per evitare l’acqua, quella stessa gente che ha pagato una fortuna per viaggiare, quella stessa gente che aveva creduto alla leggenda dell’Inaffondabile.

Sente l’orchestra suonare ancora, Nearer, My God, to Thee.

Più vicino, mio Signore, a Te.

La nave inizia a spezzarsi.

Potrebbe finire la sue esistenza annegato.

Oppure trafitto dai frammenti di legno e ferro che sarebbero saltati dalle pareti, dal soffitto e dal pavimento quando la nave si fosse finalmente spezzata.

La cosa non lo tocca, doveva morire comunque, e lo sapeva.

Né doveva preoccuparsi dello shock che Helen avrebbe affrontato di fronte al suo corpo martoriato, perché lei non l’avrebbe rivisto mai più in questo mondo.

Per la prima volta i suoi occhi abbandonano le fiamme crepitanti nel camino elegante e si alzano a guardare là dove dovrebbe esserci il cielo.

Mi dispiace, tesoro mio, piccola Elba.

Mi dispiace, cara, mi dispiace così tanto.

Addio, arrivederci Elizabeth, piccola stella.

Addio, arrivederci, amata Helen.

Non è un addio.

È un arrivederci.

-- A un grand’uomo, che ora ammiro ma di cui mi ero presa una grandissima cotta quando ero piccola. A un eroe, un uomo con dei principi, dei principi che ha seguito fino alla fine, fino alla morte. A un uomo fantastico e umano, vicino alla gente, a un uomo che ha aiutato tutti quelli che poteva nei momenti peggiori. A un uomo che era ovunque, aiutava chiunque. A un uomo di Comber, a un ingegnere di Belfast, a un irlandese doc. A un uomo che era rispettato dai colleghi, a un uomo per il quale tutti i colleghi, anche quelli di origine più umile, erano amici e compagni da aiutare sempre e comunque. A un uomo che era un padre e un marito, un figlio, un nipote, uno zio. A una moglie e a una figlia.

Mancano quattro ore e cinquantacinque minuti all’affondamento del Titanic mentre scrivo questa postilla. Tra quattro ore e cinquantacinque minuti sarà l’anniversario della morte di millequattrocentonovanta persone.

Per non dimenticare. --

-- Vicenza, Lunedì 14 Aprile 2008, ore 21:25 --

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