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Autore: _camus_    28/10/2013    4 recensioni
Ogni stagione è legata all'altra, incontri e addii formano il cerchio, il sacro centro è la nostra armatura, dove tutto cambia, tutto è eguale.
[Marion Zimmer Bradley]

Un ricordo a stagione; uno per personaggio.
Memorie incancellabili fissate per sempre dallo scorrere ciclico di Primavera, Estate, Autunno e Inverno – comprese le mezze stagioni.
Genere: Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aquarius Camus, Aries Mu, Gemini Saga, Scorpion Milo, Virgo Shaka
Note: Raccolta, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Mezze stagioni

Mezze stagioni

   


Esistono notti che sono fatte apposta per rimanere impresse nella memoria fino alla morte.

A occhi inesperti quella che è appena calata potrebbe sembrare solo una tipica, comunissima notte di fine maggio, ma Saga – che ha imparato con gli anni a non fidarsi dell’apparenza – ne avverte la particolarità persino sulla pelle.

Punto primo, perché le notti di mezza stagione non sono mai le une uguali alle altre: lui, che è nato proprio durante una di esse, ne conosce bene la natura mutevole – tanto simile alla sua.

Punto secondo, perché prima aveva amato e ammirato le mezze misure, per la loro capacità di essere qualcosa e, insieme, qualcos’altro di diverso; prima, sì, giacché solo in seguito aveva scoperto quanto fosse doloroso sentirsi perennemente spaccati in due metà sempre in conflitto – «Com’era? Ah, sì: angelo sul volto, demone nel cuore».

E infine, ma non per importanza, perché la persona che ai suoi occhi più di ogni altra cosa aveva incarnato la bellezza e la sacralità dell’ambivalenza, nonostante gli abbia sacrificato tutto – persino suo fratello –, lo ha crudelmente pugnalato alle spalle e lui non può perdonarglielo.

Lo Star Hill si innalza sopra di lui maestoso come non mai, quasi a volerlo sfidare.

Saga getta ancora uno sguardo al cielo, poi comincia a salire. E, inconsciamente, a ricordare.

«Lo stesso periodo di allora. Come se la mia vita fosse destinata a essere sconvolta sempre in questa stagione».

 Il cortile che circondava la misera abitazione contadina era inondato di sole.

Due bambini identici stavano accoccolati ai piedi di un alberello, in attesa che qualche preda lasciasse la tana; tempo qualche secondo, ed ecco affacciarsi da un buco nel terreno il muso di un piccolo topo di campagna, intento ad annusare l'aria.

I gemelli trattennero il respiro, quando il roditore mosse le zampette verso l'esterno; uno dei due – quello con i capelli più scuri – allungò lentamente una mano, e...

«Saga! SAGA! Vieni subito qui! C'è un tizio che chiede di te!»

Il richiamo improvviso e perentorio fece trasalire i due, permettendo così all'animale di accorgersi del pericolo e rientrare di corsa nel suo rifugio.

«Maledizione!» borbottò Kanon «Un'ora di appostamento andata in fumo».

Saga, tirandolo per un braccio, lo costrinse a lasciar perdere la caccia: non era saggio far spazientire il padre.

«Siamo nei guai, Kanon» esclamò mogio, saltellando fra le sterpaglie «Te l'avevo detto che non era una buona idea, quella di liberare le galline del signor Papacristou! Adesso papà dovrà risarcirlo e, per punizione, ci darà una scarica di legnate».

«Secondo me il nostro vicino non c'entra nulla; comunque sta’ tranquillo, tanto il grosso delle botte toccherebbe a me» gli rispose l'altro, rassegnato.

Qualunque marachella combinassero, la colpa veniva sempre addossata per la maggior parte a lui, reo – a detta del genitore – non solo di progettare "loschi crimini", ma anche di trascinarci in mezzo l'altrimenti innocente fratello.

«Alla buon’ora!» brontolò l'uomo, una volta che l'ebbero raggiunto «Lo sai che non devi mai farmi aspettare, quando ti chiamo. Stai prendendo tutti i vizi della tua brutta copia, a forza di stargli appiccicato».

Kanon gli lanciò un'occhiata bieca, senza tuttavia replicare; del resto, data l'indole irragionevole e collerica del padre, sarebbe stato del tutto inutile.

Il pessimo carattere e la prepotenza di Cosmas Léandros, a Rodorio e dintorni, non erano un mistero per nessuno.

In passato essi erano stati compensati da un notevole carisma, nonché dal fatto che egli rappresentasse un ottimo partito agli occhi delle famiglie benestanti del paese – per il bell'aspetto, ma anche per le discrete risorse finanziarie accumulate dai Léandros grazie alle loro proprietà terriere –; tuttavia, dopo che ebbe sposato la giovane e dolce Alèxia Karamanlìs, le parti peggiori della sua personalità tornarono a prevalere.

A causa di uno scarsissimo senso degli affari e di una morbosa tendenza allo sperpero, in poco tempo dissipò l'intero patrimonio ereditato dai genitori e, per pagare i debiti di gioco, dovette vendere agli usurai tutti i terreni, compreso quello dove sorgeva la dimora di famiglia; evento, quest’ultimo, che lo costrinse ad acquistare un lotto di terra infeconda e un vecchio edificio diroccato ai suoi margini.

L'improvvisa povertà inasprì ulteriormente la cattiveria e la violenza di Cosmas, che lui prese a sfogare prima sulla moglie – tanto da farla morire –, e poi sui figli, nati nel frattempo.

I due ragazzini avevano dunque trascorso i primi anni della loro vita nella miseria, senza una figura adulta che si prendesse cura di loro e costantemente soggetti ai frequenti scatti d'ira del genitore – scatti d'ira che Saga aveva imparato in fretta ad arginare, ma che Kanon, dal carattere già piuttosto ribelle a dispetto della tenera età, continuava imperterrito a sfidare frontalmente.

«Detesto dargliela vinta senza combattere» diceva spesso al fratellino, quando questi lo pregava di desistere; peccato che le sue si rivelassero quasi sempre battaglie perse in partenza.

«Che hai da guardare in quel modo, tu?» disse in tono minaccioso Cosmas, a cui non era sfuggito lo sguardo astioso del suo secondogenito «Vorresti forse dire che non è vero?»

«Papà, lui non c'entra nulla» intervenne precipitosamente Saga, onde evitare pericolose degenerazioni della discussione «Non è colpa sua se ho tardato: non ti avevo sentito».

«Sì, sì» liquidò la questione l'adulto, facendo un gesto annoiato con la mano.

Al momento ciò che gli premeva era altro; di norma, invece, Kanon non l'avrebbe passata liscia.

«Piuttosto, ascoltami bene, Saga,» riprese, con una strana luce cupida ad accendergli gli occhi verdi generalmente offuscati dall'alcool «il tizio ha detto di chiamarsi Tenzin e qualcos’altro di impronunciabile. A prima vista sembra un ricco forestiero orientale – tzè, andare in giro con una tunica lunga fino ai piedi con questo caldo! –, dunque, se si è interessato a te, forse è perché gli serve uno sguattero o robe simili.

Ha l'aria piuttosto eccentrica, quasi... fuori dal mondo. Comunque, tu sta' zitto e lascia parlare me: chissà che non riusciremo a spillargli qualche soldo».

«Ma come fa a sapere chi sono? Non ho mai incontrato persone del genere» chiese Saga dubbioso, gettando uno sguardo allarmato al fratello.

Per quanto si sforzasse, non riusciva proprio a condividere il sinistro ottimismo del padre.

A lui, che nei suoi pochi anni non aveva conosciuto altro, la propria esistenza andava bene così com'era.

Tutta la sua vita gravitava intorno a pochi punti fermi, così solidi da essere diventati parti integranti del suo essere: la casa sgangherata di cui sapeva a memoria ogni singolo angolo, il cortile affollato di animali da allevamento, il piccolo villaggio dove lui e Kanon si recavano di tanto in tanto, il mare, il sole e, soprattutto, il gemello.

Non aveva alcuna voglia di lasciare tutto questo e partire alla volta di un paese straniero, situato forse dall’altra parte del mondo; figurarsi, poi, per fare da servo a uno sconosciuto magari perfino più arrogante di Cosmas!

«Non saprei» rispose quest’ultimo, grattandosi pensoso la barba ispida «Forse ha chiesto informazioni sul tuo conto dopo averti visto giù in paese. Poco importa, comunque: ciò che conta è che sia giunto fino a noi. Ma adesso basta parlare! Vieni, su: meglio non farlo aspettare troppo, sia mai che ci ripensi!»

Così dicendo, prese Saga per le spalle e lo spinse dentro casa con fare frettoloso, per poi fermarsi dinanzi alla porta di quello che decenni prima forse era stato un salotto degno di un’abitazione signorile, ma che adesso cadeva in pezzi più o meno come le altre stanze del casolare.

«Allora, ricapitoliamo: a meno che non sia lui a farti delle domande, tu non dire nulla. Sorridi e assumi l’atteggiamento migliore che ti riesce,» disse l’uomo, mentre cercava di rassettare l’abbigliamento sdrucito e sporco del figlio appianandone le pieghe con le mani «mi raccomando».

«E tu,» continuò rivolto a Kanon che, nel frattempo, li aveva seguiti e ora se ne stava silenziosamente in disparte «levati dai piedi, e fai in modo di non rovinare tutto. Altrimenti, ti assicuro che te ne farò pentire amaramente».

«Stai tranquillo, papà. Non sarò certo io a ostacolare Saga: grazie a quest’occasione forse potrà andarsene da qui» replicò Kanon, in tono sarcastico «almeno lui».

Nel pronunciare tali parole, un’ombra scese sul volto del bambino – un’ombra in cui Saga lesse la paura che quanto aveva appena affermato accadesse realmente.

Tuttavia, subito dopo sembrò recuperare la sua consueta spavalderia, poiché gli fece un occhiolino e sparì dietro l’angolo, senza aspettare risposta.

Una volta entrati nella stanza, trovarono l’ospite girato di spalle, intento a guardare fuori dalla finestra; la luce che filtrava dal vetro sporco illuminava le varie sfumature dorate dei lunghi capelli dello sconosciuto, rendendoli simili a una sorta di aureola evanescente.

Come aveva detto suo padre, l’uomo indossava una sontuosa tunica color prugna che gli abbracciava il fisico prestante con grazia delicata.

«Signor Tenzin, perdonate l’attesa. Ecco qui il ragazzo» lo chiamò Cosmas.

Quando Tenzin si voltò, due occhi azzurrissimi scesero a incontrare quelli di Saga: non avevano rughe agli angoli, eppure davano l’impressione di essere antichi come il mondo – quasi che una specie di ponte fra passato e futuro vi scorresse attraverso.

Tutto di lui appariva giovane e forte, dall’ampia fronte liscia alle spalle larghe ed erette, ma a un osservatore più attento non sarebbe potuta sfuggire la sacralità di cui l’intera sua figura era ammantata. Come se vecchio e nuovo, saggezza e baldanza si fossero uniti in un unico essere.

Sotto il suo sguardo, Saga si sentì improvvisamente piccolissimo.

«Mmmh» mugugnò l’estraneo, prendendo a girargli attorno come un avvoltoio «ben proporzionato, bella presenza. Un po’ troppo magro, ma devo riconoscere che, complessivamente, non c’è male. Potrebbe essere adatto» decretò infine, rivolto a Cosmas.

«Adatto a cosa?» chiese l’oggetto dell’analisi, di getto.

Tenzin gli lanciò un’occhiata contrariata per quell’intervento non richiesto, quasi che la sua domanda fosse stata fastidiosa quanto il ronzio di una mosca insistente: «Tuo padre non ti ha forse insegnato a parlare solo se interpellato, ragazzo? Perché, se così non fosse, sarebbe un problema».

«Certo, certo che gliel’ho insegnato!» si affrettò a rassicurarlo Cosmas, facendo un passo avanti per la foga «Anzi, in genere è molto silenzioso ed educato. Non so cosa gli sia preso, in effett … chiedi subito scusa per la scortesia, figliolo».

Saga fu costretto a obbedire dallo sguardo assassino con cui suo padre lo fulminò – foriero di una punizione esemplare, in caso non avesse eseguito l’ordine.

«Vogliate perdonarmi, signore. Non succederà più».

«Me l’auguro».

«Se posso permettermi, signor Tenzin,» intervenne timidamente Léandros «come intendete utilizzare il bambino? Credo di avere il diritto di saperlo: sono pur sempre un padre – e, come tale, ho a cuore solo l’interesse di mio figlio».

A sentirlo recitare simili fesserie, per poco Saga non sbuffò di biasimo; alle sue orecchie appariva infatti di totale evidenza che l’unico scopo del genitore fosse quello di fare un po’ di scena, per poi poter successivamente tirare di più sul prezzo.

Kanon avrebbe trovato la cosa davvero esilarante. Chissà, magari ora era dietro la porta a origliare e stava ridendo a crepapelle.

Il forestiero accolse la richiesta con un cenno della testa: «Effettivamente non avete tutti i torti, signor Léandros. Avrei dovuto dire subito il perché nutro interesse per il ragazzino.

Urgenti affari privati mi hanno di recente condotto in Grecia, costringendomi ad acquistare su due piedi una residenza nei pressi di Atene; data la tempestività degli eventi, non ho fatto in tempo a portare con me da Lhasa la mia abituale servitù.

 Mi sono perciò visto obbligato a cercarne qui: girovagando di paese in paese sono arrivato fino a Rodorio, dove mi hanno consigliato di rivolgermi a voi. Vostro figlio potrebbe svolgere le funzioni di valletto ai ricevimenti, e lavorare come sguattero nel restante tempo… »

Saga smise di ascoltare, disgustato.

Si diede dello stupido per essersi inizialmente lasciato ingannare dall’aspetto nobile e sacrale dello straniero: avrebbe dovuto immaginare che, per una persona del genere, lui non rappresentava nulla più di un potenziale servo.

Si era ormai abituato a venire trattato senza nessun riguardo dagli adulti – Cosmas in testa –, ma, chissà con quale diritto, per un attimo aveva pensato che stavolta sarebbe stato diverso.

D’altro canto, la durezza delle uniche parole che Tenzin gli aveva rivolto era stata un presagio assolutamente chiaro.

Guardando i due adulti tutti intenti a parlare, Saga pensò che li odiava. Sì, li odiava entrambi.

Odiava suo padre, ora divenuto tanto mellifluo quanto era cattivo e autoritario con loro; e odiava altresì quell’intruso, che l’aveva illuso coi suoi occhi cristallini e la sua maledetta aria da santo.

A causa dei loro futili interessi, adesso sarebbe stato costretto ad abbandonare l’unica cosa che per lui contava davvero – suo fratello.

Se l’era aspettato, all’inizio, ma ora che gli avvenimenti avevano preso una piega quasi certa non riusciva più ad accettare l’idea.

«Ora, prima di accordarci sul prezzo dei servigi di Saga, vorrei scambiare due parole in privato con lui. Se siete d’accordo, ovviamente».

Questa frase riportò l’attenzione di Saga alla conversazione in atto tra i due uomini, dalla quale si era volutamente estraniato.

Cosmas, che probabilmente si sentiva i soldi dell’affare già in tasca, non riuscì del tutto a nascondere la sua disapprovazione per la proposta; tuttavia, timoroso di contrariare il futuro acquirente, alla fine acconsentì e uscì in fretta dalla stanza.

Rimasti soli, Tenzin non accennò subito a voler parlare; Saga lo osservò girarsi verso la porta attraverso la quale suo padre era appena sparito, e stare immobile a fissarla concentrato.

Per una frazione di secondo gli parve persino di vederlo muovere impercettibilmente le labbra, ma forse fu solo un’impressione.

«Spero che tu voglia perdonare la mia precedente condotta nei tuoi confronti,» disse all’improvviso, voltandosi in un fruscio di vesti «ma temo che, se non avessi usato tanta poca grazia, tuo padre si sarebbe insospettito. Era necessario fargli credere che fossi arrogante e senza scrupoli come e più di lui, in modo che potesse fidarsi delle mie parole».

«C-cosa?» balbettò il bambino, confuso.

“Precedente condotta“? “Era necessario fargli credere…“? Di che stava parlando, lo straniero?  Era forse impazzito? Oppure si trattava di un tentativo di prenderlo in giro?

Tenzin, nel vedere il suo stupore, sorrise discretamente: «Comprendo come le mie parole possano suonarti strane. Avrei preferito non dover allestire questa messa in scena, tuttavia era l’unico modo che avevo per avvicinarti e parlare con te senza destare troppa curiosità».

«Potreste essere più chiaro, signore? Continuo a non capire».

Prima di rispondere, l’uomo si mise finalmente a sedere; sbuffi di polvere si alzarono dal consunto velluto rosso del divano, eppure lui non sembrò farci caso.

«Vedi, Saga, io non sono la persona che ho finto fino a ora di essere: non mi chiamo realmente Tenzin. Il mio vero nome è Shion di Aries, e ti sto parlando in qualità di Gran Sacerdote del Grande Tempio di Atena, Dèa della Giustizia».

Grande Tempio, Atena: Saga aveva già sentito quelle parole.

Nei dintorni di Rodorio da sempre circolavano voci strane: voci che riguardavano un luogo nascosto abitato da uomini con poteri straordinari, capaci di spaccare la terra con un calcio e brillare di luce propria; eroi ammantati di armature bellissime, al servizio di una divinità il cui culto era caduto in disuso da almeno un millennio.

Leggende e fantasie, in sostanza; storie per bambini che a lui piaceva ascoltare, ma alle quali non aveva mai creduto.

«Mi dispiace signore, ma non vi credo. Non sono un moccioso qualunque, che si lascia incantare dalla prima storiella; non si cresce con un padre come il mio senza imparare presto a distinguere il vero dal falso. Perciò, vorrei che mi diceste chi siete davvero, e cosa volete da me».

Nonostante la dichiarata diffidenza dimostratagli, Shion – o Tenzin, o chi per lui – non si scompose affatto; ampliò anzi il suo precedente sorriso che, se non fosse stato per la solennità del soggetto, si sarebbe detto estremamente divertito.

«Vedo che, a dispetto dell’età, sei già piuttosto altezzoso. Qualità utile la sicurezza in se stessi, per un cavaliere – a patto che non si trasformi in superbia».

«Prima di avanzare altre obiezioni,» continuò poi, troncando sul nascere la replica che era salita alla bocca del suo giovanissimo interlocutore «vorrei che tu rispondessi a questa domanda. Dimmi, Saga: ti sono mai successe cose che la gente comune definirebbe anormali? Cose che pensavi potessero accadere solo nella fantasia?»

A quelle parole, Saga sentì il respiro bloccarsi in gola e la voce venire meno, ogni protesta dimenticata: benché si fosse prodigato grandemente – senza però ottenere successo – a cancellarli dalla memoria, non poteva ora non pensare agli assurdi e inspiegabili fatti recentemente capitatigli.

Non ne aveva parlato nemmeno con Kanon, per paura che lo credessero pazzo – lui stesso si era posto il serio dubbio di esserlo, talvolta.

Tuttavia, come poteva adesso negare la verità a quegli occhi straordinariamente indagatori che lo fissavano?

Aveva la bizzarra sensazione che, se l’avesse fatto, lo straniero si sarebbe accorto subito della menzogna.

Così, facendosi coraggio, disse: «Sì, da qualche tempo mi capitano cose straordinarie. Cose che faccio senza quasi rendermene conto. Non so neppure se dipendano completamente dalla mia volontà-» si interruppe, esitante.

Shion annuì, come se si fosse aspettato di sentire esattamente quelle frasi: «Continua».

«All’inizio succedevano di rado, sicché mi sforzavo di non farci caso. Davo la colpa alla stanchezza e alla troppa immaginazione, ma poi… poi hanno iniziato ad accadere più di frequente e-» il bambino tacque di nuovo, nervoso.

«Quando parli di “cose”, che intendi?» lo spronò l’altro, gentilmente.

«Cose di diverso tipo: correre a lungo senza stancarmi per nulla, ad esempio. Sbucciarmi le ginocchia e ritrovarle completamente guarite il mattino dopo. A volte mi sembra quasi di percepire i pensieri altrui, come se potessi leggere nelle menti… ma, soprattutto, mi capita di distruggere gli oggetti. Non romperli o spezzarli, no, proprio distruggerli.

Specie quando sono molto arrabbiato, mi succede di afferrare qualcosa e desiderare di scagliarla a terra, ma non termino di formulare il pensiero che questa… esplode fra le mie mani, e finisce in polvere».

«Quando sei nato, Saga?» lo interruppe l’uomo, precipitosamente.

«Il mio compleanno cadrà fra pochi giorni: sono nato il 30 di maggio» rispose Saga, stupito per quella domanda fuori luogo «Ma-»

«Gemini. Le stelle non hanno mentito nemmeno stavolta» sussurrò Shion a se stesso, rapito; poi, sembrò riscuotersi.

«Inusuale resistenza fisica, rapida capacità di rimarginazione delle ferite, facoltà di tipo psichico, abilità di disgregazione molecolare… c’è altro?»

«No, signore» il ragazzino lo guardò con una punta di panico e imbarazzo, prima di proseguire «Ma voi mi credete? Non pensate che sia uscito di senno, vero?»

Poi si arrestò di botto, mordendosi forte le labbra – forse aveva parlato troppo.

Anche se l’istinto, nonostante tutto, continuava a suggerirgli che di quell’uomo misterioso e bellissimo si poteva fidare, questi rimaneva un perfetto sconosciuto, del quale nemmeno il nome era sicuro: chi gli assicurava che non lo stesse ingannando?

La sua ritrovata reticenza sembrò convincere Shion a essere un po’ più incisivo.

«No che non sei pazzo, Saga» affermò, sporgendosi appena verso di lui «O, perlomeno, non lo sei più di quanto lo sia io».

Gli rivolse ancora un sorriso, prima di continuare: «Il fatto che tu sia capace di compiere simili prodigi è il motivo per cui sono giunto fino a te. Ti sarai chiesto come facessi a sapere di aspetti tanto personali della tua vita, immagino».

«Immaginate bene».

«Ebbene, sono state le stelle in persona a rivelarmelo. La costellazione alla quale appartieni – quella dei Gemelli – già da tempo aveva individuato in te il suo futuro rappresentante; io ho solo dovuto interpretare il messaggio da lei inviatomi».

«A-a cosa apparterrei, io?»

«Alla costellazione di Gemini, la terza delle dodici Costellazioni Zodiacali. Le facoltà che prima mi hai indicato non sono altro che le iniziali manifestazioni di un potere discendete dalle tue stelle; un potere che, se ben sviluppato, ti porterà a divenire uno dei dodici Santi dorati protettori della Dèa Atena – un cavaliere d’oro».

«Oh» commentò Saga, un po’ stupidamente.

Ecco svelato l’arcano, infine: lo straniero altri non era che un invasato, simile ad alcuni svitati di Rodorio davvero convinti di ciò che predicavano. L’esistenza di Atena, del suo Santuario e di cavalieri atti alla protezione e alla salvaguardia dell’umanità per loro non erano leggende, ma sacrosanta verità.

Triste constatare come un uomo così prestante, così pieno di mistico fascino potesse far parte di quella schiera di folli. Oppure no?

Non sapeva più cosa pensare.

«Leggo il dubbio nei tuoi occhi, ragazzo: non credi del tutto a quello che ti sto dicendo, eppure appari meno pronto di prima a condannare come false le mie parole. A questo punto, esiste un solo modo per convincerti» esclamò Shion, alzandosi dal divano con un movimento fluido.

Saga lo guardò ergersi in tutta la sua statura, a torreggiare per un attimo su di lui; subito dopo, si chinò appena e gli tese le mani.

«Dammi le mani, Saga».

«Perché?»

«Devo mostrarti una cosa. Fidati di me».

Il bambino inchiodò i propri occhi a quelli dell’altro, incerto, finché non acconsentì a posare i suoi piccoli palmi su quelli aperti, grandi e forti, che Shion gli stava porgendo.

Nel momento in cui le loro mani si toccarono un flusso di energia si insinuò delicatamente in Saga, dolce come la carezza del vento alla sera e potente come la risacca del mare sugli scogli – gli riempì la testa, gli occhi, le ossa. Il cuore.

Attraverso esso vide cavalieri vestiti di armature splendenti, scalinate e templi di marmo bianco, esplosioni di stelle, sangue, sudore e fatica; vide l’oro brillare attorno a uomini impegnati in combattimento e potere, misericordia, dedizione e onore.

Infine, vide una ragazza dagli occhi cerulei e i capelli del colore del legno circondata di luce abbagliante e seppe, in qualche modo, che Lei era il fine ultimo di ogni cosa.

Lo comprese con una sicurezza assoluta, indicibile, devastante – una sicurezza che gli anni e gli eventi avrebbero poi corroso fino a distruggere, ma che, in quel momento, gli parve inossidabile.

«Co-cos’era?» chiese balbettando, una volta terminato il contatto «Cos’era quello

«Questo?» Shion lasciò che un globo di luce aurea continuasse a splendere ancora per un secondo sulle sue dita, prima di estinguerlo chiudendo la mano a pugno «Questo si chiama “Cosmo”, ed è la radice della forza di ogni cavaliere.

Sin dalla nascita tu racchiudi dentro di te il potere della costellazione da cui sei guidato, potere che si genera attraverso un’esplosione dello stesso Cosmo contenuto nel tuo corpo; fino a ora tu l’hai liberato solo in particolari occasioni e senza rendertene conto, ma è invece possibile controllarlo. Ci vogliono anni di duro allenamento per imparare a dosarlo e incanalarlo correttamente; solo allora un saint diviene davvero meritevole di indossare l’armatura che ha scelto – o alla quale è naturalmente destinato, come nel tuo caso».

Saga l’aveva ascoltato rapito, capendo la metà delle parole, troppo scosso e affascinato per riuscire a concentrarsi. Aveva così tante domande che non sapeva da quale cominciare.

«Dunque, io sarei un cavaliere. Un futuro cavaliere,» si corresse svelto, senza comprendere cosa questo comportasse «che ha dentro di sé un potere proveniente dalle stelle. Ma se tutti i cavalieri contengono questo… questo… »

«Cosmo?» suggerì l’altro, attento.

«… questo Cosmo, sì, e se solo loro sono capaci di svilupparlo, allora vuol dire che anche voi lo siete. Un cavaliere, intendo».

«Lo sono stato. Adesso ho l’onore di ricoprire il ruolo di Gran Sacerdote, il quale rappresenta il portavoce della Dèa sulla Terra, ma prima ero il cavaliere d’oro dell’Ariete. Tale carica – e, con essa, l’armatura – continuerà a spettarmi fino a che qualcun altro non mi succederà».

«E la ragazza che ho visto… chi era?»

«Era la Dèa Atena. O, perlomeno, la reincarnazione della Dèa che io ho servito».

Il bambino non si stupì troppo per la rivelazione.

Dentro di sé, già aveva intuito la risposta: una figura così splendente non poteva appartenere ad altri che a una Dèa.

Ripensandoci, venne preso da un desiderio incontenibile di incontrarla.

«La vedrò anche io, vero?» chiese quindi, speranzoso – incredibile come ora ne sentisse quasi la necessità, visto che solo poco prima non aveva nemmeno creduto alla sua esistenza.

A quelle parole, la morbida curva delle labbra di Shion assunse una piega appena più dura: «No, mi spiace. La donna che hai visto non… non è più in vita. Lei era solo una delle tante forme umane assunte da Atena nel corso dei secoli. Si chiamava Sasha».

Un velo di malinconia calò su di lui dopo tale constatazione, un velo sottile di nostalgia e tenerezza che egli si affrettò rapidamente a dissipare.

«Ogni volta che la Terra viene minacciata la Dèa Atena rinasce sotto spoglie umane per riformare le sue fila di cavalieri e condurle in battaglia contro le forze del Male. Le stelle mi hanno rivelato che presto Ella tornerà fra noi e, quando accadrà, il Santuario dovrà essere pronto ad accoglierla; per questo i cosmi sopiti dei potenziali saints si stanno risvegliando solamente ora. Una nuova generazione di guerrieri sorgerà dalle ceneri della vecchia, e tu sei destinato a far parte della schiera più alta di questa. Non ti nascondo che l’addestramento sarà molto duro e che potresti anche non farcela, e tuttavia è un rischio che bisogna correre: la morte è la compagna per eccellenza di un cavaliere – questo rammentalo sempre».

Il suo discorso fu bruscamente interrotto da un bussare non troppo discreto.

«Signor Tenzin? Tutto bene, lì dentro?»

La voce di Cosmas era impregnata di un’evidente impazienza, e anche di un po’ di timore; nell’udirla, Saga sobbalzò di sorpresa.

«Sì, signor Léandros, grazie! Datemi ancora un momento!» fu la pronta replica di Shion, mentre il bambino riprendeva coscienza della presenza del genitore nell’altra stanza.

«Mio padre!» bisbigliò quindi quest’ultimo, spaventato «Mio padre è di là! É stato di là tutto il tempo!»

«E allora?» ribatté l’uomo, con una calma antitetica al tono agitato dell’altro.

«Voi non lo conoscete, ma-» tentennò Saga, pieno di vergogna per la condotta probabilmente tenuta dal padre «ma io sono sicuro che ha origliato l’intera nostra conversazione, dall’inizio alla fine. Anche ammesso che abbia creduto alle vostre parole, non mi lascerà mai libero di andarmene… non senza un sostanzioso corrispettivo in denaro» ammise infine tristemente, chinando la testa.

«Se è solo questo ciò che ti preoccupa, puoi stare tranquillo: ti posso assicurare che Cosmas Léandros non ha udito una sola sillaba della nostra chiacchierata. Non perché non ci abbia provato, beninteso: semplicemente, non ne ha avuto la possibilità» ammiccò Shion, astenendosi dallo spiegare il significato della propria affermazione.

«Come fate a esserne così sicuro?»

«Ho anche io i miei… trucchi» rispose lui, evasivo «Ora, però, non abbiamo più tempo: devo farlo entrare, altrimenti si insospettirà. Prima di tornare alla nostra recita, ho bisogno che tu giuri di non rivelare a nessuno la vera natura di questo colloquio. Mantenere segreta l’esistenza di Atena e del Grande Tempio è della massima importanza».

«Lo giuro».

Aveva promesso senza esitare perché era convinto che quella fosse la cosa giusta da fare, nonché l’unica alternativa possibile: non sarebbe riuscito a spiegarne il motivo, ma sentiva di dovere obbedienza a Shion come per istinto naturale.

«Ci sono tante cose che ancora non sai, Saga. Quello che ti ho detto è solo una minuscola parte di tutto ciò che compone il Mondo Segreto – che diventerà anche il tuo mondo, se lo vorrai».

Si interruppe per guardarlo dritto negli occhi, e di nuovo Saga si sentì schiacciare dal peso di quello sguardo – da perdercisi dentro, tanto era profondo e intriso di lontananze.

«Fra qualche minuto permetterò a tuo padre di venire e, in base alla risposta che adesso mi darai, io fingerò o meno di comprarti, cambiando la tua esistenza per sempre. Pensaci bene, è una scelta dalla quale sarebbe poi impossibile svincolarsi: una volta che si è diventati servitori di Atena Glaukopis, lo si resta per la vita. Il tuo dovere verrà al di sopra di tutto e di tutti – non potrai mai avere una famiglia, ad esempio. Mi rendo conto che sei solo un bambino e che potresti non capire il peso di certe rinunce… ma io devo chiedertelo comunque. Accetti di dedicare la tua vita al servizio della Dèa Atena? Accetti di lasciare tutto questo e seguirmi?»

Saga rimase in silenzio per quelli che a lui stesso sembrarono anni.

Aveva l’occasione di andarsene e buttarsi alle spalle tutto l’odio, tutta la rabbia, tutto il rancore. Dove prima c’erano derisione, degrado, umiliazione, ora avrebbero potuto esserci dignità, rispetto, potere.

Nessuno avrebbe più riso di lui; nessuno l’avrebbe più insultato. Nessuno più l’avrebbe fatto sentire come l’ultimo dei rifiuti.

Era la sua unica chance per dimostrare al mondo che perfino uno come lui, nato nella polvere, poteva aspirare a far parte dei primi – anzi, no. A essere il primo.

Niente lo tratteneva ancora lì. Niente, eccetto Kanon.

«Kanon… »

«Accetto. Vi seguirò».

 Oh, sì, Saga ha tenuto fede alla sua promessa.

Ha seguito Shion per anni. L’ha imitato e onorato come si fa con un modello, con un maestro – con un padre.

Si è fatto uomo sotto il suo sguardo insondabile lottando e sputando sangue, senza lamentarsi mai; è diventato cavaliere fra mille rinunce, traendo forza e coraggio dai suoi rari cenni di approvazione, solo per essere, un giorno, il successore del grande pontefice a cui deve ogni cosa.

Per dimostrarsi degno dei suoi insegnamenti e occupare, dopo di lui, il posto che gli spetta di diritto – quello alla destra della Dèa.

Ma, nonostante tanta devozione, Shion l’ha tradito e Saga di Gemini si è ritrovato ad essere secondo – ultimo – di nuovo. E questa volta per sempre.

«Aiolos di Sagitter, sarai tu il mio successore».

Ah, Aiolos: Aiolos il Luminoso, Aiolos il Santo.

Aiolos, amico e amante, ora futuro Gran Sacerdote.

No, in questo momento non può concedersi di pensare a lui; più tardi ne avrà tutto il tempo.

Adesso c’è un’altra cosa che deve fare.

Sulla cima della Collina delle Stelle l’aria sembra più pulita, più dolce, più sacra; Saga ne inspira una profonda boccata e poi fa un passo avanti.

«Vieni, Saga. Ti stavo aspettando».

 

***


Gli azzurrissimi occhi di Shion non hanno rughe agli angoli, eppure danno l’impressione di essere antichi come il mondo.

Ma quella profondità, quella specie di ponte fra passato e futuro che vi scorreva attraverso adesso si è spezzato: non c’è più nulla di lontano nel loro fissare immoti il manto stellato che li sovrasta.

E Saga, per la prima volta da quando lo ha conosciuto, al cospetto di quello sguardo non si sente più piccolissimo.

Anzi, rimirare la figura del fu Shion dell’Ariete accasciata ai suoi piedi gli dà una strana sensazione – quasi di euforia, di onnipotenza.

«Adesso sono io il solo artefice della mia sorte,» sussurra sprezzante al cielo di velluto blu, con la voce arrochita dall’adrenalina «e mi prenderò quello che è mio, costi quel che costi».

Getta un’ultima occhiata assorta al vecchio pontefice, prima di chinarsi su di lui; qualcosa gli punge il petto come uno spillo, mentre lo sveste, tuttavia Saga si sforza di ignorarlo.

Non è arrivato fin lì per essere sconfitto da banale rimorso e, comunque, dopo Capo Suonion ormai ci si è assuefatto.

La veste sacerdotale gli va troppo grande ed è sporca di sangue, ma lui, indossandola, si sente ugualmente un Dio – un Dio unico, indivisibile.

Sì, esistono notti che sono fatte apposta per rimanere impresse nella memoria fino alla morte; Saga questa notte la ricorderà per sempre, perché non si è mai sentito tanto intero come adesso.

Quanto in realtà si stia sbagliando lo capirà solo fra tredici anni.



. 

 

 

Note dell’autore

 

Dato che la storia si chiama "Le quattro stagioni", perché i capitoli sono cinque?

Non solo per smentire il detto "Non ci sono più le mezze stagioni", no; perché l'idea per quest'ultimo racconto l'ho covata così a lungo – quasi due anni, a dir la verità – che mi sono sentita in dovere di svilupparla, in un modo o nell'altro. Probabilmente non ne è valsa la pena, ma ormai eccomi qui.

Come certo avrete capito, la vicenda è ambientata poco dopo gli avvenimenti di Capo Suonion, e subito prima della Notte degli Inganni: ossia, nella notte – non ricordo bene, ma immagino sia stato di notte – durante la quale Saga uccide Shion.

Il presente si svolge in tre momenti diversi, mentre la parte centrale in grassetto corsivo è un flash-back avente a oggetto un ricordo risalente al giorno in cui Saga scoprì da Shion di essere un eletto di Atena.

A proposito di questo, ci tengo a precisare che i fatti narrati e le dinamiche sono assolutamente arbitrarie e ipotetiche.

Non ho idea di come i gemelli abbiano vissuto prima di arrivare al Santuario, né di come venissero reclutati i cavalieri, perciò ho costruito la scena secondo la mia immaginazione.

«[…] solo allora un Saint diviene davvero meritevole di indossare l’armatura che ha scelto – o alla quale è naturalmente destinato, come nel tuo caso» : questa frase si spiega con la mia convinzione – errata o meno, non lo so – che gli appartenenti alla casta dorata non abbiano rivali in lizza per la stessa armatura, né che possano scegliere quale corazza conquistare; secondo me, la potenza del loro cosmo li rende unici. Uomini nati per vestire quella determinata cloth, e solo quella, in sostanza – Kanon sarebbe un'eccezione.

Altri chiarimenti non me ne vengono.

Passo e chiudo, quindi, ringraziandovi per l'attenzione.

Un abbraccio!

 

 

 

 

   
 
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