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Autore: Gatto Magro    28/10/2013    0 recensioni
- Adesso c’è sangue anche sulla lampada, quella verde in salotto, e sono andata fuori in silenzio però, perché ho pensato che ora dobbiamo accendere la lampada col sangue di Brian sopra e mi è venuto da vomitare.
Genere: Angst, Dark, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sono tornata.
Ci ho messo un mese per scrivere questo capitolo, tra scuola e studio e pazzia e tazze di tè alla menta, ma non ho abbandonato Brian, Sun e compagnia bella. E non ho nemmeno finito di rompervi le palle, perciò eccovi il Capitolo-Diciassette-Che Dovrebbe-Essere-Il-Sedici.
Vi siete ricordati di rileggere il finale del capitolo scorso? Bravissimi.
Comunque mi trovo qui sopra soltanto perché volevo fare una cosa un po’ strana, cioè una dedica.
Ho scritto un bel pezzo di questo capitolo pensando a RuboLaVitaDentroDiMe e a tante cose di cui mi aveva parlato. In realtà non so nemmeno se leggerai, ma in ogni caso Placidi Incubi è per te, cara Ragnatela. E anche un po’ per tutti, se ad un certo punto vi riconoscete.
Gatto Magro
 
 
 
 
 
 
 
cheers baby cheers
 
    Novembre 2012
 
Mi ustiono le dita sui tuoi messaggi insignificanti
 
- Oh, Brian. Non fare la femminuccia.
Scrive da tutto il giorno. È la cosa più facile del mondo: otto parole e un senso che non saprebbe spiegare, perché non capisce da dove gli sia uscito. Tuttavia lo sente come un bisogno fisico, colargli dallo sterno e scivolargli attraverso la curvatura delle costole, inzuppandogli gli organi interni.
Deve vedere quella frase prendere vita davanti ai suoi occhi, così i minuti potranno scorrere più velocemente e un dio gli soffierà il coraggio nelle vertebre.
Sul vapore delle vetrine dei negozi di elettrodomestici, dei finestrini delle automobili parcheggiate, coperte di schizzi di fango, e sullo strato di sporcizia indefinita che ricopre i tavoli del League; la scrive ovunque gli capiti e se trovasse un ago se la inciderebbe dentro la pelle.
A quest’ultimo pensiero, si immobilizza con il dito sospeso sopra “insigni…”, improvvisamente contrariato.
Sono proprio una femminuccia.
- Come lavoro part time potresti darti alla pubblicazione di poesie, ci hai pensato?
- Ma chiudi il becco. – borbotta il ragazzo a labbra serrate, sprofondando contro lo schienale della panca di legno. Chiude gli occhi e cerca concentrarsi sulla musica masticata delle casse, ridotta ad un sottofondo dei rumori all’interno del locale – voci, baci, bicchieri, risate, urla e tacchi di scarpe che battono il pavimento unto.
- Non è cortese ignorare i compagni di bevuta. – osserva educatamente una voce che proviene poco più in là della pinta di birra, intatta e grondante condensa sullo straccetto improvvisato come sottobicchiere. Il vetro del boccale, già opaco e incrostato di vecchio sporco, diventa ad un tratto ancora più scuro, e due dita di birra scompaiono.
Subito dopo, come se non fosse mai successo, la luce torna a fluire contro il vetro.
- I went for the study of evil souls and wish that they replied – canticchia Brian muovendo la testa al ritmo veloce della canzone. È talmente strana quell’espressione allegra sul suo volto, che lo spirito dal completo a righe si dimentica di inventare un commento sarcastico. Se solo non fosse in una condizione in cui i giuramenti hanno ben poco valore, giurerebbe che il ragazzino sta quasi sorridendo mentre tamburella con le dita sull’orlo del tavolo.
- Brian, mio Dio. Che ti prende? – domanda, sbigottito.
- Adoro questa canzone! – esclama il ragazzo, mimando un piccolo assolo di chitarra sulle note che sopravvivono alla confusione.
- Io la trovo piuttosto sgraziata. – obietta lo spirito, facendo sparire un altro sorso di birra acidula. Brian lo ignora completamente e si raddrizza sulla panca con le orecchie tese, ipnotizzato dalla musica come un gatto da una mosca che gli ronza davanti al muso.
- E mi ricorda qualcosa, ma non mi…
- Oh, beh. Davvero interessante. – Lo spirito sventola una mano in un gesto annoiato, scacciando anche le ultime briciole della canzone contro un gruppetto di ragazze dalla schiena nuda e lucida. – Senti, ho trovato una cosa che dovrebbe davvero preoccuparti.
Brian, con ancora gli occhi spalancati e il labbro inferiore stretto fra gli incisivi, gli fa distrattamente cenno di continuare. Si sta sforzando di ricordare dove ha già sentito quella musica, ma i rumori del locale e la voce penetrante dello spirito dal completo a righe soffocano lentamente ogni traccia che si era risvegliata nella sua mente, e quell’espressione di curiosità infantile gli si spegne sul volto quando la melodia riaffonda nell’inconscio. Deluso e infastidito, con ancora impresso nelle orecchie il timbro nasale del cantante, appoggia il mento sul tavolo e si rassegna a dar retta allo spirito, che intanto ha già preso a parlare a ruota libera nel suo solito tono aristocratico.
- Proprio l’altro ieri, sai, quando sono caduti quei quattro centimetri di neve e Cinda ha tirato fuori il cappotto rosso, mi sono svegliato all’improvviso in un luogo angusto, buio e molto puzzolente. Non capivo dove fossi finito, ho pensato di star sognando o che mi avesse ficcato lì il vento, e intanto quell’odore continuava a pizzicarmi il naso…
- Tu nemmeno ce l’hai, un naso. – lo interrompe Brian, ferreo.
- Sì che ce l’ho, razza di maleducato. Questo cosa ti sembra? – inveisce lo spirito indicandosi vagamente sopra il colletto della camicia, punto sul vivo.
Il ragazzo si sbuffa lontano dagli occhi un ciuffo di capelli neri, ben deciso a non lasciarsi trascinare in discussioni ontologiche. – Vai avanti, per carità.
- Dunque, dicevo? Ah, sì. L’odore. Mi ha del tutto sconvolto, non riuscivo a sentire altro che non fosse quel misto di polvere, fuoco, carbone… Ed è successa una cosa incredibile. Un ricordo mi ha invaso la mente, Brian. Che colori, che immagini meravigliose, e tutto quel calore… Cinda ha tirato fuori il cappotto rosso perché aveva freddo. Ero finito dentro un camino.
Lo spirito dal completo a righe tace, come se l’emozione fosse troppo intensa e stesse cercando di arginarla. – Ero dentro un camino, e l’odore di bruciato mi ha ricordato il giorno in cui sono morto.
Sorpreso, Brian solleva il mento dal tavolo. È essenziale per lui sapere dove la morte di uno spirito è avvenuta, perché altrimenti non sarebbe in grado di staccarlo completamente dall’esistenza terrena ed inviarlo allo scarico di anime; lo spirito dal completo a righe lo assilla da anni, tormentandolo affinché rintracci il suo cadavere, ma Brian non ha mai trovato neanche una goccia di sangue in centinaia di notti insonni.
Sta giusto per aprire la bocca e dire qualcosa, visto che il fantasma sembra perso in un fiume di emozioni difettose, quando qualcosa di liscio e affusolato entra nella sua visuale.
Un paio di mano atterra sul tavolo, facendo sobbalzare i boccali vuoti.
Profumo di fragola sintetica, fondotinta e aspirina.
C’è una ragazza a due centimetri dalla faccia di Brian, che, con due occhi dal colore sbavato da un pesante strato di trucco, lo fissa in maniera sinistra.
Brian vede le sue labbra schiudersi, ma al posto delle parole un urlo acutissimo e allo stesso tempo smorzato, come lo sferragliare di un treno arrugginito, gli perfora le orecchie. Rimane intontito a sequire la scia luccicante del rossetto della ragazza, troppo freddo e rosa sulla sua pelle ambrata, mentre lei continua a parlare; lo spirito dal completo a righe si inabissa fra le assi del pavimento e le urla si fanno sempre più distanti, abbandonando piccole crepe sul bordo del boccale e sulle unghie di Brian.
- Ems, per te mi sta ascoltando o è perso in un viaggio mentale?
Un altro visetto sbuca da sopra la spalla nuda della ragazza, nascosto subito da una mano che prende a sventolare davanti al naso di Brian.
- EEEEEEEHIIIIIIIIIIIII?
- Smettila, così si rincoglionisce ancora di più!
- Ahia.
- Aspetta, cosa? Ha parlato!
Le ragazze si zittiscono, avvicinandosi ancora di più per sentire. Brian abbassa lo sguardo sulle proprie mani artigliate al legno marcio del tavolo.
- Ahia. – mormora di nuovo, esaminando l’unghia dell’anulare destro: è aperta in due da un solco rosso scuro, da cui cade una lunga lacrima di sangue.
Una delle due ragazze si volta per estrarre dalla borsa un fazzoletto di carta, che porge a Brian in silenzio, mentre l’altra si limita a storcere il naso e a guardare da un’altra parte, gli occhi velati da una strana espressione.
Quella che ancora lo fissa non fa che masticarsi quel rossetto lucido, e alla fine sembra non trattenersi più e scoppiare:
- Eri nella nostra scuola oggi, alla Met. Non ti ho mai visto prima, o almeno credo, perché mi sei in qualche modo familiare.
- Non so di cosa stai parlando. – Metà del fazzoletto è imbevuto di rosso ed emana un forte odore di ferro che gli pizzica nel naso. Ha riconosciuto la ragazza: è quella con cui si è scontrato mentre scivolava per i corridoi della Met, e l’altra è la sua amica dai capelli color carota che l’ha apostrofato gridando. A dire il vero non gliene importa molto, lui è lì per Benjiamin, e poi sta cercando di fare mente locale per localizzare lo spirito dal completo a righe; perché diavolo si è fatto prendere dal panico in quel modo? Si sarà rifugiato a gocciolare fra le grate delle fogne al limitare del bosco, come fa sempre quando lui e Brian litigano furiosamente e si lascia riempire di dubbi noiosi circa i suoi assurdi ricordi bucherellati.
Gli stava parlando del fuoco, del calore…
- Ah! – Brian sussulta sulla panca e ritira di scatto la mano ferita dal palmo della ragazza bionda. Il fazzoletto con cui cercava di tamponargli il dito si strappa, rimanendole appiccicato ai polpastrelli in lunghe fibre collose. Mentre le due lo fissano allibite, Brian volta la mano per scorgere dei segni, ma non c’è nulla.
Si era sentito bruciare la pelle, a contatto con lei.
Un senso di allarme comincia a strisciargli su e giù per l’intestino come un’amara intuizione: e se fosse stata questa ragazza a spaventare in quel modo lo spirito?
- Saki, non è meglio se andiamo? – miagola l’altra sottovoce, scrutando Brian di sottecchi, stando bene attenta a non sfiorare con lo sguardo le sue dita insanguinate. – Così ti lavi le mani anche tu…
La bionda la ignora. Ogni traccia di timore, o almeno sorpresa, è già scomparsa dai suoi occhi obliqui. Una sorta di sensualità liquida ha preso il suo posto, e le iridi scure sembrano brillare e pulsare lievemente come una luna sdoppiata dalle pozzanghere.
È bellissima, e perfettamente consapevole di esserlo. Brian rimane in silenzio ad aspettare la prossima mossa dello strano animale che gli sta di fronte, un po’ impossibile ed evanescente fra il luccicare del rossetto e i vestiti leggeri che sembrano starle addosso per lo stesso magnetismo che vibra fra le sue ciglia.
- Va tutto bene? – domanda lei con un accenno di sorriso, spostanto i capelli da una spalla all’altra.
- Sì. – ribatte lui, cauto. Lancia un’occhiata alla porta, da cui non compare ancora nessun ciuffo biondo sotto un cappello di lana, e quasi senza accorgersene passa le dita sopra le parole incise sul legno.
Insignificanti”.
- Sembri uno abituato al dolore, in ogni caso. – La bionda lo dice in tono amichevole, ma le sue parole dipingono sul visetto pallido della ragazza insieme a lei un’angoscia profonda. Quando questa si solleva appena per dare una scorsa veloce ai lividi sul volto di Brian, un’onda di empatia verde acceso gli lambisce i sensi, e sotto le trecce del maglione può figurarsi i brividi sulle sue esili braccia – lo accarezza per un lungo secondo, l’onda, per poi ritirarsi timidamente dietro una cortina di sottili capelli rossi, e stare lì a rimescolarsi.
- Chi siete? – fa Brian incuriosito, inclinando il capo per scorgere il viso nascosto della ragazza.
- Mi chiamo Saskia – la bionda scivola sulle “s” con voce roca – e lei è Emma… Emma, che fai? – aggiunge cambiando improvvisamente tono, afferrando il gomito dell’amica.
Emma mugola e alza il viso. I capelli seguono la linea morbida della guancia e cadono dalla fronte, scoprendo lei che continua a torturarsi il naso con le dita.
- Scusa. Scusa, è che mi da tanto fastidio…
- Le da’ fastidio vedere il sangue. – Sospira Saskia infastidita, staccandosi dalle dita i rimasugli del fazzoletto insanguinato. Brian si affretta a cacciare le mani sotto il tavolo.
- Così va meglio, grazie. – dice Emma stirando un sorriso all’indirizzo del ragazzo, che si accorge un po’ tardi di dover ricambiare.
- D’accordo, senti – Interviene Saskia, riprendendo da dove si erano interrotti. – io sono sicura di averti visto stamattina, ma se ti fa piacere farò finta che non sia mai successo… A patto che tu ci dica che cosa stessi facendo lì.
- Forse ha inteso male il significato di “affari propri”.
- Forse hai inteso male il significato di quello che ho detto. Se non ci racconti questa bella storia, noi ti denunciamo al consiglio scolastico per le scritte sui muri.
Gli occhi di Emma balzano dal sorriso falso di Saskia alla smorfia indifferente di Brian, che si fronteggiano dai due lati del tavolo mangiucchiato. Alla ragazza dai capelli color carota dispiacciono tutte le situazioni di conflitto, che riguardino scaramucce fra due bambini o le guerre nucleari: lei sente il cuore vibrare e deve annodarsi le dita per non afferrare le mani di qualcuno durante un litigio. Per un attimo pensa di intervenire, poi le torna in mente il dito scorticato del ragazzo e decide di starsene in disparte a preoccuparsi silenziosamente.
- Non riesco a pensare a nulla che possa importarmi di meno di un consiglio scolastico. Per quello che vale, non sono stato io a fare quella roba sulle pareti.
- D’accordo. D’accordo… - le unghie irregolari di Saskia producono un rumore strano, tamburellando sulla superficie unta del legno, può essere un bussare disperato come una corsa di un animale zoppo. La luce viene risucchiata dentro la sua testa quando il sorriso le si cancella dalla bocca di plastica. – Non ti ho nemmeno chiesto come ti chiami.
- Brian.
- Brian cosa?
- Collins. – mente Brian impassibile, sostenendo lo sguardo penetrante della ragazza. Gli viene quasi automatico, perché dentro di sé, in maniera confusa e aggrovigliata, avverte ancora quel senso di allarme e minaccia che gli aveva procurato toccarla. Si sente come se stesse misurando l’orlo di un baratro nebbioso, e lo preoccupa non riuscire a sondare nulla di ciò che si trova nel fondo. Sotto il trucco color fango di Saskia si apre una voragine infinita di materia spessa, fitta come una rete, dove il puzzo artificiale si scioglie nel calore di qualcos’altro che a Brian continua a sfuggire, e poi dov’è finito Benjiamin, sono le nove e mezza ormai e lui dov’è, lo stomaco di Brian perde schegge di ghiaccio e bolle d’angoscia e lui non torna ancora dalla notte di novembre.
Distoglie lo sguardo da Saskia e lo lascia vagare nel vuoto, attraverso i corpi lucidi che hanno riempito il locale in secondi per lui insignificanti. Ci sono due ragazzi, vestiti di viola da capo a piedi, che non fanno che ridere scoprendo dei lunghi denti candidi per la gioia di un gruppo di uomini tutti uguali, tarchiati e con la faccia nascosta dalla barba, la canottiera macchiata di sudore e di un intruglio color Jack Daniel’s dal sapore di vomito, schiere di felpe colorate e troppo leggere sopra ragazzi pelle e ossa che tremano di freddo e si guardano truci pensando ai numeri irrazionali e alle macchinette dei preservativi, ai ventitré anni e alle strade di campagna divorate dall’erba cattiva, pensano i ragazzi con la gola tagliuzzata dalle lamette confortevoli – così lisce da passarsele anche sui polsi, che non succede niente, e sulle spalle sulle cosce sulla vita, che non ti farà male davvero – e non ci pensano alle ragazze che si accoccolano sulle loro ginocchia o sotto i tavoli a piangersi sulle ginocchia spellate, con la consolazione delle piccole luci delle loro magliette corte, strappate, rubate e tagliate, raccogliendo a grumi, fra le mani a coppa, le facce che si incollano addosso tutte le notti dopo aver pianto acido, e se ne stanno così, a spegnersi piano, sotto una musica che non li capisce, bollenti e sbiaditi e troppo stanchi di vivere per trovare il coraggio di scappare dalle corriere e dai treni ad alta velocità dalla vernice scrostata, per amare senza uccidersi e per essere felici che tra poco è Natale.
- Che cosa guardi? – soffia la ragazza dai capelli d’oro e gli occhi da Medusa.
- Niente. - risponde Brian.
- Allora è Francesca, quella con il maglione blu. È molto carina nei giorni pari, negli altri è un vero mostro perché va in crisi di astinenza e si strappa i capelli. L’hanno buttata fuori dalla squadra di pallavolo perché faceva cose strane negli spogliatoi… Ma dovresti chiedere ad Emilia, erano sempre appiccicate. Stavano insieme o cose così, si portavano dei regali tutti i giorni, incartati di verde. Un giorno Emilia si è messa a urlare in corridoio, e non erano parole, urlava e basta, di rabbia, e strappava la carta verde di un regalo e dentro c’era un biglietto del treno e hanno portato via Emilia legandola alla barella dell’ambulanza. Per due mesi non l’ha vista nessuno, poi è tornata a scuola e stava solo con Mordre, quello sfigato che le morde le dita sotto la finestra. Parlano solo di lampioni, ti giuro, dalla mattina alla sera. Credo lo facciano anche quando scopano.
- Saki. – la voce di Emma è infantile, e il suo viso scuro. – Smettila.
- Oh Ems, ma perché? Siamo tutti amici in questa vita di merda. L’altro giorno Costa ha smesso di farsi, sai Brian? Siamo tutti contenti per lui, e perché così c’è più eroina per gli altri. Il prezzo cala, è la legge del mercato. Emma e io non ci capiamo un cazzo degli andamenti economici, ma qui tutti sanno dirti dove puoi trovare ciò che ti farà felice. Tutti vogliono essere felici! Perfino Daphne, anche se non si stacca mai dal computer: ha paura di morire prima di finire una storia che sta scrivendo, e non parla nemmeno più, scrive e basta tutto il giorno, anche mentre mangia e mentre piange. Quel mascara che ha sulle guance è lì da un anno, non si scrosta più. Se ci pensi fa un po’ impressione, è vero, ma basta fregarsene e allora tutto va meglio. Lo dicono anche i libri. E lo scrivono sui muri, come stamattina. Perché alla fine Bee Han che cazzo vuol dire, se non questo?
- Saskia. Basta, per favore.
- Fregatene e vai a dormire, vuol dire. Chiudi gli occhi e iniettati qualche bel sogno artificiale che ti faccia meno paura del mondo, quando ti svegli. Addormentati su canzoni laceranti e vuote come il cielo, faremo tutti dei placidi incubi sulla fine delle linee degli autobus e sulla superficie dei laghi ghiacciati. Ad Emma questo fa paura, non ha ancora capito. Sembra così indifesa, vero Brian? In realtà anche lei è marcia dentro, come tutti quanti. Non deve fare finta di non fare schifo come noi, io so tutto di lei e…
- SASKIA SMETTILA!
Emma scatta verso l’alto, rigida e bianca come un lenzuolo, gli occhi lucidi dietro uno schermo di rabbia terrorizzata, i pugni stretti contro i fianchi. Il suo grido rauco, il suo movimento repentino strappano Brian dalla trance in cui era scivolato e zittiscono Saskia, ma per il resto potrebbe non essersi mossa affatto e non sarebbe cambiato nulla; la musica continua a grondare dal soffitto, le persone ad esistere intorno al loro tavolo e Saskia a sorridere canzonatoria.
Emma dondola sui piedi, furiosa e imbarazzata, ma più che altro codarda: in un goffo movimento raggira la sedia e corre via, zigzagando fra i tavoli per poi sparire dietro una robusta ringhiera in fondo al locale.
 - È piuttosto tenera, dopotutto. – commenta Saskia freddamente, uno sguardo gelido ancorato al punto dov’è scomparsa la ragazza.
Brian non commenta, confuso. Presta attenzione al flusso disordinato delle sensazioni di Emma, sotto il pavimento, consapevole del fatto che normalmente non se ne sarebbe curato affatto.
- Ti sbagli, sai. – commenta distrattamente, per distogliersi dai pensieri. – Le scritte sul muro.
- Perché dici?
- Per me, quelle lettere hanno un significato. Uno, trecentomila. Sono… importanti.
Di nuovo a fissare la porta chiusa, di nuovo lo stomaco rivoltato come un vecchio calzino.
Saskia lo guarda intensamente, come a cavargli altre parole dalla pelle, ma poi scuote la testa e fa per alzarsi.
- Guardati intorno: lo sai che ho ragione io. – afferma la ragazza – Devo andare a controllare che Emma non si faccia nulla. È stato un piacere conoscerti, Brian Collins.
Un vuoto “ciao” da parte del ragazzo rincorre la sua sfilata attraverso il League, che catalizza occhiate storte e lampeggianti alla carezza dei jeans corti sopra il sedere, ai buchi nelle calze e alla linea morbida delle scapole, ben visibili sotto la maglietta trasparente.


 


I’m coming home,
 I’m coming home I swear.
Just, wait another thousand years,  I made my plans a little bit wrong.
 I’ll be coming home
Someday.
 


 
“- E di’, un giorno ci tornerai a casa?
Lei lo guardò tagliente, facendogli seccare in gola il sorriso impacciato che tratteneva nel cuore.
- La mia casa sta alla destra della fine del mondo. Tu ci vorresti tornare?
- E a sinistra che ci sta, Aisling, a sinistra?
- La grandiosa caduta delle fondamenta.”
- Oceano 1951.
(più a sinistra che a destra)



 
 
Luglio 2002, ancora, perdonami.
L’ennesima visita, un balcone.
Una vertigine dilatata per sedici piani tutti uguali, piatti e quadrati e schematici e bianchi, senza spruzzi di disarmonia, senza angoli morbidi e nemmeno lo zucchero nelle macchinette del caffè, abbandonate in mezzo a corridoi lisci e vuoti.
Le scale rivestite di gomma blu, un balcone, il vuoto ben visibile attraverso le dita dei piedi scalzi; buca la consistenza della pelle e ricade all’indietro, lascivo, scorticando l’intonaco dell’edificio.
Un balcone sul buio di quel cubo inutile, dove si affacciano faccie grigie e morti viventi; e le nuvole, ricalcate dalle ombre filamentose sulle vertebre delle pareti.
Il bambino dai capelli scuri assiste indifferente alla festa in corso proprio sotto i suoi piedi sospesi, fra le foglie e la lanugine del bosso. Nelle sue orbite spente non ha fine la celebrazione senza senso degli spiriti, che sollevano il cappello e sventagliano le fibre muscolari iridescenti per salutare le finestre. Da alcune figure fosche oltre il vetro, attraverso l’infisso, scorre già via un’essenza che scintilla piano contro il muro, come bava di lumaca sotto la luce dei lampioni.
Le scie brillano in migliaia per gli occhi socchiusi di Brian, ma in cambio possono soltanto avere questo strano rigurgito di abbandono, che lo lascia seduto inerte su un balcone polveroso a considerare passivamente i quarantanove metri – davvero nulla, in fin dei conti – che lo separano dalle anime dei morti.


 
(Settemetriindietro,corridoiosilenziosoelucebianca,troppo.)

 
 
Sunshine sembra non essere più in grado di stare in piedi da sola.
Da quando la corsa del Mostro l’ha scagliata indietro, nel giardino di casa sua, soltanto tre settimane fa, le sue ginocchia non hanno smesso di tremare neppure nel sonno – e così cammina, la piccola Sunshine, cammina tutta la notte e va a sbattere contro suo padre che pure non riesce a dormire, contro la straniata preoccupazione di Collins e contro la confusione che le fa sembrare irriconoscibile persino casa sua.
Ora se ne sta aggrappata al proprio cuore, con le dita che scavano la pelle per sentirlo un po’ più vicino, un po’ più acceso, e sorveglia la figura immobile del fratellino seduto sul balcone dell’ospedale. Dei piccoli segni bianchi sono appena visibili sulla sua schiena nuda, simmetrici, all’altezza delle scapole, e Sunshine sa che continuano anche sul torso di Brian in due strisce speculari, dalle clavicole all’incavo delle ascelle.
Grace e Jimmy non fanno che tormentare i medici perché trovino un modo per cancellare le cicatrici, trascinando un Brian invariabilmente apatico su e giù per sedici piani da due settimane.
Non sembrano aver notato che al loro bambino è caduta la faccia.
Sunshine rabbrividisce pensando che, tramite quei segni, qualcosa di terribile si è ancorato al suo corpo per portarlo via con sé.
 
   
 
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