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Autore: U N Owen    28/10/2013    2 recensioni
Dieci ragazzi si riuniscono a Dreadpeak Lodge, una lussuosa baita di montagna, ma non tutto andrà come previsto.
A cena, una voce rievocherà l'oscuro passato che li accomuna, per poi recitare un'inquietante filastrocca:
"Dieci piccoli indiani andarono a mangiar,
uno fece indigestione, solo nove ne restar
[...]
Solo, il povero indiano, in un bosco se ne andò,
ad un pino s’ impiccò e nessuno ne restò"

Ispirata a "Dieci Piccoli Indiani" di Agatha Christie, questa storia è scritta a quattro mani da U N Owen e Belfagor, il cui profilo è qui consultabile: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=51754
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 9

James e Robert si gridavano contro. Alexis tentava, sull'orlo delle lacrime, di farli smettere.
Per la precisione, James accusava Robert di aver ucciso Eveline, e dunque tutti gli altri. Questo poiché, dietro sua stessa ammissione, era sceso in cucina a prendere la candela che ancora reggeva in mano. Robert gli faceva notare altrettanto pacatamente che non sarebbe mai stato così stupido da dirlo se fosse stato lui l'assassino, e che non aveva notato Eveline per terra non perché fosse cieco, ma perché non c'era luce e perché la scatola di candele era sul tavolo, dove ancora si trovava.
Nel mentre, Alexis agitava debolmente le braccia in mezzo ai due ragazzi per cercare di calmarli.
Ad un certo punto, fortunatamente, James emise un verso di sorpresa.
«Che c'è?» chiese Alexis, in ansia.
«Temo» disse il ragazzo rivolto a Robert «di doverti dare ragione. Eveline aveva preso una candela.»
Stava indicando un punto del pavimento, vicino alla porta. C'era una candela quasi intatta, solo leggermente consumata, dentro ciò che restava di un bicchiere infranto.
«Chissà cos'è successo.» chiese Alexis, la voce venata di ansia.
«Piuttosto, dove sarà Isabel?»
Il quesito di Robert cadde nel silenzio più totale.

Passarono i minuti. Poi le ore. Infine giunse l'alba, accolta con sollievo dai tre individui ormai stravolti, che l'avevano attesa in salotto, senza riuscire a chiudere occhio.
«Vi prego, usciamo. Non ne posso più di questa casa, la odio.»
Forse per la prima volta nella loro intera vita udirono un tono di supplica nella voce di James.
«E poi ormai c'è il sole. Potrebbero arrivare dei soccorsi.»
«E' solo giovedì. Le seggiovie non ripartiranno fino a domani. E nessuno ci vedrà, per quanto ci sbracciamo. Siamo in mezzo ai boschi su una montagna.» Robert, dal canto suo, non aveva perso la saccenza.
«Io vado fuori con James. Se resto ancora qui potrei dare fuori di testa. E poi qua ho la sgradevole sensazione che qualcuno ci osservi. Tu fai cosa vuoi.»
Alzandosi dalla poltrona in cui era rannicchiata, Alexis, con gli arti indolenziti dalla forzata immobilità, si mosse verso James, lanciando un'occhiata ansiosa alle scale. Ovviamente pensava a Isabel.
Tutti pensavano a Isabel e alla sua mania omicida.
«E va bene» bofonchiò Robert.
Così i tre si diressero fuori, sul piccolo spiazzo davanti alla villa. Per buona misura controllarono anche il retro, ma non trovarono alcunché di strano.

Alexis si era aggrappata al braccio di James come ad un'ancora di salvezza. Robert invece, irrequieto, continuava a camminare in cerchi.
Nessuno aveva veramente voglia di parlare, ma l'ansia e la tensione erano più forti.
«Dunque è stata Isabel.»
«Eveline è morta, e lei è sparita. Mi sembra ovvio.»
«Non così ovvio, James. Ormai ho rinunciato alle certezze. Potrebbe essere morta anche lei.»
«E' assurdo! Come potrebbe una persona commettere due omicidi in così poco tempo? Nessuno di noi tre avrebbe avuto il tempo materiale.» Alexis sospirò.
«Oltretutto, dove sarebbe il cadavere?»
«Non considerate le statuine. Erano tre. E noi siamo in tre.»
«Non hai considerato che ci volesse ingannare?»
Robert esitò. Per una volta non sapeva cosa ribattere.
«E va bene, potreste anche avere ragione.» ammise infine controvoglia.
Quando scese il silenzio, la tensione tornò a farsi sentire.

«Però non posso fare a meno di pensare a quella maledetta filastrocca. Uno un granchio se lo prese. Che cosa può significare? Qua non vedo né mare né granchi.» James era disposto anche a sentire la voce presuntuosa di Robert, pur di non soffrire oltre quel silenzio opprimente.
«Non essere così banale, fin'ora Onym ha dimostrato una certa creatività nell'interpretare le strofe.»
Le parole si persero nuovamente nel vuoto, tra le occhiate sospettose.
«Fino a pochi giorni fa eravamo così felici...» Alexis rimase con lo sguardo perso nel vuoto, affranta.
«E tutto a causa di uno stupido incidente. Dopo quello che abbiamo fatto per non essere scoperti è quasi ironico finire così.»
Nessuno commentò.

Il sole era ormai alto in cielo, la luce scintillava sulla neve fresca. Un'atmosfera di irreale tranquillità era scesa sul gruppo. Tuttavia, la mente di Robert era tormentata. Non era convinto quanto gli altri che l'assassina fosse Isabel, ma al contempo doveva dar ragione alle obiezioni di James e Alexis. Forse per la prima volta in tutta quella terrificante vicenda stava cominciando a perdere il controllo di sé. Pensieri confusi gli annebbiarono la mente, finché non giunse ad una conclusione che gli parve molto lucida.
Non voleva certo morire. Vista la situazione loro sarebbero stati processati e condannati. A questo punto, tanto valeva andare fino in fondo e vendere cara la pelle. Chiunque fosse il colpevole, lui l'avrebbe fatto fuori, e sapeva pure come. Dopotutto ci era già passato una volta. Curiosamente, l'idea gli era proprio giunta dalla filastrocca. Stupido James e gli altrettanto stupidi trofei di caccia di suo padre.
«Sentite, non so voi, ma io ho fame. Vado a prendere qualcosa da mettere sotto i denti.» disse d'improvviso, riuscendo a non far trapelare l'eccitazione che lo pervadeva.
«Tu sei pazzo, vuoi andare nella tana dell'orso?!» esclamò Alexis, con gli occhi sbarrati.
«Non preoccuparti, me la caverò.»
«Non provare a fare cose strane.» James guardava a valle. «Non ci penserei due volte a reagire, lo sai.»
«Vado solo a prendere da mangiare, torno subito.» ripeté Robert con tono esasperato.
E si allontanò, seguito dagli sguardi sospettosi e ansiosi degli altri due. Infine, sparì oltre la porta d'ingresso.

Robert, una volta chiusa la porta alle proprie spalle, si aggiustò gli occhiali sul naso con un ghigno.
Si diresse a passo sicuro verso il salone centrale, raggiunse il camino e afferrò uno degli elaborati attizzatoi. Quella casa era piena di possibili armi e nessuno pareva essersene accorto. Neppure il geniale padrone di casa.
Comunque, ora non gli restava che trovare Isabel. Soppesò assorto l'arnese, pensando a dove potesse nascondersi la ragazza, e infine, con aria soddisfatta, vibrò un paio di fendenti in aria.

«Manca poco, così poco, e tutto sarà finito.» Alexis scrutava con disperazione le funi della seggiovia in lontananza, fin giù verso valle, passando per i fitti boschi.
«Se ci fosse mio padre potremmo fuggire a piedi.» aggiunse James, con una nota di amarezza nella voce. «Comunque non mi piace.»
«Che cosa?»
«Il comportamento di Robert, prima. Aveva qualcosa di losco. E ci sta mettendo troppo tempo.»

Robert correva, rapido, giù per le scale.
«Lo sapevo, lo sapevo!» ora aveva completamente perso il controllo, aveva le pupille dilatate e sudava copiosamente. Aveva previsto l'evenienza, ma solo successivamente era stato investito dalla forza delle conclusioni della sua scoperta. Camminava e ansimava febbrilmente, completamente assorto da un unico pensiero. In fondo alle scale si volse e continuò a correre a rotta di collo lungo i corridoi, guardandosi ogni tanto alle spalle.
Ormai la sua meta era vicina.
La stanza dei trofei di caccia del signor Conquest era a portata di mano, e con essa, la salvezza.
Con il fiato corto e la mano tremante, infine, si accinse ad aprire la porta.

James e Alexis attendevano con ansia il ritorno di Robert. Guardavano l'entrata della tenuta dei Conquest, lanciando continue occhiate a valle e attorno a loro.
«Ci sta mettendo decisamente troppo tempo» mormorò James a un tratto «Non mi...»
Ma venne bruscamente interrotto da un gran fracasso. Alexis sobbalzò.
«...piace.» concluse con gli occhi sbarrati.
«Che cos'è stato?» chiese con un filo di voce la ragazza.
«Non ne ho idea, ma sembrava parecchio pesante.»
I due si guardarono negli occhi e si diressero rapidamente nella direzione del rumore.
«Tieniti pronta» mormorò James, «Temo di sapere da dove sia venuto. E potremmo dover agire per difenderci.»
«Credi che sia stata Isabel?»
«Ne sono quasi certo.»
Entrarono nel grande atrio della villa, ora in penombra poiché il sole batteva sull'altro lato della casa. L'inquietudine si insinuò nei due giovani. Si guardarono intorno, sentendosi osservati.
«Rapida.» James prese Alexis per un braccio e si mosse, rapido e silenzioso, verso destra.
Percorsero numerosi corridoi e stanze con il cuore in gola, cercando di evitare il minimo rumore.
Infine si trovarono di fronte alla stanza dei trofei di caccia. La porta era socchiusa.
Alexis agì per prima, non riuscendo più a trattenere l'ansia che le stringeva il petto come in una morsa. Spinse la porta, preparandosi a cosa si sarebbe potuta trovare di fronte.
Trattenne rumorosamente il fiato, portandosi una mano alla bocca. James spalancò gli occhi.
Di fronte a loro giaceva esanime Robert, gli occhiali erano volati in un angolo della stanza. Era bloccato a terra da un enorme orso impagliato, legato da delle funi. Una zampa gli aveva fracassato la cassa toracica. Una statuetta di ceramica si era frantumata contro una parete.
«L'orso di tuo padre...» Alexis, tremante, si era accasciata contro un muro.
James invece, una volta superato lo shock iniziale, si era chinato sul cadavere. Robert stringeva ancora in una mano un pesante fucile da caccia. Il ragazzo lo afferrò e lo strappò dalle sue mani senza tante cerimonie. Si alzò e si volse.
I due si guardarono, l'uno scuro in volto, l'altra cerea. Lei, ancora appoggiata al muro, venne colta da un forte senso di nausea. Il viso le si contrasse in un'espressione angosciata. Le conseguenze della scoperta appena fatta erano chiarissime.
«Ora basta.» ringhiò James. Una vena gli pulsava sulla tempia. Strinse con forza il fucile e si diresse verso un'antica cassettiera intagliata posta contro una parete. «La faremo finita. Una volta per tutte.»
Aprì di scatto uno dei cassetti e tirò fuori delle cartucce. Le inserì nel fucile «Ora che non ci sono più idioti di torno faremo come dico io» disse con forza, e caricò.
Alexis era terrorizzata, tuttavia annuì.
«Molto bene. E ora troviamo Isabel. Seguimi, e guardati le spalle.»
Con i nervi a fior di pelle e i muscoli pronti a scattare i due uscirono dalla stanza, noncuranti del defunto amico, e cominciarono a perlustrare ogni stanza.
Cercarono e cercarono, James in testa, senza proferire parola per molto tempo, ma senza risultato alcuno.

Il sole cominciava già ad abbassarsi sull'orizzonte quando Alexis parlò per la prima volta, con voce incerta.
«Ma da quella parte cosa c'è? Non abbiamo ancora controllato, giusto?» disse indicando un corridoio in ombra.
«E' un'ala in disuso, un incendio l'ha rovinata tempo fa e non l'abbiamo mai fatta ristrutturare.» rispose James mormorando. «E' una buona idea, dovremmo provare.»
Si avvicinò ad un interruttore e tentò di accendere le luci del corridoio. Una crepitò debolmente e infine si accese, gettando tutt'intorno una cupa e sfarfallante luce che illuminò le pareti annerite, presto divorate dalla penombra.
James deglutì, una goccia di sudore gli scese sulla fronte mentre impugnava con sempre maggiore forza il fucile.
I due avanzarono cautamente, tesi come non mai. Aprirono poco alla volta ogni stanza, ma ancora senza risultati. Superarono infine quell'unica lampadina che sia era accesa, i segni del panico ormai evidenti.
James si avvicinò ed aprì cautamente la porta alla sua sinistra. La luce dentro era accesa.
«Cos...»
«Cosa c'è?» chiese angosciata Alexis, affacciandosi da dietro le spalle di James.
Un'immagine attraversò la mente del ragazzo come un fulmine, rivide davanti a sé quei terribili ricordi con una vividezza assoluta, come se si trovasse lì in quel momento, trasportato da incubo a incubo. Dalla villa a quella terribile scogliera.
Rivide quel volto, pallido e verdastro, dalle fattezze deformi, gonfie, ma inconfondibili. Risentì con sconcertante forza la consapevolezza delle conseguenze delle proprie azioni, sue e dei suoi amici. Gli sguardi preoccupati, angosciati, la corsa disperata verso la riva. E poi la fuga in preda all'ansia, cercando di non farsi vedere, consci di ciò che avrebbe comportato una loro eventuale scoperta. Le accuse reciproche e la paura, vera, tangibile.
E il giorno dopo la scomparsa, le ricerche e l'orribile notizia di morte che scosse tutto il college. Si parlò di incidente, di suicidio, infine di omicidio. Qualcuno disse di aver visto dieci persone fuori dall'edificio, quella notte. Le voci cominciarono a girare e il sospetto ad insinuarsi. La costante paura nei giorni successivi che qualcosa venisse a galla, vivida. Il confronto con suo padre, che nonostante tutto fece qualsiasi cosa per coprire le tracce, le voci, le dicerie. Infine funzionò, il caso venne archiviato come suicidio e nessuno ne parlò più.
Ma James ricordava tutto. Ricordava quel volto sommerso ai piedi dell'alta scogliera, nell'acqua verdastra, gli occhi vitrei, accusatori, che lo fissavano, gli stessi che si trovava ora davanti. No, non erano gli stessi. Gli occhi di quella notte erano di un azzurro sbiadito, pallido, adesso invece erano un marrone caldo e scuro.
«Isabel...?!»

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Messaggio dell'autore
Bentornati! Come avete visto, non siamo morti. Io personalmente ci sono andato vicino (anche no, per fortuna). La sessione estiva è stata orribile e non ho avuto il tempo materiale per scrivere. Non cerco giustificazioni, per questo vi chiedo solo scusa.
Riguardo alla storia, siamo ormai alle battute finali, alla resa dei conti, ecc. ecc..
Spero che, nonostante la "pausa" estiva, abbiate ancora voglia di leggerci, seguirci e, perchè no, dirci cosa ne pensate!
Alla prossima,
Owen.
  
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